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Autore: The Corpse Bride    26/02/2009    4 recensioni
Un'introspezione che scava nei sentimenti di Rukia; verso sé stessa e verso Ichigo. Il tutto si svolge nel cuore della notte, quando il silenzio toglie ogni freno al libero dilagare dei pensieri.
Da collocarsi nel periodo in cui Rukia vive nell'armadio della camera di Ichigo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La notte è un momento di follia.

La notte è il momento in cui i rumori e i colori del giorno s’acquietano, sprofondando insieme al sole dietro all’orizzonte.
La notte, è il momento in cui i pensieri scoppiano e dilagano nel cervello, perché i fragori e le luci del giorno, che hanno il compito di frenarli, tacciono all’improvviso; e il silenzio vellutato del buio diviene complice dell’evasione.

È per questo motivo che la notte, il più delle volte, è il momento in cui la verità ci sbava fuori dalle labbra.
È per questo motivo che, il più delle volte, ci rendiamo conto di quale sia, la verità.

Perché quando i treni smettono di correre, quando il sole non illumina il volto di quella persona, quando i negozi sono chiusi e le strade sono deserte, non possiamo più guardare qualcos’altro e distoglierci da ciò che succede nella nostra testa.
La notte è il momento in cui siamo soli con noi stessi.
In cui né l’udito, né la vista, né l’olfatto, né il gusto né il tatto hanno qualcosa di cui occuparsi. Tutto ciò che rimane siamo noi, e non c’è modo di sfuggire a questo.

Tale era il motivo per il quale Rukia Kuchiki, quella notte, si rotolava nel ripiano dell’armadio incapace di trovar pace.
Al riparo dagli Hollow, lontana dalla confusione dell’ambiente scolastico, con Kon che dormiva placidamente sullo scaffale sopra la sua testa, i cinque sensi del suo gigai si accanivano sulla sua esile persona, senza alcuna intenzione di lasciarle prender fiato.


Udiva il proprio respiro. E ogni volta se ne meravigliava.
Era morta da così tanto tempo, che aveva dimenticato l’obbligo di inspirare, espirare, inspirare, espirare, in una sequenza infinita. Si era dimenticata cosa volesse dire trattenere il fiato per la paura. Cosa volesse dire ansimare per lo sforzo fisico. E quanto fosse incantevole la cassa toracica che si alza e si abbassa, ritmicamente, a causa della vita.
Ascoltare quel suono, le riportava dei frammenti di quando i suoi polmoni si riempivano d’aria, del cielo azzurro e dei raggi di sole.
La trasportava ai lontani momenti in cui era stata viva.

Vedeva soltanto una parete buia. E questo la spaventava.
La spaventava perché sapeva bene a cosa stava andando incontro; o forse proprio perché non ne aveva alcuna certezza. Perché i servizi segreti non erano ancora venuti a cercarla? Perché non riceveva alcun comunicato? Possibile che nessuno si fosse accorto che aveva perso i suoi poteri, che ormai non era nemmeno più una shinigami?
Forse la stavano già cercando. Forse, a un angolo di strada, un luogotenente della Soul Society la stava aspettando, pronto a calare la zanpakuto sulla sua testa.
E quel che era certo, era che non era destinata a rimanere in quell’armadio ancora per molto tempo. Prima o poi l’avrebbero trovata. Prima o poi, l’avrebbero portata via, e nel buio non vedeva nessuno accanto a sé, pronto a stringerle la mano in caso avesse avuto quello stupido, inutile, assurdo – e soprattutto umano – desiderio di scoppiare in lacrime.
Di nuovo.

Fiutava un vago odore di polvere. E questo la rattristava.
Da un lato, questo le ricordava la vita al settantottesimo distretto di Rukongai, dove, se avessero avuto dei polmoni, sarebbero stati colmi di pulviscolo e odori acri. Le ricordava quando era sola, faccia a faccia con la sopravvivenza, prima di incontrare Renji e gli altri. Tutte le volte in cui era finita col naso a terra per procurarsi i generi fondamentali; le volte in cui aveva combattuto per non morire.
E adesso era lì che era relegata. Ancora la polvere. In un armadio, questa volta.
L’armadio era un po’ il settantottesimo distretto della casa: tutti dormivano nei letti, lei dormiva su uno scaffale, invisibile a tutti. Perché non era casa sua, in fondo. Perché non avrebbe dovuto essere lì in nessun caso.
Sì; quella vaga esalazione, che proveniva dagli angoli dei ripiani e dal pavimento retrostante, le ricordava che quello non era il suo posto.
E che neanche alla Soul Society, se mai vi fosse tornata, ce n’era più uno per lei.

