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Autore: Nemainn    13/11/2015    11 recensioni
Meritavano, gli umani, quel mondo che stavano distruggendo?
Meritavano quel cielo negato a chi tra loro l'aveva bramato e a cui era stato sottratto?
Stavano uccidendo loro stessi e ciò che li circondava in un'apoteosi di cieco egoismo, inconsapevoli dei loro stessi atti, desiderosi di innalzarsi senza più vedere le conseguenze dei loro gesti, e loro ne erano il risultato.

Hanno creato degli Dei, ma erano solo bambini.
Hanno avuto paura.
Hanno cercato di ucciderli, e questa è la loro storia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- 02 - Fine -

 

Il rimbombo dei ricordi nella mente di Kalì era assordante, la sommergeva riempiendo i suoi occhi di lacrime e avvolgendola nel dolore, eppure un cambiamento nel respiro del ragazzo riuscì a calamitare ogni sua attenzione. Con fatica distolse la mente dai ricordi, osservandoli. Si stavano svegliando, erano abbracciati, sporchi e vicini alla denutrizione, eppure in loro vedeva quello che erano state lei e le sue sorelle, quel legame luminoso che ancora, in qualche modo, sentiva, vuoto e doloroso.
«Non abbiate paura.» disse in tono basso e carezzevole, osservando la spavento dipinto sui lineamenti dei ragazzi. Avvolta in un abito sottile, una lunga tunica smanicata scarlatta, fece un passo avanti. «Non sono qua per nuocervi. Ero in stasi e il vostro arrivo ha attivato il protocollo di risveglio.» spiegò, cercando di apparire inoffensiva.
Candra e Shiva si guardarono, spaventati da quella donna, dalla sua presenza che pareva oscurare qualunque luce. Era di una bellezza eccezionale, di quel genere che, però, atterriva, sgomentava e toglieva il fiato. Era la bellezza della lama di una spada, il filo che riluce sporco di sangue, dell'ultimo brillio di un sole che muore. Deglutendo, Candra, certa che quella donna fosse pericolosa, si mise davanti al fratello, fissandola con sguardo battagliero nonostante quella stretta gelida allo stomaco e le gambe molli. «Chi sei?»
«Mi hanno chiamata Kalì.»
I due ragazzi la fissarono, studiandola per lunghi attimi. Shiva si mise in ginocchio sul letto, una mano sulla spalla della sorella, sporgendosi per osservarla meglio. Ma ogni sua possibile esternazione fu preceduta da Candra, che pareva essersi ripresa prima di lui. «Ti hanno chiamata...? Cosa intendi?»
La donna sorrise e denti bianchissimi balenarono per un istante tra le rosse labbra carnose. Kalì aveva notato come la femmina avesse protetto il maschio, come nascondesse il timore. «Tutti hanno ricevuto il nome da qualcun altro; anche voi, immagino.» Sorrise nuovamente, indicando il tavolino vicino al letto su cui erano posati alcuni vassoi coperti. «Cibo, se ne volete.»
Shiva alzò il coperchio di uno dei vassoi e i suoi occhi si sgranarono alla vista di quelle leccornie. Allungò la mano, ma la sorella lo bloccò. «Perché ci dai cibo?»
«L'ospitalità non è più sacra?» muovendosi lentamente, per non spaventare i due umani, la donna si avvicinò al tavolo scoprendo gli altri piatti da cui s'innalzò una voluta di vapore e un profumo delizioso. «Se temete qualche inganno posso mangiare con voi.»
Candra la guardò, studiandola, infine annuì. «Ce n'è abbastanza per tre.» sentenziò e lasciò il polso del fratello che si gettò sul cibo, famelico.
Sedendosi davanti ai fratelli, Kalì li osservava, spiluccando del riso mentre gli odori forti e ricchi delle spezie invadevano l'aria.
Questo era ciò che era diventata l'umanità? Ragazzini malati, sporchi, spaventati e denutriti? Orfani che si guadagnavano da vivere sfuggendo a chi era più forte di loro?
Mandò gli impulsi necessari, la sua mente in sintonia con quella artificiale del complesso scientifico, e le immagini della Terra le arrivarono dai satelliti. Aree completamente distrutte, annientate dal sole che non trovava quasi barriera nell'atmosfera. Quando la guerra dei tre giorni era terminata, la polvere posata e i morti dimenticati, quello che l'uomo aveva fatto era comunque rimasto. Inquinamento, radioattività, aree intere devastate dalla contaminazione chimica e biologica. E, sopra tutto quello, un cielo che aveva smesso di essere la protezione del pianeta. Piante e animali estinti, decimati, mutati. Uomini che davano vita a veri mostri... il mondo, la storia della superficie, passò nella sua mente.
«È questo che è nato dalla pietà di Shiva?» sussurrò mesta, sovrappensiero.
Immediatamente il ragazzo alzò gli occhi, fissandola incuriosito. «Cosa?» Con ai lati della bocca delle chiazze di cibo sembrava piccolo, ma gli occhi smentivano quell'aspetto così infantile. Poteva essere giovane, un ragazzo, ma era anche vecchio. Come il suo amato, lo stesso sguardo. Così simili e così diversi... Kalì strinse le dita tra loro, sentendo il dolore pungente e affilato che le attraversava il cuore.
«Pensavo ad alta voce.» disse con una leggera smorfia che poteva quasi sembrare un sorriso.
Shiva inclinò il capo, studiandola. «Hai detto il mio nome.» Kalì annuì al ragazzo che continuava a mangiare, senza però togliere gli occhi da lei. Era curioso, anzi, sospettoso.
