La notte è un momento di
follia.
La notte è il momento in cui i rumori e i colori del giorno
s’acquietano,
sprofondando insieme al sole dietro all’orizzonte.
La notte, è il momento in cui i pensieri scoppiano e
dilagano nel cervello,
perché i fragori e le luci del giorno, che hanno il compito
di frenarli,
tacciono all’improvviso; e il silenzio vellutato del buio
diviene complice
dell’evasione.
È per questo motivo che la notte, il più delle
volte, è il momento in cui la
verità ci sbava fuori dalle labbra.
È per questo motivo che, il più delle volte, ci
rendiamo conto di quale sia, la
verità.
Perché quando i treni smettono di correre, quando il sole
non illumina il volto
di quella persona, quando i negozi sono chiusi e le strade sono
deserte, non
possiamo più guardare qualcos’altro e distoglierci
da ciò che succede nella
nostra testa.
La notte è il momento in cui siamo soli con noi stessi.
In cui né l’udito, né la vista,
né l’olfatto, né il gusto né
il tatto hanno
qualcosa di cui occuparsi. Tutto ciò che rimane siamo noi, e
non c’è modo di sfuggire
a questo.
Tale era il motivo per il quale Rukia Kuchiki, quella notte, si
rotolava nel
ripiano dell’armadio incapace di trovar pace.
Al riparo dagli Hollow, lontana dalla confusione
dell’ambiente scolastico, con
Kon che dormiva placidamente sullo scaffale sopra la sua testa, i
cinque sensi
del suo gigai si accanivano sulla
sua
esile persona, senza alcuna intenzione di lasciarle prender fiato.
Udiva il proprio respiro. E ogni volta se ne meravigliava.
Era morta da così tanto tempo, che aveva dimenticato
l’obbligo di inspirare,
espirare, inspirare, espirare, in una sequenza infinita. Si era
dimenticata
cosa volesse dire trattenere il fiato per la paura. Cosa volesse dire
ansimare per
lo sforzo fisico. E quanto fosse incantevole la cassa toracica che si
alza e si
abbassa, ritmicamente, a causa della vita.
Ascoltare quel suono, le riportava dei frammenti di quando i suoi
polmoni si
riempivano d’aria, del cielo azzurro e dei raggi di sole.
La trasportava ai lontani momenti in cui era stata viva.
Vedeva soltanto una parete buia. E questo la spaventava.
La spaventava perché sapeva bene a cosa stava andando
incontro; o forse proprio
perché non ne aveva alcuna certezza. Perché i
servizi segreti non erano ancora
venuti a cercarla? Perché non riceveva alcun comunicato?
Possibile che nessuno
si fosse accorto che aveva perso i suoi poteri, che ormai non era
nemmeno più
una shinigami?
Forse la stavano già cercando. Forse, a un angolo di strada,
un luogotenente
della Soul Society la stava aspettando, pronto a calare la zanpakuto sulla sua testa.
E quel che era certo, era che non era destinata a rimanere in
quell’armadio
ancora per molto tempo. Prima o poi l’avrebbero trovata.
Prima o poi,
l’avrebbero portata via, e nel buio non vedeva nessuno
accanto a sé, pronto a
stringerle la mano in caso avesse avuto quello stupido, inutile,
assurdo – e
soprattutto umano –
desiderio di
scoppiare in lacrime.
Di nuovo.
Fiutava un vago odore di polvere. E questo la rattristava.
Da un lato, questo le ricordava la vita al settantottesimo distretto di
Rukongai, dove, se avessero avuto dei polmoni, sarebbero stati colmi di
pulviscolo e odori acri. Le ricordava quando era sola, faccia a faccia
con la
sopravvivenza, prima di incontrare Renji e gli altri. Tutte le volte in
cui era
finita col naso a terra per procurarsi i generi fondamentali; le volte
in cui
aveva combattuto per non morire.
E adesso era lì che era relegata. Ancora la polvere. In un
armadio, questa
volta.
L’armadio era un po’ il settantottesimo distretto
della casa: tutti dormivano
nei letti, lei dormiva su uno scaffale, invisibile a tutti.
Perché non era casa
sua, in fondo. Perché non avrebbe dovuto essere
lì in nessun caso.
Sì; quella vaga esalazione, che proveniva dagli angoli dei
ripiani e dal
pavimento retrostante, le ricordava che quello non era il suo posto.
E che neanche alla Soul Society, se mai vi fosse tornata, ce
n’era più uno per
lei.
