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Autore: _sonder    17/11/2015    3 recensioni
Mani stanche reggono una scodella di ramen e ricordano sulla pelle, perché nemmeno il corpo dimentica.
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Genere: Introspettivo, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
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Titolo: Come un oleandro
Rating: Giallo
Genere/i: Storico, Drammatico, Slice of Life, Introspettivo
Paese in cui è ambientata la storia: Giappone
Avvertimenti: Contesto pre/post bellico.
Introduzione: Mani stanche reggono una scodella di ramen e ricordano sulla pelle, perché nemmeno il corpo dimentica.
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Note dell’autore: Gyoza: ravioli di carne, verdura, pesce. Solitamente serviti prima o dopo il ramen.
Kaki furai: specialità di Hiroshima, ostriche.
Vergini di Hiroshima: donne gravemente sfigurate dalle radiazioni. Grazie al contributo di un'associazione religiosa e di una campagna di sensibilizzazione, molte di loro vennero condotte in America per sottoporsi a interventi di chirurgia plastica correttiva/estetica. Altre vennero operate a Tokyo, quando alcuni medici giapponesi sostennero un tirocinio gratuito negli USA.
Shina soba: nome di attribuzione cinese del ramen, utilizzato negli anni '50.
Shamisen: strumento della famiglia dei liuti, a tre corde.
Haori: casacca da indossare sopra il kimono.
Obi: cintura del kimono.
Kombu: alga molto dura, bollita e usata per ammorbidire o insaporire o addolcire i piatti.
Hibakusha: letteralmente "sopravvissuto", ma utilizzato con senso dispregiativo, "persona affetta dalle esplosioni/dalle radiazioni".
Parole giapponesi di uso comune nei dizionari italiani non sono state rese in corsivo.
Formattazione dei dialoghi seguita: metodo Einaudi.
L'oleandro del titolo rimanda all'aneddoto secondo cui fu la prima pianta a rifiorire dopo la ferita inferta a Hiroshima.
Pregiudizi e maldicenze sono frutto del clima sociale dell'epoca.



Come un oleandro

In una scodella
riflessi di un oleandro:
vita che sboccia.

All'ombra dei ciliegi in fiore, una fila di persone si snoda sciolta come acqua lungo il parco. L'ambulante attrae la clientela e promette succo di arance, spremute sotto lo sguardo entusiasta dei presenti. La calca rassomiglia a una lunga sequenza di formiche operose, ma c'è una scossa di stupore che la attraversa: è la ventata di novità, il brusio che si leva all'udire il prezzo vergognoso della bevanda fresca e la rarità delle arance in questo angolo di mondo.
Siedo sui talloni a braccia conserte, le mani nascoste fra le pieghe pesanti di uno haori consunto dal tempo; la stuoia gratta le ginocchia, ma resisto. La pelle è logora come gli abiti che indosso e racconta, trattiene storie dimenticate di anni remoti. Guardando le rughe sui polsi e i fasci ramificati, che si estendono sul dorso delle mani, mi domando quanto tempo sia trascorso dall'ultimo pasto che ho preparato. Quando le dita di un cuoco non sono più in grado di tagliare e pulire con cura il pesce né di tenere un coltello, è il momento di ritirarsi e serbare un briciolo di orgoglio, di entrare fra le vecchie glorie superate e accontentarsi di un trafiletto su un manuale di cucina. È difficile abituarsi: le spezie mi solleticano ancora l'olfatto, danno sfoggio della loro essenza come una donna e colorano le mensole; eppure non riesco più a distinguerle. Gli aromi si confondono l'uno con l'altro, scendono in gola e formano un groppo intenso, un altro rimpianto non messo in conto. Sto appassendo, mentre la vita sboccia: è un'altra verità a cui non so rassegnarmi.

Hanami, la stagione della fioritura, dipinge il Parco della Pace di un rosa incerto e dispettoso. Tra il folto dei rami, le gemme e i fiori oscillano e scuotono il capo: sono bimbi intenti a giocare, a segnare il panorama di visi tondi, ornati da lucide scodelle nere; i capelli sottili battono sulle loro fronti, mentre saltano e penetrano le minuscole oasi di verde con strida, capricci e risa.