«Sì, so i vostri nomi. Questo luogo ha occhi e orecchie.»
«Ci spiavi?» Candra chiese, pulendosi la bocca con il dorso della mano e la donna notò una chiazza grigia, grossa come una moneta, sopra il polso. Sapeva che era malata, ma l'impatto visivo di quella macchia per un attimo la turbò.
«Qualcosa del genere, il processo di risveglio non è immediato.» la mano nera di Kalì si posò sul polso di Candra e lo girò, in modo da poter vedere bene quella degenerazione cutanea che si spandeva nella carne. «Non appena ho potuto muovermi sono venuta da voi. Non dovete temermi.» La ragazza la lasciò fare, irrigidita, temendo qualche reazione. Solitamente, anche se non era infettiva, la gente colpita da quella malattia veniva scacciata malamente. Ricordava bene come ai confini delle città, in quella fascia che non era ancora selvaggia ma non era più protetta, se quello che si trovava nelle città poteva essere chiamata protezione, quelli colpiti dal morbo sostavano. Attendevano la morte, soli, i movimenti sempre più difficili mentre grossi tratti di pelle, di carne, diventavano grigi, fino a quando non potevano fare altro che rannicchiarsi a terra attendendo la morte, di diventare polvere. Perfino il conforto delle lacrime e delle parole era negato quando la malattia si spandeva, raggiungendo gola e occhi. Il morbo del sole malato era una maledizione, dicevano, era l'ira degli dèi, chiunque fossero, che si abbatteva su di loro.
I due fratelli si guardarono, incerti nel credere all'affermazione di quella sconosciuta, nell'avere fiducia in quelle parole; come potevano non temere quell'estranea? Abituati alla minaccia perenne che li circondava, a guardarsi le spalle, alla paura, la fiducia era un sentimento sconosciuto e pericoloso, se non tra loro.
«Un occhio aperto e un pizzico di sfiducia e si arriva al domani.» esordì Candra, lasciando che quella strana donna dai capelli fiammanti la studiasse mentre sfilava il polso dalla presa delicata. «Lo diceva nostra nonna, una cosa in cui ho sempre creduto.»
«Una donna saggia, è morta?»
«Era vecchia.» Si limitò a dire Shiva, alzando gli occhi dal cibo e sospirando, finalmente sazio. «Ma che posto è, questo?»
«Era una cittadella scientifica segreta. Esperimenti biologici, molecolari, manipolazioni genetiche...» Kalì si indicò con un mezzo sorriso. «Come potete vedere, del resto.»
«Beh, ma ci sei solo tu?» Shiva la guardò. Non era poi così stupefacente o strano quello che la donna diceva; molti dei sopravvissuti avevano oltrepassato i limiti del DNA e della carne, avevano fuso loro stessi con le macchine o erano mutati per colpa del sole, e intere tribù di esseri che non si potevano più definire umani vagavano. Ma lei non era stata il frutto più o meno casuale di tentativi e follia, era stata voluta. Almeno, quello era ciò che Shiva pensava, curioso, osservandola con sempre più attenzione. «Ti hanno lasciata qua da sola?»
Qualcosa dovette trasparire dal viso della donna e Candra, istintivamente, mossa da un'empatia che raramente esternava, posò una mano su quella di lei. «Mi dispiace, è brutto rimanere soli.»
«È stata la mia punizione, la mia scelta...» sospirò, gli occhi di rubino distanti, voltati al passato. «Ho compiuto atti che necessitavano di espiazione e i miei fratelli hanno accettato che rimanessi qua a guardia di questo luogo.»
Ma non era solo quello, no, era molto di più quello che avevano ordito. Lei, la più potente tra di loro, era non solo la guardiana del loro luogo di nascita, del posto che custodiva i segreti della loro origine. Proteggendo ciò che non aveva potuto abbattere, lei era la sentinella dell'umanità. Quello era il prezzo sia della sua calma, che della sua colpa.
Quando aveva cessato la sua danza selvaggia, quando la sua sete di sangue si era calmata e le sue lacrime esaurite, si era guardata attorno e aveva visto.
Molti di loro erano morti, ma molti ancora erano vivi. Nei giorni che trascorsero Shakti le rimase sempre accanto e così Shiva, riempiendo il suo cuore mentre lei e la sorella, vicendevolmente, ricucivano e sanavano quell'anima che le univa, dando una nuova armonia alla loro essenza. Era stato un processo lungo e complesso, dove prima erano tre, ora erano due, l'equilibrio era meno stabile, meno solido, ma il legame divenne perfino più stretto, al di là di ogni immaginazione. Shakti e Kalì erano un'unica cosa, agivano e pensavano l'una in complemento dell'altra e quel dolore, quella solitudine, quel vuoto, divenne meno doloroso pur continuando a esistere perché nulla, mai, avrebbe potuto colmare quello spazio in cui Saraswati era vissuta. Nelle loro anime la ferita avrebbe sanguinato per sempre, ma impararono una cosa che agli umani era nota; sulla loro pelle, nel loro cuore, capirono che la vita continuava e che il dolore diventava sopportabile, che c'erano sempre ragioni per proseguire. Lo videro in ogni umano che incontravano, mescolandosi tra loro, osservando, guardando e studiando quella che era l'umanità al di fuori della protezione della cittadella scientifica, dopo la guerra dei tre giorni, dopo la devastazione. Viaggiarono in lungo e in largo, calcando le strade di quella terra che ancora caparbiamente si chiamava India, parlando con chi rivolgeva loro la parola, difendendo chi decidevano meritevole del loro intervento, donando ciò che potevano grazie alle loro capacità, mentre leggende fiorivano alle loro spalle, storie che parlavano di interventi divini. Ma non videro solo il bene, furono lunghi gli anni in cui peregrinarono per il mondo, unendosi e dividendosi dai loro fratelli, ma loro tre rimanevano sempre uniti. Shiva, Kalì e Shakti erano indivisibili, erano una famiglia, un'unione di anime. Videro le stelle, le distese selvagge della giungla, le cime innevate dei monti che, così alti, toccavano il cielo e amoreggiavano con gli astri notturni. Kalì e Shakti contemplarono tutte quelle meraviglie che Saraswati aveva desiderato vedere, ogni notte ammiravano il firmamento e pensavano a lei, stringendosi l'una all'altra, in silenzio.