Assaporava dei rimasugli di sushi rimasti incastrati tra i denti. E
questo la
metteva in difficoltà.
Aveva dovuto imparare molte cose, da quando era arrivata nel mondo dei
vivi.
Alcune le ricordava ancora, altre non le ricordava più.
Forse era troppo
piccola quand’era morta; forse, se avesse avuto
più tempo prima di essere
strappata a quel mondo, avrebbe saputo come si faceva a tenere in mano
due
bacchette.
Seduta sul pavimento, lottava con i rotolini e con il pesce,
spezzandoli ogni
volta, facendo finire il riso dappertutto; nessuno pensava a darle
istruzioni,
del resto nel mondo mangiare del sushi è così
normale, ma lei non ci si
raccapezzava. A volte sentiva come una scintilla, vedeva
un’immagine
evanescente che scompariva immediatamente, a volte si sentiva come se
avesse
già fatto, già visto, già sentito.
Ma erano sensazioni fugaci.
Subito dopo era ancora Rukia, shinigami fallita, cent’anni di
età e
incapace di vivere.
Perché era passato troppo tempo.
E aveva sempre più la sensazione che quel mondo, ormai, non
la volesse più
accogliere.
Toccava la pelle del proprio corpo fittizio, pallida e liscia come si
addiceva
a una liceale. E questo la confondeva.
Il gigai, purtroppo, provava
sensazioni umane. Ed il gigai,
oltretutto, sembrava legato più di quanto avesse creduto
possibile alle
attività dell’anima.
Fintanto che aveva svolto il suo lavoro, in solitudine e senza intoppi,
lui non
le aveva creato problemi. Rincorreva gli Hollow, li bloccava, li
sconfiggeva e
li guidava nel Paradiso degli umani.
Ricerca, bloccaggio, combattimento: non era tenuta a fare altro, e le
sensazioni non erano cosa che la riguardasse.
Ora invece qualcun altro svolgeva il suo lavoro, e non le era
più possibile
vivere sola, e il gigai aveva
iniziato ad avere reazioni inconsulte.
A volte, la sua pelle si scaldava. Se la ferivano, invece, bruciava. Se
c’era
la neve, si sentiva gelare.
Ed era incredibile il potere degli altri esseri umani sul suo gigai.
Era incredibile quel che era successo quando Inoue le aveva offerto un
dolce, o
quando Sado l’aveva protetta, o quando Ishida aveva fatto la
sciocchezza di
liberare decine di Hollow in giro per il mondo.
Uno strano calore nel petto. Un battito ormai perduto nelle
profondità della
memoria. Il sudore freddo, la rabbia che montava nel cervello.
Non aveva controllo su questo. Un corpo umano purtroppo parlava,
questo ricordò: diceva più cose di quante sarebbe
mai stata
disposta a svelare.
E quando pensava questo, contro la sua volontà, ancora
arrossiva.
Durante la notte, questi pensieri prendevano vita e si liberavano anche
senza
il suo permesso.
Tentava di ribellarsi a questo ammutinamento, di ristabilire la calma,
di
mettere ordine come aveva sempre fatto, ma questo era impossibile.
Perché se per un momento riusciva a distogliersi da
sé stessa, se per un
momento era in grado di non pensare a quanto si sentisse triste e sola,
allora
quei cinque sensi dispettosi si fiondavano sul letto poco distante, e
tornavano
con un rapporto a cui il suo corpo reagiva con una forza tale da
schiacciarla
dall’imbarazzo.
Udiva il respiro di Ichigo, esattamente uguale al suo. Il respiro che a
lui era
ancora concesso e che a lei, in quanto dea della morte, era stato
negato. Il
respiro che le avevano tolto tempo addietro e che lui invece assaporava
con una
forza, con una passione che non mancavano mai di stupirla.
Ichigo non emetteva un suono durante il sonno; ma respirava
così profondamente,
si riempiva a tal punto i polmoni, che non riusciva a fare a meno di
pensare:
lui vuole vivere.
Lo vuole così intensamente che anche nel sonno fa tutto il
possibile per
rimanere attaccato a questo mondo.
E una volta pensò che questo, forse, era il motivo per cui
non si stancava mai
di combattere.
Perché, forse a causa della vita che era stata rubata a sua
madre, era
attaccato alla sua in una maniera viscerale. Ed era fermamente convinto
che
fosse il diritto fondamentale di tutti, di viverla, stringerla e
morderla fino
in fondo.
