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Autore: Laky099    16/11/2015    6 recensioni
"Più scoprirai su di te, più cose ricorderai".
Un uomo, impossibilitato a ricordare persino il suo nome, si ritrovò in una stanza completamente bianca. Tutto ciò che lo riguardava era stato cancellato dalla sua memoria. Solo una bambina-avatar, dietro un display sembra poterlo aiutare a compiere questo complicato viaggio alla scoperta di se stesso ed a svelare il mistero che l'ha condotto in quella piccola strana stanza bianca.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 5 - La Stanza dei Cuori
 



La bambina, piccola e tenera come solo una neonata poteva essere, lo guardò per qualche istante con aria assente, dopodiché riprese a sonnecchiare placidamente. Mark faceva fatica anche solo a pensare,anche solo a rimanere in piedi. Avrebbe voluto urlare ma non ne aveva la forza, avrebbe voluto piangere ma non aveva più lacrime. Tutto ciò che si era costruito nella sua mente era andato poi distrutto. Sua figlia, la sua unica figlia, che sonnecchiava teneramente davanti ai suoi occhi era andata perduta per sempre, morta per un infame malformazione cardiaca contro la quale nemmeno la moderna medicina poté nulla. Erano passati più di dieci anni da quel giorno ed adesso, improvvisamente, quel dolore era saltato nuovamente fuori, dilaniandolo dall’interno come se un nugolo di cimici affamate lo avesse assaltato senza pietà alcuna.
“Miriel…” biascicò con voce debole e tremula. Si aggrappò al lettino, stringendolo con tutta la poca forza che aveva finché non sentì una vibrazione venire da una delle pareti. In quel momento Mark capì che quella non era che la stanza bianca, resa grigia dal suo processo di smantellamento e dismissione. Il suo viaggio era finito.
Mercy, anche lei con gli occhi resi rossi dal pianto, lo fissava da dietro quello schermo. Il suo volto era sofferente, rigato dalle lacrime e segnato da un dolore profondo e misterioso, quasi arcano. Qualcosa di ambiguo e lontano traspariva dai suoi bizzarri occhi etero cromatici.
“Ciao” disse con un fil di voce. Fu impossibile comprendere immediatamente se non volesse svegliare la bimba o se semplicemente non potesse parlare a voce più alta.
Mark la fissò. Nel suo sguardo ormai vacuo erano passate talmente tante emozioni da averlo reso vuoto, come se fosse esploso lasciando nient’altro che macerie.
“Voglio la verità, Mercy. Almeno ora. Chi sei tu?” la sua voce fu quasi minacciosa, tanto stanca e rotta dal pianto da risultare troppo complessa per essere analizzata.
Mercy, in quello stesso momento, scoppiò a piangere. Ormai, con quegli ultimi ricordi, era diventata un’autentica adulta. Era una splendida donna di circa trent’anni, dai tratti delicati e lo sguardo dolce che ben si sposava con il suo corpo, minuto e ben proporzionato. Sul naso teneva i suoi occhiali privi di montatura mentre i suoi capelli, che avevano preso una leggera sfumatura marroncina, scivolano liberi su un elegante tailleur blu scuro che copriva una candida camicia bianca. Il tutto terminava con una castigata gonna dello stesso colore del soprabito che la copriva sino alle ginocchia.  Il suo aspetto era quello di una autentica donna in carriera.
“Mark, io…” disse, ma lui non aveva più la forza né la volontà di aspettare.
“Che legame c’è tra te e Miriel?” disse, interrompendola con voce leggermente più alta e nervosa.
“S-scusami” borbottò. Era la prima volta che Mercy si trovava in evidente difficoltà. Cercò di parlare, ma le sue parole risuonarono deboli e incomprensibili.
“No, scusa tu Mercy. Non… non ce l’ho con te” la interruppe Mark, che sembrò aver ripreso il controllo di sé stesso “Però voglio sapere chi sei. Davvero”
Mercy, calmandosi, prese fiato. La sua voce risuonò rotta e debole, con frequenti interruzioni dovute al pianto. Prese fiato, come a volersi far forza, ed infine parlò.
“Mark, io sono Miriel”
L’uomo la guardò con un sorriso bieco ed inquieto. Nel profondo, era convinto di averlo capito da molto tempo ormai. “Miriel è morta” disse abbassando gli occhi.