Nel loro girovagare senza una vera meta, però, osservarono soprattutto l'uomo. Appresero sulla loro pelle cosa rendeva l'essere umano così unico e speciale, così magnifico e così terrificante, e Kalì si sentì dilaniata da colpa e rimorso mentre ancora la rabbia ruggiva, a volte, in lei. Aveva sterminato quasi completamente la popolazione della Terra, eppure non si erano dati per vinti. Aveva, grazie a Shiva che l'aveva fermata, dato una possibilità a quell'umanità e non se ne pentiva. Collaborando, il più delle volte, avevano ricominciato a edificare nuovamente il loro mondo, vedeva i semi di nuove città, sostegno e giustizia ma, come ogni medaglia, anche quella nuova aveva un altro lato, più terribile e oscuro. L'uomo non era fatto solo di bene, ma neppure solo di male, era entrambi e sceglieva come agire di volta in volta e c'era chi prediligeva sfruttare gli altri e la forza, chi la tolleranza, la lungimiranza e la collaborazione.
Videro che molti innocenti erano vittime di tiranni, nuovi re si erano innalzati dalle macerie e, padroni dell'ultima tecnologia, comandavano come dittatori. L'umanità si riprendeva facendone pagare il prezzo a chi, debole e fragile, non poteva opporsi. Più il tempo passava, nel loro viaggio, più quei gesti oscuri prendevano forza: l'uomo aveva abbandonato la via della collaborazione sempre di più, mentre antiche e mai dimenticate faide tra caste, famiglie e litigi atavici tornavano a galla. Il momento più difficile era terminato, la ricostruzione iniziata e i primi luoghi sicuri affermati e, in quello scenario, aveva iniziato a proliferare il male. L'omicidio, lo stupro, ogni forma di villana interazione maligna si radicava sempre più, come un cancro. Ingiustizie e gesti d'altruismo si alternarono, però, davanti a loro in quel lungo vagabondare, colmandoli sia di meraviglia che di orrore.
Quell'apocalisse era stata causata da lei, tutto quello era causa sua. La perdita di ogni legge, di ogni giustizia, e Kalì non se ne faceva una ragione, soffrendo, desiderando imporsi per portare pace e armonia, ma non era quello il loro compito, l'uomo aveva una strada, le diceva Shakti, e doveva imboccarla da solo. Non erano dèi, non erano ciò a cui si erano ispirati nel crearli. Potevano vegliare e fare piccole cose, ma se fossero loro stessi divenuti re e dittatori, allora non sarebbero stati migliori degli uomini che quello facevano. Quelle parole della sorella le davano forza e coraggio, così come il suo coltivare la speranza e la fiducia nell'umanità.
Scoprirono che molti dei loro fratelli si stavano prodigando per l'uomo e, nascosti nell'ombra, creavano piccole oasi serene e pacifiche, in cui davano la possibilità di vivere con giustezza senza governare, ma proteggendo coloro che decidevano di vivere un'esistenza libera dalla tirannia. Ma l'uomo non pareva fatto per la felicità o la giustizia: resero anche quei luoghi infetti dal morbo delle peggiori bassezze umane. Eppure, anche in quegli scenari, vedevano palesarsi gesti così altruistici e grandi da mettere in ombra il male. Quegli esseri, quegli dèi creati in laboratorio, si sparpagliarono sempre più cercando risposte alle loro domande, cercando speranza, cercando quello che avrebbe dato loro pace da quell'inquietudine. Avevano forse uno scopo, forse no, ma cercare alla propria esistenza un fine era qualcosa a cui non potevano sfuggire. Alcuni, nel tempo, si erano addormentati di un sonno senza ritorno, privi di speranza o scopo, altri si spensero definitivamente fermando consapevolmente il loro cuore, e il loro numero diminuì ancora portando nuovo e immenso dolore a ognuno di loro. Quando uno di loro cessava di vivere lo sapevano, lo sentivano, e soffrivano.
Fatti non fummo per vivere.” Quello le aveva detto un giorno, Shiva, al culmine dello sconforto, e lei aveva pianto di rabbia e dolore. Erano vivi, dovevano continuare a vivere! Avevano ciò che Saraswati aveva sognato: avevano la terra sotto i piedi e il capo coronato di stelle, poteva davvero il saggio e compassionevole compagno della loro anima perdere di vista la gioia che aveva sempre accompagnato la sua esistenza? Shiva s'incupiva ogni giorno di più, cessando di essere luminoso e giusto, fermato più volte da Kalì e Shakti quando il suo desiderio di giustizia diventava troppo simile a cieca vendetta e furia che bramava sangue.
Ma il declino di Shiva continuò e Kalì vide ciò che era avvenuto a lei nascere e radicarsi nel cuore dell'amato: ciò che le aveva imposto di salvare, ora lui voleva distruggere. Il ricordo si allontanò quando il silenzio dei due fratelli si fece pesante, così Kalì riportò la sua attenzione a loro e fu la prima a parlare. «Cosa desiderate fare? Non potete rimanere qua a tempo indeterminato.»