Assaporava dei rimasugli di sushi rimasti incastrati tra i denti. E questo la metteva in difficoltà.
Aveva dovuto imparare molte cose, da quando era arrivata nel mondo dei vivi. Alcune le ricordava ancora, altre non le ricordava più. Forse era troppo piccola quand’era morta; forse, se avesse avuto più tempo prima di essere strappata a quel mondo, avrebbe saputo come si faceva a tenere in mano due bacchette.
Seduta sul pavimento, lottava con i rotolini e con il pesce, spezzandoli ogni volta, facendo finire il riso dappertutto; nessuno pensava a darle istruzioni, del resto nel mondo mangiare del sushi è così normale, ma lei non ci si raccapezzava. A volte sentiva come una scintilla, vedeva un’immagine evanescente che scompariva immediatamente, a volte si sentiva come se avesse già fatto, già visto, già sentito.
Ma erano sensazioni fugaci.
Subito dopo era ancora Rukia, shinigami fallita, cent’anni di età e incapace di vivere.
Perché era passato troppo tempo.
E aveva sempre più la sensazione che quel mondo, ormai, non la volesse più accogliere.

Toccava la pelle del proprio corpo fittizio, pallida e liscia come si addiceva a una liceale. E questo la confondeva.
Il gigai, purtroppo, provava sensazioni umane. Ed il gigai, oltretutto, sembrava legato più di quanto avesse creduto possibile alle attività dell’anima.
Fintanto che aveva svolto il suo lavoro, in solitudine e senza intoppi, lui non le aveva creato problemi. Rincorreva gli Hollow, li bloccava, li sconfiggeva e li guidava nel Paradiso degli umani.
Ricerca, bloccaggio, combattimento: non era tenuta a fare altro, e le sensazioni non erano cosa che la riguardasse.
Ora invece qualcun altro svolgeva il suo lavoro, e non le era più possibile vivere sola, e il gigai aveva iniziato ad avere reazioni inconsulte.
A volte, la sua pelle si scaldava. Se la ferivano, invece, bruciava. Se c’era la neve, si sentiva gelare.
Ed era incredibile il potere degli altri esseri umani sul suo gigai.
Era incredibile quel che era successo quando Inoue le aveva offerto un dolce, o quando Sado l’aveva protetta, o quando Ishida aveva fatto la sciocchezza di liberare decine di Hollow in giro per il mondo.
Uno strano calore nel petto. Un battito ormai perduto nelle profondità della memoria. Il sudore freddo, la rabbia che montava nel cervello.
Non aveva controllo su questo. Un corpo umano purtroppo parlava, questo ricordò: diceva più cose di quante sarebbe mai stata disposta a svelare.
E quando pensava questo, contro la sua volontà, ancora arrossiva.


Durante la notte, questi pensieri prendevano vita e si liberavano anche senza il suo permesso.
Tentava di ribellarsi a questo ammutinamento, di ristabilire la calma, di mettere ordine come aveva sempre fatto, ma questo era impossibile.
Perché se per un momento riusciva a distogliersi da sé stessa, se per un momento era in grado di non pensare a quanto si sentisse triste e sola, allora quei cinque sensi dispettosi si fiondavano sul letto poco distante, e tornavano con un rapporto a cui il suo corpo reagiva con una forza tale da schiacciarla dall’imbarazzo.

Udiva il respiro di Ichigo, esattamente uguale al suo. Il respiro che a lui era ancora concesso e che a lei, in quanto dea della morte, era stato negato. Il respiro che le avevano tolto tempo addietro e che lui invece assaporava con una forza, con una passione che non mancavano mai di stupirla.
Ichigo non emetteva un suono durante il sonno; ma respirava così profondamente, si riempiva a tal punto i polmoni, che non riusciva a fare a meno di pensare: lui vuole vivere.
Lo vuole così intensamente che anche nel sonno fa tutto il possibile per rimanere attaccato a questo mondo.
E una volta pensò che questo, forse, era il motivo per cui non si stancava mai di combattere.
Perché, forse a causa della vita che era stata rubata a sua madre, era attaccato alla sua in una maniera viscerale. Ed era fermamente convinto che fosse il diritto fondamentale di tutti, di viverla, stringerla e morderla fino in fondo.
Ma perché voleva a tal punto rimanere in quel luogo? Il luogo dove gli Hollow si nutrivano d’anime, dove lo stavano cercando per strappargli di dosso la sua, dove lei l’aveva costretto a prendere i suoi panni e a lavorare al posto suo?
Se lo chiedeva ogni notte.
Ogni notte sentiva quel respiro assetato di Ichigo, e si chiedeva cosa lo trattenesse laggiù.