 “Ricordi quanto ti dissi nella prima stanza? Siamo dentro la tua testa, Mark. Io non sono altro che la tua idea di Miriel. Io sono come tu pensavi che sarei… che sarebbe cresciuta. Per questo credevi che tua figlia si chiamasse Mercy, Mark. Inconsciamente hai sempre saputo chi io fossi”
Quelle parole furono per entrambi autentici macigni. Vederla crescere, averla vista bambina, ragazza ed infine persino adulta alimentarono in Mark quel dolore e quel rimpianto che pezzo dopo pezzo lo stavano annichilendo.
“Da quando sai chi sei, Miriel?”
“Da quando la bambola ti ha donato il tuo ricordo di me. Non lasciar trasparire nulla è stato un inferno ma… era ciò per cui sono stata creata”
“L’ M.R.C. può davvero tanto?”
“No, Mark. Sei tu che hai costruito tutto questo. L’M.R.C. lo rende reale e tangibile, ti fa vivere tutto questo e parlare con la tua immaginazione od interagire con i tuoi ricordi. Ma tutto questo è solo una tua creazione”
Mark sorrise istericamente. Ancora non aveva trovato la chiave di tutto, la risposta al perché tutto questo stava accadendo. La figlia che la sua immaginazione aveva creato era una creatura meravigliosa. Aveva la sagacia e la grinta di Caty, ma godeva anche del sarcasmo e del carattere allegro tipico di suo padre.
“Tu non sei mai esistita, Mercy”
“Solo nella tua fantasia”.
Questo spiegava tutti i dubbi che Mark aveva accumulato durante la sua esperienza: il fatto che fosse miope, il sarcasmo, l’avere un carattere così spiccato ed il fatto che provasse emozioni non banali, ma complesse e sincere come quelle di una persona reale.
Mercy piangeva. Sapeva di essere un’entità artificiale, ma scoprire di non essere che una fantasia sembrava esser stato distruttivo anche per lei. Mark la guardò, proiettando su di lei tutto l’affetto che non aveva mai avuto il tempo di provare per sua figlia.
“Io non voglio lasciarti…” disse lui, avvicinandosi sempre più allo schermo. Non poteva toccarla, abbracciarla, proteggerla. Tutto questo lo stava uccidendo dentro.
“No, Mark. Non puoi” disse lei. La sua voce fu decisa, sicura di sé “Io ho svolto il mio compito, non capisci? Devi andare avanti, papà. Per me è finita qui, qui…” la voce le si bloccò in gola, come se avesse bisogno di uno sforzo ulteriore per proseguire “quindici anni fa. Devi riabbracciare Caty, dirle che… dirle che avrei voluto volerle bene”
Mercy non ce la faceva più. Assieme ai ricordi di Mark, aveva ricreato anche l’innato affetto che provava nei confronti di sua madre e di suo padre. Ciononostante smise di piangere, ripristinando un piglio deciso ed una forza di cui solo la figlia di Caty avrebbe potuto disporre.
“Vivi, Mark. Dimenticati di me. Superami. Hai Caty, hai tanti amici e nulla al mondo ti vieta di fare un altro figlio. E finisci quel progetto, fallo per me”
Mark la osservò asciugandosi le lacrime. Ancora una volta Mercy lo aveva contagiato con la sua vivacità, col suo irrefrenabile desiderio di andare avanti col sorriso nonostante tutto e tutti. Era ora di crescere, anche a trent’otto anni.  Annuì con un sorriso. Doveva essere forte, doveva essere lui a guidare sua figlia e non viceversa. “Che progetto?” chiese.
“Lo vedrai tra poco” rispose Mercy sorridendo.
Uno schiocco sonoro, simile al suono di una bottiglia spumante che viene stappata, si propagò dalla parete alle sue spalle, rivelando la presenza di un’anonima porta completamente nera se non per la maniglia, che pareva essere fatta d’ottone.
“È ora di andare” disse la ormai donna da dietro il suo monitor, abbassando gli occhi. Mark annuì e si voltò.
“Ciao, Miriel. E grazie di tutto” disse con voce forte, lucida e paterna.
“Grazie per avermi creato” disse lei. Cercava di nasconderlo, ma aveva ripreso a piangere. Per lei era giunta l’ora di sparire, di tornare ad essere nulla più che un ricordo, un ricordo orribile per altro.
Mark camminò senza voltarsi fino alla porta, fermandosi solo per accarezzare con due dita il frugoletto nel lettino. Non appena toccò la maniglia, Mercy gridò. “Papà!” disse.