«Possiamo riposarci ancora un po'? Ce ne andremo il prima possibile, eravamo... inseguiti.» Candra disse a mezza voce, incerta, e si rilassò visibilmente quando Kalì annuì.
«Potete rimanere anche qualche giorno, questo è possibile.»
La donna si alzò e i due ragazzi l'imitarono, seguendola mentre li guidava lungo le vie di quel luogo fantastico, un giardino divino, così come prometteva quel nome.
Vagarono con passo tranquillo e quando si fermarono in un giardino colmo di alberi da frutto e fontane gorgoglianti, Candra notò un'altra di quelle strane frasi incisa su un basso muretto. Lesse ad alta voce: «In principio vi era oscurità nascosta da oscurità; indistinguibile, tutto questo era acqua. Ciò che era nascosto dal vuoto, l'Uno, venendo in essere, sorse attraverso il potere dell'ardore.» fece una pausa e fissò Kalì «Queste frasi sono... strane. Cosa sono?»
«Citazioni.» la donna sorrise e con la mano tracciò i contorni di quelle lettere. «Sono brani di un libro così antico che era quasi dimenticato quando la cittadella fu costruita, si chiama Rig Veda. Era un libro di sapienza filosofica.»
«Filosofia?» Shiva alzò un sopracciglio.
«Roba che non si mangia, tranquillo.» gli rispose la sorella, prendendolo in giro.
Lui, per tutta risposta sbuffò. «Guarda che so cosa è la filosofia, nonna l'ascoltavo anche io...»
Candra annuì, allungando la mano per scompigliare i capelli al fratello, mentre si sedeva su una panchina sotto le fronde fiorite di un albero. Kalì si avvicinò, osservandoli, e lo sguardo dei due ragazzi incontrò il suo.
«Ma quindi tu sei sola qua?» Shiva domandò, sporgendosi verso la donna che, lo doveva ammettere, l'incuriosiva parecchio.
«Sì, e no. Qua c'è un altro come me, ma... dorme, non può uscire dalla stasi.» Il sorriso mesto di lei aveva qualcosa di così doloroso da mettere in profondo disagio i ragazzi, che si guardarono.
«Beh, quindi siete solo due?» Candra si portò le ginocchia al petto, abbracciandole e inclinando appena il capo proseguì. «Hanno... creato solo voi?»
Kalì sospirò, ponderando l'idea di raccontare ai due ragazzi la sua storia, dei suoi fratelli e delle sue sorelle, di divulgare almeno una parte di quelle memorie che erano custodite in lei. Sarebbe stato doloroso, ma forse anche liberatorio. «No,» disse infine, la decisione presa «eravamo in tanti, davvero in tanti.
«Un tempo lontano, ormai più di ottocento anni fa, il mondo era al vertice dello sviluppo. L'uomo voleva creare, essere un dio, non voleva più solo rimaneggiare la materia. Quel desiderio così pericoloso e controverso divenne realtà in questo luogo, iniziarono a manipolare il genoma umano, il codice genetico, unendo scienza medica in ogni forma a biomeccanica, tecnologia, fino a creare una stirpe di esseri superiori. Eravamo noi.» Kalì si strofinò delicatamente lo zigomo, gli occhi di un rosso cupo come quello dei granati che guardavano senza vedere i volti attenti dei due ragazzi. «Io e le mie due sorelle fummo tra le prime a essere messe al mondo, eravamo tre corpi, tre menti, ma un'unica anima. Ognuna di noi viveva anche la vita delle altre due, eravamo come gemelli, più che gemelli. In altri punti della città, in altri laboratori, presero vita in breve tempo molti altri, ma non erano tutti esperimenti fortunati e riusciti, alcuni morirono in embrione.
«Altri erano così mostruosi che spaventarono gli scienziati che li avevano creati, che li uccisero. Altri ancora erano incompleti o in qualche modo sbagliati e lentamente uno dopo l'altro morirono. Sopravvivemmo in pochi fino alla pubertà, non eravamo che una quarantina. E solo allora ci fecero conoscere tra di noi. L'isolamento fu tolto e scoprimmo quello per cui fummo creati. Volevano migliorare la razza umana, ma noi non lo eravamo, non davvero. Eravamo qualcosa di nuovo e di diverso, qualcosa che trascendeva l'uomo. In noi coesistono carne e tecnologia in un equilibrio naturale e perfetto, una cosa che nessun umano innestato potrebbe mai ottenere. Nanomacchine, potenziamenti neurali, particelle di collegamento... scherzando ci chiamavano i loro piccoli dèi.
«Scherzavano, ridevano, ma avevano paura. Alcuni di noi li spaventavano in modo oscuro, quasi istintivo, come Yama. Lo avevano chiamato come il dio dell'aldilà; era un ragazzino etereo, dai capelli candidi e dagli occhi completamente neri che sapeva cogliere ogni menzogna, ogni paura, mettere a nudo l'anima umana con un solo sguardo distratto. Imparammo tutti a nascondere quello che potevamo fare, scoprendo che nel programma degli scienziati, assieme alla nostra creazione, c'era la nostra distruzione.»
«Volevano uccidervi...? Hanno ucciso tutti?» Kalì lo fissò a lungo, trovando in lui così tanto del suo Shiva, quello sguardo così meraviglioso, intenso e fiducioso, colmo di compassione per lei che il cuore le fremette tra dolore, rimpianto e amore.
«Sì, una volta ottenuto quello che volevano era quello l'intento, eliminarci tutti e ci sono quasi riusciti.»