Vedeva il suo profilo addormentato dopo aver dischiuso lentamente le ante del guardaroba, piano per non far rumore.
Nemmeno quando dormiva abbandonava quell’aria imbronciata; le sue sopracciglia erano ancora corrugate, gli angoli delle sue labbra non si piegavano mai in un sorriso. E lei si sentiva colpevole, perché non era in grado di donargliene uno. Se per prima non era in grado di procurarsene uno per sé, come avrebbe potuto riportarlo a lui?
Ma se fosse stata in grado di sorridere, sarebbe stato nel guardarlo.
Osservandolo vivere, rimpiangeva di non aver potuto avere i suoi quindici anni.
Litigava col padre, dava un buffetto alle sorelline, guardava perplesso Inoue, combatteva assieme a Sado, lanciava occhiatacce ai suoi amici. E sebbene la sua espressione non fosse mai granché conciliante, lei, che gli viveva accanto, sapeva che li amava. Sapeva che non avrebbe mai potuto abbandonarli, o vivere in un luogo diverso da quello.
E quei capelli arancioni che le pungevano gli occhi! Lei, abituata al nero dei capelli e degli abiti da shinigami, non si capacitava di quella macchia colorata che le sbucava davanti ogni giorno di mattina. Guardare un colore tanto luminoso non appena aperti gli occhi, può cambiare di molto la disposizione della giornata.
E ogni volta che apriva gli occhi e lo guardava era una giornata… diversa.
Non sapeva se fosse un bene o un male, ma qualcosa era cambiato. Ed era stato Ichigo a cambiarlo.

Fiutava tutti gli odori di Ichigo, in quella stanza.
Il profumo maschile che si spruzzava sul collo prima di uscire. La fragranza pulita del bucato, fatto da Yuzu con tutto l’affetto. Il vago odore del suo corpo proveniente dall’uniforme, che parlava della sua vita fuori di casa.
E qualche volta, si era trovata abbastanza vicina a lui da sentire tutte queste cose assieme.
Era lei la prima a vederlo quando usciva dal bagno, con l’asciugamano in testa, la pelle umida e una nuvola di bagnoschiuma alla fragola di Karin che gli aleggiava tutt’attorno.
Era lei la prima che lo vedeva la mattina, con addosso gli effluvi della notte, quando la sua pelle sapeva semplicemente di Ichigo, e non di sapone o deodorante o dentifricio.
Era lei che indovinava cos’avesse preparato Yuzu semplicemente parlandogli di fronte, non lontana dalla sua bocca, senza le distanze di cortesia imposte al resto del mondo.
Era lei quella che, al mondo, non avrebbe saputo vivere senza tutti quegli odori attorno a sé.
Era lei, prima ancora di Ichigo stesso, che non vi avrebbe saputo rinunciare.

Il gusto di Ichigo, quello le mancava.
Non aveva mai conosciuto il sapore della sua pelle o delle sue labbra, ed era un desiderio che non aveva mai provato nei confronti di nessuno; forse nemmeno di Kaien.
Probabilmente, non sarebbe stato molto diverso da ciò che avvertiva il suo olfatto, ma doveva essere una cosa fondamentalmente diversa.
Lei una volta aveva morso il proprio braccio, per testarne il gusto. Ma quello era il braccio di un gigai. E quella era forse l’unica differenza che intercorreva con la carne umana: quest’ultima aveva un suo sapore poiché portava i segni della vita delle persone. Il cibo, i detergenti, il sudore, il cloro, il contatto tra umani: tutte queste cose influivano sull’epidermide in un modo che lei, sempre bianca e asciutta, non avrebbe mai potuto immaginare.
Purtroppo, non aveva niente da offrire, da questo punto di vista; e se ne vergognava.
Ma sempre più spesso si chiedeva cosa si provasse a stringere tra le labbra la pelle di un essere umano.
Sentire quanta vita c’è sulla sua bocca, accarezzandola piano con la punta della lingua. Assaggiarla appena.