Sentirsi chiamare così fu un ennesimo colpo al cuore per lui.
 “Dimmi”
La ragazza sospirò, prima di parlare ancora. La sua voce tradiva l’emozione ed il dolore di cui quelle parole erano infuse. “So che non esisto realmente, so che non sono realmente tua figlia e che forse non avrei nemmeno il diritto di chiamarti papà, però, per quel poco che possa contare… sappi che per me sei un papà fantastico”.
Mark sorrise, senza voltarsi per non correre il rischio di non volersene più andare.
“Ti voglio bene, Miriel” sussurrò, per poi subito dopo varcare la soglia.

Superò l’uscio e la porta sparì, allontanandolo per sempre da Miriel. Era giunto il momento di andare avanti e capire cosa fosse successo negli ultimi giorni, chi lo avesse assalito e perché. Come dopo le lunghe rampe di scale che portavano ai suoi ricordi, un immagine si formò tutto intorno a lui, portandolo all’interno della sua memoria.
Si ritrovò in quella che sembrava essere una sala riunioni, con pulitissime pareti bianche ed una grossa finestra che occupava tutta una parete. Alti grattacieli fendevano il cielo come una pioggia di spade,  mentre una nefasta e cupa coltre di nuvole si estendeva in ogni dove, rendendo l’intera città grigia e triste. Intorno ad un lungo tavolo, anch’esso bianco ma con un’ovale di vetro oscurato al centro, sedevano una dozzina di persone dall’aria assorta che osservavano il Mark del ricordo descrivere nel dettaglio il progetto che stava presentando. Vedersi in giacca e cravatta lo fece sentire ridicolo, tanto poco era abituato ad indossarli.
“Con questo progetto, i nostri cari amici ricercatori della Silph S.P.A. avranno finalmente la possibilità di lavorare in luogo centrale della città, grazie al quale potranno ottenere il prestigio necessario ad ottenere ulteriori finanziamenti da parte delle sponsorship. L’area verde del parco verrà ridotta, ma la società si è impegnata a finanziare l’apertura di due spazi verdi nell’area vicina a Bickury Beach” disse con un piglio ed un carisma di cui, rivedendosi, non si sarebbe mai creduto capace.
Passò poi ad elencare le sezioni in cui sarebbe stato diviso l’edificio, finché non arrivò a parlare di quelli che sarebbero stati gli ultimi piani. Lì si bloccò per qualche istante, come se qualcosa gli impedisse di parlare.
“Gli ultimi piani… gli ultimi piani verranno interamente dedicati allo studio delle malattie e delle  deformazioni cardiache” disse. La sua voce, che era stata fino a quel momento squillante e vivace, si era improvvisamente resa malinconica e profonda . I presenti lo applaudirono, probabilmente conosci della sua sfortunata storia.
L’immagine di colpo si distorse di nuovo intorno a lui, trasportandolo in quello che riconobbe essere il salotto della sua abitazione. Vide sé stesso scompostamente seduto su di un grosso divano nero, intento a guardare il telegiornale e giocare distrattamente al cellulare. Indossava una vecchia maglia da basket sporca di sugo e non si era preso la briga di indossare un paio di pantaloni. Fu chiaro come Katherine non dovesse essere in casa, anche a giudicare dagli avanzi del ristorante take away orientale barbaramente sparsi sul tavolo. Una notizia, improvvisamente, sembrò destare la sua attenzione, tanto da costringerlo a staccare gli occhi dal telefonino.
Circa quattrocento persone provenienti da gruppi ambientalisti hanno manifestato quest’oggi nelle vicinanze di Lincoln Park. I manifestanti, per lo più giovani, hanno protestato contro l’approvazione da parte del comune della costruzione del palazzo della Silph S.P.A., che dovrebbe prendere posto nell’ala est del parco. Il servizio”
Subito dopo le parole della giornalista vennero mostrate le convinte proteste dei  manifestanti, che portavano con loro cartelli e cantavano cori generici contro le cause farmaceutiche. Quello che però né lui né il Mark del ricordo si aspettavano di vedere, fu Yulian, presentato come l’avvocato che avrebbe posto la questione di fronte al tribunale.
Abbiamo qui il legale dei gruppi di protesta, l’avvocato Yulian Hardy. Sig. Hardy, per quale ragione avete deciso di intraprendere le vie legali?” chiese l’inviata.