Shiva annuì, sentendo in qualche modo una certa affinità con quella donna che donna non era. «Va sempre a finire così. Ti usano, poi ti buttano quando non servi più.» il tono era amaro, ferito, non certo quello di un giovane con davanti a sé una vita.
«Eravamo esperimenti, nulla più per loro. Non era importante che avessimo coscienza di noi stessi, a loro ciò non interessava. Avevamo un solo scopo e, trascendendolo, eravamo diventati pericolosi, esperimenti fin troppo riusciti.» Kalì vide nella sua memoria ognuno di loro, i loro volti, le loro voci.
«Poi cosa è successo?» Candra parlò con voce sommessa, sentendo il dolore che la figura stessa di Kalì sembrava emanare.
«Poi hanno deciso di ucciderci tutti. Ma noi ce l'aspettavamo, avevamo bucato da tempo i protocolli a protezione dei file più interessanti, eppure ci presero alla sprovvista e uccisero molti di noi prima che riuscissimo a reagire, in preda allo shock.
«Venne la rabbia, il dolore, la morte di ognuno di noi era sentita da tutti, vibrava dolorosamente nelle nostre anime, la vivevamo. Alcuni di noi sono impazziti...» Io sono impazzita, pensò amaramente, guardando i volti dei discendenti di coloro che erano stati risparmiati. «La guerra dei tre giorni ha avuto inizio qua, da questa città sotterranea.»
Un silenzio esterrefatto calò, mentre i due ragazzi, sgranando gli occhi, guardavano quella donna, quella creatura, in modo nuovo, diverso, unendo ciò che sapevano a quello che era stato detto in quel luogo, a quello che ora potevano dedurre.
«Tu... voi... siete i mostri, i demoni, quello che ha devastato il mondo?!» con la voce strozzata, Shiva fissava incredulo Kalì. «Tu sei quella Kalì, quella
«Sì, sono quella Kalì, sono io che ho calpestato il vostro mondo.»
Candra posò una mano sul polso di Shiva, il suo volto era terreo ma il suo sguardo limpido e fermo non lasciò mai quello dell'altra. «Nonna era istruita, una delle ultime persone davvero erudite, forse. Ci ha raccontato quello che è successo, al di là delle leggende, quello che lei chiamava la storia dei fatti e non della fantasia degli sciocchi.» fece una pausa, umettandosi le labbra mentre scavava nella memoria alla ricerca delle parole e, come se l'anziana donna che li aveva cresciuti potesse riprendere vita, le parve di sentire ancora la sua voce nella mente. Era doloroso e bellissimo rievocare quei ricordi, i pomeriggi passati ad ascoltarla, con Shiva troppo piccolo per capire che le dormiva tra le braccia. «Mi ricordo. Con l'uomo in quella che lei chiamava l'epoca d'oro, i satelliti che orbitavano in geosincrono con il pianeta, la tecnologia che faceva i miracoli, siete arrivati voi. Lei diceva un esercito di super soldati, ma non era così, quindi. Eravate solo spaventati e arrabbiati. Ve la siete presa con il vostro creatore, con chi vi ha tradito...» Candra deglutì e Kalì la fissò, colpita. «Avevate paura. Lo capisco, ma credo che se avessi vissuto quei tre giorni vi avrei odiati. Avete decimato la razza umana, sterminata fino al punto che solo una persona su dieci, se non su venti, è sopravvissuta. Abbiamo perso quasi tutte le conoscenze. Nonna diceva che l'uomo era troppo specializzato, ormai. Nessuno poteva saper fare tutto, chi sapeva usare una macchina non sapeva ripararla, e anche così erano così complesse che ogni parte di esse aveva bisogno di talmente tante competenze, così tante persone, che lo sterminio ha portato alla perdita delle capacità essenziali. Nel tempo, inizialmente, qualcuno riusciva ancora a far funzionare davvero tutte quelle cose, a ripararne gran parte, ma la fame, il bisogno di soddisfare i bisogni primari, ha avuto il sopravvento e si è perso così tanto! La nonna chiamava questa l'età degli idioti sapienti. Sappiamo usare certe tecnologie alla cieca, senza comprenderle perché la morte di così tanta gente ha impedito che venissero trasmesse, sappiamo sfruttarle, ma non capirle. Sappiamo così poco...»
«Età degli idioti sapienti. Tua nonna aveva un senso dell'umorismo molto sottile...» Kalì disse con un piccolo sorriso venato di una tale cupa tristezza da poter spezzare il cuore. «Parlami ancora di tutto quello: io so cosa ho visto e fatto, ma non so la storia dal vostro punto di vista.»
Candra e Shiva si guardarono e il ragazzo si strinse nelle spalle, la sorella annuì e tornò a posare lo sguardo su Kalì. «Abbiamo perso quasi tutto. La gente gira con innesti che la metà delle volte non funzionano, i macchinari sono fermi, nessuno sa ripararli o farli partire. Il bisogno primario dell'uomo è il cibo, poi un riparo, poi la... famiglia. Ma mancano molte cose. I database medici sono rovinati, la conoscenza ormai è intrecciata alla superstizione e quando ci sono le malattie parlano di maledizioni divine.» Senza esserne consapevole, le dita di Candra scivolarono sulla macchia grigia sopra il polso, dove la pelle era fredda e indurita, simile a pietra. «Ogni generazione è sempre meno fortunata. Ci sono luoghi dove la conoscenza viene quasi adorata. Lì viene conservata, trasmessa, ma è quasi una religione. Pochi possono arrivare a quei luoghi e accedervi, sono protetti, sono fortezze.»