Ma perché voleva a tal punto rimanere in quel luogo? Il
luogo dove gli Hollow
si nutrivano d’anime, dove lo stavano cercando per
strappargli di dosso la sua,
dove lei l’aveva costretto a prendere i suoi panni e a
lavorare al posto suo?
Se lo chiedeva ogni notte.
Ogni notte sentiva quel respiro assetato di Ichigo, e si chiedeva cosa
lo
trattenesse laggiù.
Vedeva il suo profilo addormentato dopo aver dischiuso lentamente le
ante del
guardaroba, piano per non far rumore.
Nemmeno quando dormiva abbandonava quell’aria imbronciata; le
sue sopracciglia
erano ancora corrugate, gli angoli delle sue labbra non si piegavano
mai in un
sorriso. E lei si sentiva colpevole, perché non era in grado
di donargliene
uno. Se per prima non era in grado di procurarsene uno per
sé, come avrebbe
potuto riportarlo a lui?
Ma se fosse stata in grado di sorridere, sarebbe stato nel guardarlo.
Osservandolo vivere, rimpiangeva di non aver potuto avere i suoi
quindici anni.
Litigava col padre, dava un buffetto alle sorelline, guardava perplesso
Inoue,
combatteva assieme a Sado, lanciava occhiatacce ai suoi amici. E
sebbene la sua
espressione non fosse mai granché conciliante, lei, che gli
viveva accanto,
sapeva che li amava. Sapeva che non avrebbe mai potuto abbandonarli, o
vivere
in un luogo diverso da quello.
E quei capelli arancioni che le pungevano gli occhi! Lei, abituata al
nero dei
capelli e degli abiti da shinigami,
non si capacitava di quella macchia colorata che le sbucava davanti
ogni giorno
di mattina. Guardare un colore tanto luminoso non appena aperti gli
occhi, può
cambiare di molto la disposizione della giornata.
E ogni volta che apriva gli occhi e lo guardava era una
giornata… diversa.
Non sapeva se fosse un bene o un male, ma qualcosa era cambiato. Ed era
stato
Ichigo a cambiarlo.
Fiutava tutti gli odori di Ichigo, in quella stanza.
Il profumo maschile che si spruzzava sul collo prima di uscire. La
fragranza
pulita del bucato, fatto da Yuzu con tutto l’affetto. Il vago
odore del suo
corpo proveniente dall’uniforme, che parlava della sua vita
fuori di casa.
E qualche volta, si era trovata abbastanza vicina a lui da sentire
tutte queste
cose assieme.
Era lei la prima a vederlo quando usciva dal bagno, con
l’asciugamano in testa,
la pelle umida e una nuvola di bagnoschiuma alla fragola di Karin che
gli aleggiava
tutt’attorno.
Era lei la prima che lo vedeva la mattina, con addosso gli effluvi
della notte,
quando la sua pelle sapeva semplicemente di Ichigo, e non di sapone o
deodorante o dentifricio.
Era lei che indovinava cos’avesse preparato Yuzu
semplicemente parlandogli di
fronte, non lontana dalla sua bocca, senza le distanze di cortesia
imposte al
resto del mondo.
Era lei quella che, al mondo, non avrebbe saputo vivere senza tutti
quegli
odori attorno a sé.
Era lei, prima ancora di Ichigo stesso, che non vi avrebbe saputo
rinunciare.
Il gusto di Ichigo, quello le mancava.
Non aveva mai conosciuto il sapore della sua pelle o delle sue labbra,
ed era
un desiderio che non aveva mai provato nei confronti di nessuno; forse
nemmeno
di Kaien.
Probabilmente, non sarebbe stato molto diverso da ciò che
avvertiva il suo
olfatto, ma doveva essere una cosa fondamentalmente diversa.
Lei una volta aveva morso il proprio braccio, per testarne il gusto. Ma
quello
era il braccio di un gigai. E
quella
era forse l’unica differenza che intercorreva con la carne
umana: quest’ultima
aveva un suo sapore poiché portava i segni della vita delle
persone. Il cibo, i
detergenti, il sudore, il cloro, il contatto tra umani: tutte queste
cose
influivano sull’epidermide in un modo che lei, sempre bianca
e asciutta, non
avrebbe mai potuto immaginare.
Purtroppo, non aveva niente da offrire, da questo punto di vista; e se
ne
vergognava.
Ma sempre più spesso si chiedeva cosa si provasse a
stringere tra le labbra la
pelle di un essere umano.
Sentire quanta vita c’è sulla sua bocca,
accarezzandola piano con la punta
della lingua. Assaggiarla appena.