Per difendere quello che è un diritto di tutti, ovviamente. Non possiamo permetterci di essere divorati dall’inquinamento al mero scopo di finanziare una società farmaceutica. La forza delle lobby sta mettendo nuovamente in secondo piano gli interessi dei cittadini e non sono, io come molti altri per giunta, disposto ad accettarlo”.
La linea tornò allo studio, mentre la sua attenzione venne attirata dalle ingiurie che Mark stava gridando, ricche di rabbia e rancore “Tu, lurido figlio di puttana, su tutti proprio tu… Yulian!”
Lanciò con rabbia il telecomando in terra, mandandolo in frantumi. Si ricordò di quel suo difetto, di come quelle pochissime volte che si arrabbiava sul serio tendesse a lanciare gli oggetti in terra distruggendoli.
Mark ripensò alle parole che Caty aveva detto dopo la stanza con i giocattoli ed al suo astio nei confronti di suo fratello, che improvvisamente gli parve più che giustificato.
 Il  mondo intorno a lui mutò nuovamente ed il vago odore di muffa che infestò le sue narici gli suggerì in maniera chiara dove si trovava. Era una stanza di legno, al cui centro era situato un tavolo circolare dall’aria fragile. Udì sé stesso parlare in maniera concitata, senza tuttavia capire cosa stesse dicendo. Dopo un istante vide comparire dalla porticina di legno il suo alterego insieme a suo fratello.
Sei stato tu a cercare di uccidermi, quindi  pensò con rancore e disprezzo se sarò ancora vivo dopo tutto questo me la pagherai cara, lurido pezzo di merda.
Fu Yulian, che insolitamente era vestito con una sorta di camicetta a fiori e dei bermuda, il primo di cui Mark riuscì a capire distintamente le parole.
“Non importa che tu sia mio fratello. La giustizia deve prevalere”
“Giustizia? Tu la chiami giustizia Yulian? Che ti piaccia o meno, quell’edificio salverà centinaia di persone”
“Persone Mark? Da quando ti interessa delle persone? So perché vuoi quel palazzo. Gli ultimi piani, la ricerca… si fosse trattato di uno studio sulle malattie neurologiche, ad esempio, ci avresti messo la stessa grinta? Staremmo qui a parlare, in quel caso? Sei solo un egoista. Quando mi hai invitato qui nella tua casa al mare, pensavo volessi parlare seriamente della vicenda, non sbraitarmi contro”
“Io egoista? E dimmi, da quando ti interessi dell’ambiente? Nemmeno tre mesi fa hai difeso la Cordox Industries, che hanno avvelenato intere aree in Messico con le loro emanazioni. La dov’era questo tuo spirito ambientalista, eh?”
Yulian sorrise, piegando il labbro da un lato come era solito fare. Quell’espressione emanava un senso di arroganza e superiorità tale da renderlo odioso oltre ogni dire.
 “Oh, noto che hai studiato fratellino. Pensavi davvero me ne importasse qualcosa? Oh, no mio caro. Questo è il mio lavoro! Mi pagano per difendere questa o quella causa ed io lo faccio, nulla più”
“Ed il tuo prestigio è più importante di tuo fratello o… di mia figlia, Yulian?”
“Sei ridicolo. Credi che quello studio possa cambiare le cose? Sì, in un futuro troveranno la cura. Ma tua figlia è morta, Mark. Pensi forse che loro siano in grado di farla tornare in vita? Devi andare avanti. Te lo ripeto, nel caso in quindici anni non te ne fossi ancora accorto” Yulian sospirò, come a prendere fiato. Scandì le parole successive con molta chiarezza, come se temesse di non essere sentito “Miriel è morta”.
A quel punto Mark non fu più in controllo di sé. Spintonò suo fratello, facendolo caracollare sul tavolo, dopodiché lo colpì con un destro sul volto.
“No…” biascicò il vero Mark, assistendo in ginocchio alla scena. Ormai aveva capito.
Yulian fu troppo sorpreso per reagire. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, si ritrovò immobilizzato al tavolo con la mano del suo aggressore intorno al collo.
“Non… Non posso essere stato io…” sussurrò nuovamente Mark, ma nulla e nessuno poté sentirlo.
Mark prese un coltellaccio da cucina dal tavolo e lo pugnalò nel ventre.