«In alcuni di quei luoghi dimorano i miei fratelli ancora desti.» mormorò Kalì, muovendo piano le mani sulla veste scarlatta, lisciandola sulle gambe. «Quelli che non si sono lasciati morire.»
«Allora è vero...?» Shiva prese la parola, sentendosi strano davanti a Kalì, a quell'essere che aveva distrutto il suo mondo. Eppure non riusciva a fargliene una colpa, per lui era un passato lontano, di cui non poteva portare rabbia o rancore. «Credevo fossero dicerie, parlavano di dèi protettori.»
Kalì lo guardò, desiderando allungare la mano e sfiorare il viso del ragazzo, ma si trattenne. «Quello è ciò che rimane di noi. Quando la follia cessò, alcuni vollero aiutare il mondo che avevamo distrutto. Volevano aiutare, proteggere, espiare in qualche modo la colpa, però non era facile. L'uomo è testardo, ha in sé bene e male ma spesso, nelle situazioni più estreme, ciò che porta con sé è solo l'eccesso. Viaggiai per il mondo, lo facemmo tutti, ma tornammo qua, nella terra che ci aveva dato i natali. Tornammo nell'India delle nostre radici, dove ci sentivamo legati, dove credevamo di sentire il richiamo di casa. A questa terra ci lega un'amore strano: volevamo tornare a casa senza averne davvero una. Ci perdemmo, che scopo avevamo? Vedevamo il bene e il male, e alcuni di noi tormentati dalla colpa, dall'assenza di certezze, decisero di fermare per sempre il loro cuore. Le perdite subite, il dolore, era troppo da sopportare per loro e posero fine alle loro esistenze. Il battito cessò e le loro carni divennero polvere. Altri decisero di addormentarsi, creando fortezze inespugnabili e nascoste camere di stasi che potevano durare in eterno, programmate per risvegliarli solo a determinate condizioni.» Kalì sospirò, amareggiata e stanca. «Poi chi ci aveva fermati, chi mi aveva fermato, perse la luce della speranza. Più viaggiavamo più vedevo il bene, come dalle macerie fiorissero germogli di speranza. Ma dove io vedevo gesti che nutrivano la mia fede, il mio amato vedeva solo distruzione e male. Lui, che mi aveva fermato, decise di terminare ciò che avevo iniziato...» La voce di Kalì si spense e i due ragazzi la fissarono sempre più irrequieti. «Shiva, si chiama come te. E tu mi ricordi lui.» Non si trattenne più, gli occhi lucidi, antichi, si mostrarono colmi di una fragilità talmente grande che colpì il ragazzo. Non si mosse quando la mano di lei gli si posò sul volto: era calda, morbida, viva.
«Lui dov'è?»
«Lui dorme. E io sono qua a vegliarlo, a proteggere il mondo da lui.» Kalì mormorava, sentendosi spezzata. Toccare il viso così caldo del giovane riportava a galla il dolore, la solitudine, quello struggente vuoto colmo di sofferenza in cui la morte delle sue sorelle e il sonno di Shiva la condannava. La sua espiazione, la sua scelta. Avevano tutti accettato e votato a favore di ciò, ma il peso era suo, solo suo. La responsabilità data da colpa e amore gravava unicamente su di lei. Era un fardello ingombrante che la schiacciava, ma solo lei poteva portarlo. Solo lei. Da sola.
Il giovane posò la sua mano su quella della donna, una carezza timida, impacciata, colma della freschezza di una gioventù mai davvero conosciuta da lei. L'altra mano di Kalì si trovò stretta tra quelle di Candra. Anche lei era calda, viva. Condannata.
Avevano il cuore colmo di dispiacere per lei, come se avessero guardato oltre le sue parole, oltre la carne, come se avessero visto la sua anima stretta in una corda di spine e lame. Candra e Shiva avevano percepito, avevano sentito quel dolore così umano, così immenso, così familiare a modo suo da essere impossibile da ignorare.
«Non sei sola, alcuni sono vivi...»
«Non posso andare da loro, ho un compito.» Kalì sfilò le mani da quelle dei ragazzi e sorrise mestamente. «Devo vegliare.»
Si alzò, fece alcuni passi e girò il capo, invitando i ragazzi a seguirla con lo sguardo. In una silenziosa processione si avviarono, guidati da lei, tra i giardini e le vie sopraelevate, tra androidi manutentori e macchinari che svolgevano lavori ripetitivi, guidati dall'intelligenza artificiale centrale. Luoghi colmi di bellezza si profilavano lungo quel percorso che li portò nel cuore di quella cittadella, nel giardino più segreto, nel cuore del fiore più bello.
Davanti a loro, in un eden colmo di vita, in un tripudio di boccioli e corolle, tra il canto di uccelli altrove estinti, due capsule di stasi simili a gocce di vetro riposavano, fianco a fianco. Illuminate dalla luce che filtrata dal fogliame assumeva sfumature di un delicato verde, erano come due bare di cristallo. Quella a destra era aperta, con i cavi al suo interno visibili, quella a sinistra era serrata, i lati accarezzati da rampicanti fioriti, coronati di corolle piccole e bianche, profumate. Kalì si avvicinò, posando la mano nera sulla superficie, accarezzandola e osservando l'interno. L'espressione divenne dolce, malinconica, colmandosi di una luce che pareva emanare amore.
«Lui è Shiva.»
Si avvicinarono e contemplarono l'uomo che risposava immerso in un liquido trasparente, il volto bellissimo, sereno, rilassato. Candra portò lo sguardo tra il volto dei due Shiva diverse volte; simili in certi tratti erano quasi l'uno lo specchio più giovane e magro dell'altro. Certo, suo fratello non aveva quella sfumatura blu della pelle, così come altre cose meno evidenti erano diverse, ma una certa, inspiegabile e inquietante somiglianza era evidente nelle pieghe della bocca e lei fu certa che avrebbero avuto lo stesso sorriso, lo stesso sguardo.