Toccare Ichigo, invece, le era già successo.
Erano stati incontri fugaci, in battaglia; una stretta di mano, o
addirittura
un calcio.
Non avevano mai avuto un contatto che non fosse stato casuale o nato
con
intenzioni bellicose.
A parte una volta, quando lui aveva sconfitto l’assassino di
sua madre; e,
mentre lui dormiva, l’aveva stretto e adagiato sulle sue
ginocchia, fissando
rapita i suoi zigomi, il suo mento, il suo naso, gli occhi, la fronte,
la piega
spettinata che prendevano i suoi capelli.
Rapita da quel corpo sconosciuto che, non sapeva spiegarsene il
perché,
chiamava il suo sguardo come non le era mai successo con alcun umano o shinigami.
E non riusciva a darsi una risposta di fronte
all’intensità con cui era
attratta da quel corpo, così diverso dal suo.
Lei era sempre stata piccola, esile, veloce. Era adatta a dare piccoli
colpi
ripetuti, a schivare, a muoversi in un lampo. Lui, invece, era alto,
muscoloso,
forte. Non come Kenpachi, che era possente e gonfiato; no, lui era
diverso. Lui
era adatto a sferrare colpi taglienti, ad attaccare, a combattere
duelli alla
pari.
Ma qualcosa, in quel corpo, sembrava dissentire.
La forma ancora adolescente delle sue membra. Lo sbocciare di quei
muscoli
giorno dopo giorno, come se ancora non avessero raggiunto la loro forma
definitiva. Il volto imbronciato che però ogni tanto si
mutava in perplesso,
furioso, indifferente. Alle volte triste. E, alle volte, impaurito.
Ed era la paura nei suoi occhi, quel fugace bagliore che ne usciva ogni
tanto,
a renderlo umano e a rendere chiaro quello che era il suo compito.
Il suo compito, come diceva anche il nome, era quello di proteggere.
Proteggere quelli che come lui avevano provato perplessità,
furia,
indifferenza. Tristezza. E soprattutto paura.
Era nato per proteggere una persona, dicevano il suo nome e il suo
petto.
Rukia, ogni notte, si chiedeva chi vi fosse stato destinato.
Uno dei problemi della notte era proprio questo: oltre a sbatterla
contro il
muro della verità, la costringeva anche a prendere atto di
alcune verità
piuttosto scomode.
Ad esempio: i suoi sensi erano tutti puntati verso il quindicenne umano
che
dormiva a due metri da lei.
Che le dormiva così vicino, ma che aveva messo tra di loro
le porte
dell’armadio e le aveva chiuse per bene, di modo che non si
aprisse neanche uno
spiraglio: proteggendo così il suo sonno, momento in cui era
più indifeso,
dall’occhio freddo della sua compagna in combattimento.
Quando lei in realtà non avrebbe mai potuto far nulla.
Quando lei, in realtà,
avrebbe solo voluto aprire quelle ante, andargli vicino e viverlo fino
in
fondo, come avrebbe potuto fare se fosse stata viva e avesse avuto
quindici
anni.
La notte è incredibilmente lunga e vuota, quando si
è di fronte a distanze che
non si possono coprire. Di fronte a protezioni che non si possono
scalfire, a mura
che non si possono abbattere.
Rukia si chiese se anche questo significasse essere umani. Tutto quel
dolore,
quella paura, quella diffidenza.
E si chiese perché loro due dovessero provarne di
così intensi, ma, più di
tutto, perché si sentissero costretti a chiuderli nel
proprio cuore e a porre
le ante di un armadio tra di loro.
Si chiese infine se fosse diventata così umana da odiare
quelle barriere, che
un tempo erano state il suo scudo, i suoi abiti, la sua pelle.
Se fosse diventata così umana da farsi sottomettere da
cinque volgarissimi
sensi.
(Nda. Io ho dei seri problemi con questi due personaggi ò_o.
L’idea da cui questa fanfic era partita era TOTALMENTE
diversa o_o ma Rukia mi
ha imposto di scrivere questa cosa o___o!
Eh, ma ne ho in cantiere altre due, di IchiRuki ù_u e
lì basta con
l’introspezione, da lì in poi sarà
AZIONE è_é!
Mi raccomando, ditemi se questa cosa c’azzecca almeno un
po’ con Rukia; lei è
un personaggio abbastanza particolare, e ci tengo molto a renderla
decentemente.
Grazie di aver letto e grazie a chi avrà la bontà
d’animo di commentare è.é!)