Toccare Ichigo, invece, le era già successo.
Erano stati incontri fugaci, in battaglia; una stretta di mano, o addirittura un calcio.
Non avevano mai avuto un contatto che non fosse stato casuale o nato con intenzioni bellicose.
A parte una volta, quando lui aveva sconfitto l’assassino di sua madre; e, mentre lui dormiva, l’aveva stretto e adagiato sulle sue ginocchia, fissando rapita i suoi zigomi, il suo mento, il suo naso, gli occhi, la fronte, la piega spettinata che prendevano i suoi capelli.
Rapita da quel corpo sconosciuto che, non sapeva spiegarsene il perché, chiamava il suo sguardo come non le era mai successo con alcun umano o shinigami.
E non riusciva a darsi una risposta di fronte all’intensità con cui era attratta da quel corpo, così diverso dal suo.
Lei era sempre stata piccola, esile, veloce. Era adatta a dare piccoli colpi ripetuti, a schivare, a muoversi in un lampo. Lui, invece, era alto, muscoloso, forte. Non come Kenpachi, che era possente e gonfiato; no, lui era diverso. Lui era adatto a sferrare colpi taglienti, ad attaccare, a combattere duelli alla pari.
Ma qualcosa, in quel corpo, sembrava dissentire.
La forma ancora adolescente delle sue membra. Lo sbocciare di quei muscoli giorno dopo giorno, come se ancora non avessero raggiunto la loro forma definitiva. Il volto imbronciato che però ogni tanto si mutava in perplesso, furioso, indifferente. Alle volte triste. E, alle volte, impaurito.
Ed era la paura nei suoi occhi, quel fugace bagliore che ne usciva ogni tanto, a renderlo umano e a rendere chiaro quello che era il suo compito.
Il suo compito, come diceva anche il nome, era quello di proteggere.
Proteggere quelli che come lui avevano provato perplessità, furia, indifferenza. Tristezza. E soprattutto paura.
Era nato per proteggere una persona, dicevano il suo nome e il suo petto. Rukia, ogni notte, si chiedeva chi vi fosse stato destinato.


Uno dei problemi della notte era proprio questo: oltre a sbatterla contro il muro della verità, la costringeva anche a prendere atto di alcune verità piuttosto scomode.
Ad esempio: i suoi sensi erano tutti puntati verso il quindicenne umano che dormiva a due metri da lei.
Che le dormiva così vicino, ma che aveva messo tra di loro le porte dell’armadio e le aveva chiuse per bene, di modo che non si aprisse neanche uno spiraglio: proteggendo così il suo sonno, momento in cui era più indifeso, dall’occhio freddo della sua compagna in combattimento.
Quando lei in realtà non avrebbe mai potuto far nulla. Quando lei, in realtà, avrebbe solo voluto aprire quelle ante, andargli vicino e viverlo fino in fondo, come avrebbe potuto fare se fosse stata viva e avesse avuto quindici anni.

La notte è incredibilmente lunga e vuota, quando si è di fronte a distanze che non si possono coprire. Di fronte a protezioni che non si possono scalfire, a mura che non si possono abbattere.

Rukia si chiese se anche questo significasse essere umani. Tutto quel dolore, quella paura, quella diffidenza.
E si chiese perché loro due dovessero provarne di così intensi, ma, più di tutto, perché si sentissero costretti a chiuderli nel proprio cuore e a porre le ante di un armadio tra di loro.
Si chiese infine se fosse diventata così umana da odiare quelle barriere, che un tempo erano state il suo scudo, i suoi abiti, la sua pelle.
Se fosse diventata così umana da farsi sottomettere da cinque volgarissimi sensi.








(Nda. Io ho dei seri problemi con questi due personaggi ò_o.
L’idea da cui questa fanfic era partita era TOTALMENTE diversa o_o ma Rukia mi ha imposto di scrivere questa cosa o___o!
Eh, ma ne ho in cantiere altre due, di IchiRuki ù_u e lì basta con l’introspezione, da lì in poi sarà AZIONE è_é!
Mi raccomando, ditemi se questa cosa c’azzecca almeno un po’ con Rukia; lei è un personaggio abbastanza particolare, e ci tengo molto a renderla decentemente.
Grazie di aver letto e grazie a chi avrà la bontà d’animo di commentare è.é!)

  
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