Allungando a sua volta la mano, il giovane sfiorò con aria quasi timorosa quella superficie. Un tocco accennato, incerto, che rifletteva la sua confusione. «Tu... tu lo ami?»
«Lo amo, lo amavamo.»
Quelle parole uscirono in un delicato soffio mentre gli occhi si chiudevano, contenendo il dolore. Si mosse, sfiorando con le mani i volti di entrambi i ragazzi, guardando i loro occhi, ripensando a ciò che le avevano detto. Il mondo stava ancora morendo, il declino era continuo, inarrestabile. Tra quanto l'uomo sarebbe diventato un animale?
Eppure loro due, con le loro parole, avevano dato nuova linfa alla sua speranza. Pur confermandole ciò che aveva visto dai satelliti, quel cannibalismo che continuava a intaccare l'umanità, quella mancanza di avanzamento, erano a modo loro splendidi.
Dalle sue mani un dono piccolo, segreto, passò da lei a loro e, non vista, la macchia sulla pelle di Candra iniziò a scolorirsi. Ci sarebbe voluto tempo, ma le nanomacchine che nel suo corpo vivevano potevano essere riprogrammate e lei lo aveva fatto. Aveva modificato una parte di sé, donandola a lei e a lui, sarebbero stati protetti. Le avevano donato molto, senza saperlo, e lei aveva deciso di ripagare ciò che avevano fatto. Le parole, i gesti, la luce di compassione che brillava nei lor occhi.
Finché ci sarebbe stata compassione e amore avrebbe vigilato, anche se il suo cuore era lacerato. Anche se la sua anima era attanagliata dalla sofferenza. Almeno, questo era ciò che la sua mente diceva, lottando contro il suo cuore e al suo unico desiderio.
Voleva riabbracciare Shiva.
Vedeva i due fratelli e desiderava potersi abbandonare tra le braccia di colui che amava, di potersi stringere a lui riempiendo finalmente quel vuoto che la sua assenza, che l'assenza delle sue sorelle, rendeva un tortura perenne. Avrebbe sacrificato il mondo intero per quello, lo avrebbe fatto... e allo stesso tempo lottava perché ciò non avvenisse, perché il suo tormento non vincesse, perché Shiva continuasse nel suo sonno.
Kalì ricordò come la pazzia che era stata sua era diventata di Shiva. La memoria di quello sguardo duro, che perdeva la pietà e la luce, divenne fuoco nella sua anima. Ricordava come il sogghigno del suo volto si era tramutato in quello del distruttore, mentre la sua personale giustizia si abbatteva sull'umanità che ormai riteneva indegna di essere salvata.
«Lui perché dorme?» Kalì alzò lo sguardo e le sue mani scivolarono, tornando lungo i suoi fianchi. Guardò il giovane e sorrise mestamente.
«Lui ha perso la speranza.» disse, mentre la mente tornava sui fatti lontani e le dita si stringevano sulla stoffa scarlatta, tremanti.
Lei e Shakti si erano opposte a lui, alla sua decisione, supplicandolo, bloccandolo, contenendolo, ma la ragione era lontana dal cuore e dalla mente del loro amato. Aveva visto troppa ingiustizia e sofferenza, troppa malvagità. Aveva perso la fiducia che, invece, Kalì e Shakti avevano guadagnato. Lui aveva fermato lei, indicandogli i germogli di speranza colmo di fede, mentre ora vedeva solo brulla morte e desolazione in quelle promesse in cui aveva creduto. Mentre lei, che aveva voluto e desiderato solo dolore e vendetta, aveva fatto tesoro di ogni seme di generosità e altruismo, di ogni piccola piccola gemma di umanità in quel mondo devastato, dando la sua fiducia all'uomo.
Kalì si allontanò di qualche passo dai ragazzi che osservavano la capsula di Shiva, per poi sorprenderla recitando un mantra che portava aiuto a chi era nel momento del bisogno, che si appellava al Buddha della compassione, al protettore di coloro che erano nel momento più buio.
«Om Mani Padme Hum...» sentiva le voci dei fratelli intrecciarsi in quell'omaggio al suo amato dormiente e si sentì stringere il cuore. Anche quella era l'umanità.
Così come lo era il sorriso di Candra pieno d'amore, il bracciale del Raksha Bandhhana al polso di Shiva, quel legame indissolubile e forte, quel rituale che continuava a esistere. Un segno d'amore che persisteva, più forte e radicato di qualunque altro simbolo d'odio.
Si sedette accanto a una fontana, all'ombra di un gelso, con le mani in grembo, mentre il suono delle voci che intonavano quel mantra le giungeva sottile e colmo di compassione.
«Shakti, Saraswati, cosa devo fare, sorelle mie?» mormorò con un filo di voce. «Ho giurato che avrei fatto una scelta, ancora una volta, ma quale è quella giusta?»
Chiuse gli occhi, sentendoli umidi, mentre il volto folle di Shiva le balzava alla mente.