“Nooooo!” gridò un ultima volta. La vittima che aveva visto nel primo ricordo non era lui, ma il suo fratello gemello.
 Sangue scarlatto colorò la chiara camicia di Yulian, la cui espressione agonizzante segnava sempre più come la fiamma della vita in lui si stava spegnendo.  Mark si sentì divorare dal rimorso mentre, molto lentamente, la stanza di legno diventò sempre più bianca, fino al punto da costringerlo a chiudere gli occhi. Sentì un forte mal di testa, tanto pressante da renderlo incapace di pensare. Infine, tutto svanì nel nero.
“Mark… Mark mi senti?”
Quella che udì era una voce melodiosa, calda ed in qualche modo sensuale. Aprì lentamente gli occhi, come aveva imparato a fare dopo i continui abbagli che lo avevano colpito sino a quel momento.
“Mark, amore mio…”
Riconobbe quella voce. Era Caty. Sentì la sua mano, calda come tendeva ad essere in qualsiasi situazione, accarezzargli il viso. La prima cosa che vide furono due fastidiose lucine verdi, che non faticò a riconoscere. Ad emanare quelle luci era un strano macchinario, che un uomo vestito di una tunica bianca, forse un infermiere, tolse quasi immediatamente. Fu in quel momento che Mark capì di essere tornato nel mondo reale, sdraiato su uno scomodo lettino che da come si muoveva pareva avere delle rotelle alla base. Si guardò intorno, capendo di trovarsi in una sorta di stanza d’ospedale. Ricordava tutto della sua vita, sia quello che era avvenuto dentro la sua testa sia quello che invece era avvenuto nella realtà. Guardò Caty, la quale lo baciò sulla fronte, inumidendo con le lacrime il volto del suo amato.
Mark, con un fil di voce, chiese la prima cosa che gli passò per la mente “Yulian è…”
“Yulian si riprenderà, Mark” disse un uomo dall’aspetto austero e severo, che lo scrutava con profondi occhi neri  “La ferita del coltello è stata poco più che superficiale. Se collaborerai e ti dimostrerai pentito verrai condannato per aggressione a mano armata e non per tentato omicidio, come invece vorrebbe l’accusa. A proposito, non mi sono ancora presentato. Sono Damian Prescott, addetto alla verifica del Reset per il suo caso”
Mark annuì, tendendo debolmente la mano. “Mark Hardy” biascicò “Dove… dove sono? Perché io…”
“Ancora non ha ripreso tutte le informazioni, noto. Non si preoccupi, è del tutto normale, presto ricorderà quanto sto per dirle anche da solo. Abbiamo resettato la sua mente per sua stessa volontà, signor Hardy. Usiamo questo macchinario per verificare, una volta messo il colpevole o presunto tale a contatto con la sua stessa memoria ed i suoi stessi crimini, quanto vi sia il rischio che esso possa reiterare il reato e quanto potessero essere intenzionali le sue malefatte. Grazie a questo gioiellino abbiamo potuto scarcerare in anticipo decine di persone innocenti o che non avrebbero mai recato altro danno alla società. Lei, signor Hardy, direi che è proprio uno di quei casi, per quanto chiaramente dovrà scontare la giusta pena per i suoi crimini”
Sentire quelle parole per Mark fu una liberazione. Un paio di infermieri lo portarono in una piccola stanzetta, dall’aspetto anonimo, con orribili mattonelle bianche e gialle ed un’aria smorta che, per qualche motivo, gli concigliarono il sonno. Sentire la calore della mano di Caty stringere la sua lo fece sentire sicuro e protetto da ogni male.
“Caty” disse debolmente. Aveva sonno, molto più sonno di quanto potesse sopportarne.
“Dimmi amore” rispose lei con voce vivace. Era sempre lei, dei due, quella che incoraggiava l’altro.
“Miriel… ci vuole bene”. Mark chiuse gli occhi sorridendo, lasciando che la sua stanca mente potesse riposare e che l’oscurità lo avvolgesse nel suo soporifero manto .


 
EPILOGO

 
Una folata di vento scompigliò i capelli di Caty, che risplendevano argentei alla luce del sole. Se ne stava appoggiata su Mark, osservando la lapide intestata a “Miriel Hardy”.
 Fece un cenno con la testa e decisero di andare. Era un giorno tiepido e soleggiato, l’ideale per fare una passeggiata al parco. Sapevano entrambi che l’età non era ormai più loro amica e che quel privilegio, quello di immergersi nella natura verde e viva di Lincoln Park, non sarebbe durato ancora per molto.