Ciò che i miei occhi assaporano è il ventre umido delle ostriche: — Kaki furai, — mormoro e sembra che, pronunciando queste parole, la lingua scorra sul mollusco e ne catturi il condimento, ne saggi la forma. L'odore del mare è tanto intenso da invadere le narici e delineare la costa impervia di scogli della mia infanzia. D'un tratto, sento di essere un randagio rimasto troppo a lungo lontano dalla spiaggia, dove correva incontro alla spuma delle onde, al sole indifferente agli stormi bianchi dei gabbiani, agli spruzzi d'acqua sollevati a pedate, assieme a collinette scure e dense. Mi coglie un'improvvisa nostalgia e l'illusione della sabbia tira le caviglie nel suo grembo al riparo dall'afa, aprendo attorno ai piedi dei mulinelli dorati. Riesco a percepire l'improvvisa frescura delle buche e il brivido lungo la schiena. Dove sono corsi via quei giorni, che tenevo fra le dita insieme all'aquilone di carta di riso?

Stringo gli occhi sognanti e un bambino pronuncia un segreto alla donna che gli tiene la mano: — Mamma, mamma... quel signore sembra un rospo!
Scrollo la testa e non approvo l'impudenza delle nuove generazioni: mio padre avrebbe usato un manrovescio, finché non mi fossi inchinato. Coi palmi che scivolavano, aderendo alla coscia e poi al ginocchio, sarei stato il fondo di un recipiente capovolto. Oggi, dopo tanto lavoro per tenere in piedi il Paese, noi vecchi meritiamo soltanto morsi di zanzare che non riusciamo a vedere. Gracido un lamento e gonfio il petto per il disappunto: resta impigliato fra un colpo di tosse e l'altro, al passaggio dei due, e non trovo parole. Rimango a guardarli con gli occhi ridotti a una pennellata d'inchiostro.

Il quartiere sfollato è percorso da un banco fitto di pulviscolo: ai raggi del sole si svela quale matassa appiccicosa di un ragno. Il profumo del legno mi carezza il volto per dirmi addio: la vecchia casa è stata abbattuta per timore di un bombardamento. Gli incendi sono difficili da domare, quando manca persino l'acqua per uso personale...
I B-29 ronzano sopra le nostre teste e le sirene urlano di recarsi nei rifugi fino al cessato allarme; alzano la voce come mamme isteriche. Osservo i crocevia di macerie e legna e piango per la vecchia casa, strofinando le palpebre prima che un vicino mi scopra. I ricordi di mio padre sono seppelliti sotto quelle travi, tra cumuli di detriti che non riconosco, uniti dallo stesso sbuffo stanco prima di rovinare a terra. Vorrei scusarmi con lui per non aver saputo badare alla nostra proprietà come gli avevo promesso, ma l'Imperatore Hirohito ci ha chiesto dei sacrifici e non sarò un traditore della causa giapponese.

La guerra finirà, dico sempre alla mamma, quando il brodo di pesce borbotta sul fuoco e cerco di tenere pulita la scorta d'acqua. Lei annuisce in silenzio, le guance appese alle ossa del volto e un sorriso che sembra l'amo della canna da pesca di mio padre. Non aggiungo altro e torno ai pasti da preparare. Una scodella di ramen contiene tutto il mondo e il nostro è gustoso, conquistato a furia di rinunce e duro lavoro e per questo più dolce da cullare nel ventre. La fatica che sento oggi mi ripagherà domani degli sforzi compiuti. Guardo all'avvenire con fiducia, nonostante la notte sia costretto a tenermi l'addome per attutire il bruciore, la pena della fame e a masticare semi o alghe, pensando di gustare altre leccornie o alle alternative per insaporire il ramen da vendere, in assenza di materie prime.

La dispensa si svuota e barattare beni sta diventando la sola maniera per continuare a lavorare. Batto una mano sulla gamba più corta: formicola e la cicatrice sulla coscia duole, come se volesse lacerarsi e non contenere più la mia carne senza tono, che non vale quanto quella di un nostro soldato.
Mi pento di aver dato via la bicicletta per le consegne in cambio di farina e uova, ma devo resistere se voglio comprare un fabbricato per la famiglia. Ho intenzione di farlo costruire identico a quello eretto dal mio defunto padre, perché non sia triste e io possa mantenere la parola data.