Aveva perso la luce e non erano state in grado di salvarlo, non era stata in grado di salvare Shakti. Lei si era posta a baluardo tra quella follia e l'uomo, invocando la sua pietà, ma lui era ormai perduto. Era lanciato nel suo scopo ultimo: la distruzione completa necessaria a ricreare, a plasmare un nuovo mondo e una nuova umanità guidata da loro, una nuova razza. Ma non erano davvero dèi, non erano altro che esperimenti, esseri che trascendevano la loro origine, ma che rimanevano tutt'altro che divini, pur avvicinandosi a quel concetto sotto, forse, troppi aspetti. Aveva gridato, spezzata, quando il collo di Shakti era stato torto con brutalità e la sua testa staccata e lasciata rotolare a terra. Aveva urlato, gettandosi su di essa e rialzandosi coperta del sangue di colei che era metà della sua anima, nuovamente fiamma selvaggia. Stringendo in una mano i capelli dell'amata sorella e nell'altra una lama si era lanciata urlante su Shiva, folle di dolore.
Aveva ucciso Shakti. L'aveva uccisa davanti ai suoi occhi, privo di ragione e pietà.
Allora lottarono, calpestando il sangue di colei che entrambi amavano, sporcandosi di quell'impasto di terra e scarlatto siero, ferendosi. I più potenti tra tutti che si affrontavano, selvaggi, in una danza di distruzione e morte.
Un giorno, un secolo, il tempo non aveva nessun significato in quella lotta mentre il lume dell'intelletto si allontanava sempre di più da entrambi; poi Kalì vide qualcosa in grado di oltrepassare quella sofferenza.
Era solo una bambina, un'umana giovane e fragile, ma difendeva i fratelli ancora più piccoli, ardendo di quella forza unica in quegli esseri così minuti e deboli che erano gli uomini. Vide, ricordò l'amore per Shakti e Saraswati, per Shiva stesso, quello che aveva desiderato proteggere, quello che Shakti stessa aveva voluto difendere fino a sacrificarsi. Allora la sua anima aveva urlato ancora più forte, ma non per il dolore, non per aver perso tutto quello, ma per quello che ancora poteva scivolarle tra le dita: la speranza.
Non siamo dèi!” gli aveva detto, mentre la sua mano posava la testa mozzata della sorella, “Non siamo creatori! Se un compito dobbiamo avere, ora, è conservare! Guarda cosa stai facendo! Fermati!” Aveva supplicato, disperandosi, cercando di scuoterlo da quell'odio, fino a quando non aveva dovuto manifestare tutta la sua forza, abbattendo Shiva e fermando la sua danza. Lo aveva trasportato correndo per giorni, il corpo in fin di vita dell'amato tra le braccia, fino a lì. L'aveva messo in una capsula, programmandola, condannandolo al sonno eterno nella speranza che tornasse, un giorno, a essere savio. Aveva contattato i loro pari, il loro popolo, i loro fratelli e assieme era stato deciso di mettere sulle sue spalle quella responsabilità.
Lei aveva accettato, ma il prezzo era grande, era immenso, la stava derubando di ogni gioia.
Kalì guardò i due fratelli, qual era la sua scelta, quindi?
Il prezzo della vita di Shiva, contenuta, sorvegliata, era stato imposto da lei stessa e dai loro fratelli. Lei avrebbe sorvegliato, vegliando il luogo, la conoscenza, e l'uomo. Ma se sarebbe stata destata avrebbe dovuto ancora una volta decidere tra la salvezza e la distruzione, tra l'uomo e Shiva, tra la solitudine e la speranza. Avevano posto su di lei il giogo, il peso, il potere del giudizio, affermando che a esso si sarebbero inchinati. Lei era la più potente, era divenuta l'ape regina di quell'alveare, era stata abbandonata. L'avevano lasciata lì, sola, a sognare il passato fino a quando, ottocento anni dopo la guerra dei tre giorni, non era stata svegliata da loro due. I sensori periferici avevano colto la loro presenza, la sua mente sopita aveva concesso l'accesso alla cittadella, e il processo atto a ridestarla si era avviato. Ora doveva scegliere, ma prima doveva capire.
Guardò ancora una volta i due ragazzi, mentre il suo cuore in lotta si stringeva al pensiero del suo amore per Shiva, per l'amato. Lo aveva sprofondato nel sonno, salvandogli la vita e allo stesso tempo negandogliela, per difendere quell'umanità sfiorita e decadente, malata, ma che conservava ancora in sé la luce che l'aveva portata a graziarla. Agognava spezzare la sua solitudine, abbandonarsi a lui, riempire il vuoto e colmare la sua anima, ma conosceva il prezzo del suo desiderio.
Sospirò, dandosi altro tempo, osservando Candra e Shiva, guardandoli. Erano a loro modo luminosi e fragili, ma in loro conservavano la bellezza della passione umana e della forza delle emozioni che guidava le loro vite. Rappresentavano il frutto della decadenza, con la sfiducia in quel futuro privo di promesse, per cui però continuavano a lottare.
Malattia e fame li accompagnavano, la continua minaccia del più forte e la mancanza di sicurezza, ma caparbi lottavano. Così come lei si aggrappavano tra cuore e mente alla vita, così come lei avevano la voce del desiderio e del raziocinio.
Con un sorriso, accarezzando con il ricordo il volto dell'amato che giaceva addormentato poco lontano, sentendo con la memoria la sua pelle, i tratti del viso e il sorriso, agognando il suo calore e di spezzare la sua solitudine ma, al contempo, desiderando coltivare quei germogli di speranza che l'uomo continuamente faceva nascere, osservava i fratelli. Il costo della sua scelta era la rinuncia. Se avesse scelto l'uomo per sempre si sarebbe negata l'amore di colui che era la sua anima, se avesse scelto lui avrebbe spento ogni fiamma di vita umana.
Doveva compiere la scelta, era il suo dovere, ma poteva attendere e osservare, desta, ciò che sarebbe avvenuto.
Avrebbe deciso, ma non in quel momento.



 



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