Camminarono lentamente per diversi minuti, senza aver bisogno di dirsi nulla. Erano ormai passati più di cinquanta anni da quando avevano deciso di unire le loro vite e, nonostante le numerose difficoltà, i momenti drammatici e le inevitabili crisi, nulla era riuscito a separarli.
“Voglio sedermi un po’”disse Mark, avvertendo un fastidioso dolore alla schiena. Giunsero fino ad una panchina di legno, sulla quale si sedettero senza fretta. Non avevano scelto per caso proprio quel posto. Davanti a loro si ergeva il “Mercy Center Building”, il grosso grattacielo di cui Mark stesso era stato l’architetto. Il suo nome era ancora leggibile in una targa davanti l’ingresso.
 “Che ore sono, Caty?”
“Le 12,45. Siamo in anticipo di quindici minuti”
“Meglio così” sospirò Mark, cercando di aggiustarsi la sua inamovibile zazzera grigia, la quale non ne volle sapere di ricomporsi.
Caty rise, osservando il suo goffo tentativo “È da quando ti conosco che ci combatti” disse “non saprei dire se sei più persistente tu od i tuoi capelli”
Mark ridacchiò. “Beh, è facile non arrendersi quando si ha sempre vinto. Ma fosse l’ultima cosa che faccio, giuro che un giorno riuscirò ad avere una pettinatura sensata!”
“Se sono aperte le scommesse, punto tutto quello che ho sui capelli”
“Traditrice!” esclamò Mark, fingendo un tono offeso.
I due anziani coniugi continuarono a schernirsi finché un nugolo di persone non uscì dal palazzo. Il loro parlottare concitato ed allegro era il chiaro segnale di come fosse iniziata la pausa pranzo.
Quasi per ultima, insieme ad un paio di amiche e colleghe, uscì colei che stavano aspettando. Era una ragazza dai capelli neri tagliati corti, un piccolo naso leggermente all’insù e le labbra fine. Indossava una maglietta violacea con una sorta di strano orso disegnato sopra ed un paio di jeans piuttosto stretti. Non appena li vide, la giovane donna parve decisamente sorpresa e li salutò con un cenno della mano, per poi avvicinarsi con passo svelto.
“Ciao!” disse con una vocina volutamente acuta, quasi stridula “che ci fate qui in città?”
“Pensavamo di farti una sorpresa! Pensavi che ci fossimo dimenticati del tuo compleanno?” disse Caty, porgendole un piccola bustina arancione.
“Ehi, grazie!”
La donna li abbracciò con tale foga da fargli male. Aprì la bustina, trovandovi all’interno una piccola scatoletta di colore blu dal bordo vellutato. La aprì con espressione entusiasta rivelando un piccolo anello, con una pietruzza rossa a forma di cuore posta sulla cima.
“È bellissimo… e molto azzeccato!” esclamò sorridendo.
“L’ho scelto apposta scema, certo che è azzeccato” disse Mark “Leggi il bigliettino!”
La giovane frugò nella bustina, trovando un biglietto rosa con su disegnato uno strano  coniglietto dagli occhi grossi e l’espressione tenera.
“Che carino!” disse,  dopodiché lesse a voce alta le parole che Mark, con la sua splendida calligrafia corsiva, aveva scelto e scritto.
Quando un cuore non batte più, quello di qualcun altro batterà ancora più forte. Gli anni passano, portando con loro gioie e dolori. Ma quei cuori batteranno ancora grazie a te, esattamente come i nostri. E finché almeno uno di loro sarà in grado di battere e combattere, essi continueranno a vivere per tutti coloro che hanno ceduto.
Per la nostra Mercy, la migliore cardiologa del mondo.
Con Amore, Mamma e papà

*Beh, questo è quanto. Piaciuto come finale? Piaciuta in generale la storia? Fatemi sapere, ci tengo davvero tanto. Grazie a chi si è preso la briga di recensire tutti i capitoli ed addirittura fare teorie. E' stato davvero divertente, e qualcosa qua e là è stata anche azzeccata.
A breve comincierò una nuova Long (Massimo 10-12 capitoli) che però finirà nel genere Drammatica (perchè invece pure questa è stata una ventata d'allegria in effetti....) per quanto non mancheranno pezzi comici e spensierati. See ya Soon!
-Laky099
   
 
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