Nella cucina gorgogliano tre pentole, le uniche che abbiamo: contengono la base del brodo shoyu ed emanano una fragranza calda e piena. A volte credo d'impazzire, perché la saliva scende copiosa e stuzzica il palato, quando annuso l'aria. Il sudore mi travolge interamente, ma fisso lo sguardo sulla cresta ambrata che brontola sul fuoco, con il sentore di sedano che fugge dal tegame e si solleva nel vapore, l'olezzo di cipolla finemente tagliata e appena dorata dal soffritto. C'è una poesia che sa di antichi versi e segreti, sconosciuti ai samurai e agli aristocratici: è l'armonia di più sapori, tersa nello specchio di un brodo, che riscalda la bocca e cola nello stomaco. Mi annoda le viscere al ricordo della nonna, dei capelli raccolti in un'acconciatura nivea, del kimono arrotolato sulle braccia, che conservava il profumo del cibo. Fra le sue dita rugose reggeva il peso del mondo e la responsabilità di saziare un'intera famiglia. Senza più marito, stava china nelle risaie e allevava polli. Non sono mai riuscito a eguagliare l'equilibrio del suo ramen: proporzioni misurate con l'occhio scaltro da contadina e non con i numeri. Armata di testardaggine, controllava con pazienza scrupolosa l'ebollizione dell'acqua, la salatura delle verdure tritate e i cubetti di pollo, accantonati sul tagliere. Aggiungeva la carne soltanto quando versava la pasta di frumento in una ciotola, perché il pollo fosse tenero e non bollisse assieme alla brodaglia. Più volte al giorno passava la lama sul ventre luccicante dei pesci e sfilava lische, rimuoveva spine con la precisione di un medico. La sua cucina povera arricchiva le papille di una magia sconosciuta a tutti, eccetto che a me. Ero fiero di essere il depositario dei suoi segreti, seppure non li comprendessi del tutto.
Ancora oggi, quando immergo il mestolo e osservo le gocce d'olio butterare la cima del condimento e lo stomaco langue dall'inedia, penso ai denti stretti della nonna, ai gesti pesati, al debole aspirare della sua bocca, per assaggiare quanto bastava: né di più né di meno.
Me la figuro con la schiena curva e le articolazioni infiammate, che non le rispondono ai suoi ordini e strizzo gli occhi, l'involto di stoffa sulle scodelle e lo sguardo che ignora gli orfani e i loro musi lunghi. Sento pietre che sibilano accanto al mio orecchio e ondeggio, cambio strada, mai nei vicoli secondari o nelle vie strette, dove si annidano sciacalli e bande di delinquenti al servizio di yakuza e di usurai del mercato nero.
E l'uomo dentro di me piange la miseria a cui sono costretti altri che potrebbero essere al mio posto; ma l'egoismo regge la scodella con le unghie pronte a scattare, i calci improvvisamente più robusti e aggressivi e il serramanico nascosto sotto l'obi. Non potrei comunque sfamare nessuno se morissi.

Il numero dei quartieri evacuati aumenta: le case in legno sono abbattute da comitati di adolescenti. Chiunque abbia più di dieci anni deve lavorare con vanghe per strada o nelle fabbriche di acciaio per aiutare flotta e soldati. Dei trovatelli si occupano i topi, i pidocchi e i ladruncoli in cerca di sandali e vestiti da trafugare a cadaveri ischeletriti. Nel mio Paese che soffre, io guardo al domani e svio la vista dai morti: sono un cuoco affamato che raziona i suoi averi per sopravvivere. Sfamo chiunque riesca a pagarmi e nego del prezioso brodo ai mendicanti.

A Hiroshima i treni fischiano e sfilano lungo i binari verso le campagne: è lì che tanti bambini senza genitori vengono dirottati. Indossano targhette al collo con i loro dati; alcuni piangono, impauriti dalla folla; altri, contati dalle maestre, sono rispediti in fila con uno spintone, mentre saltellano di gioia perché non hanno mai visto una locomotiva da vicino: i viaggi sono un lusso di pochi.
Ai banchi, accanto alle porte delle carrozze, siedono alcune donne accigliate. Controllano le generalità dei bambini e li lasciano entrare, abbaiando comandi e raccomandazioni. In una cassetta della frutta ho disposto qualche pila di ramen per gli addetti al trasporto e alla sicurezza. I visi smunti dei più piccoli guardano febbrilmente la ceramica e i tagliolini conditi con salsa di soia, che si sciolgono in bocca e vengono aspirati in un baleno, sparendo fra le labbra inumidite. È una lotta di sguardi fra chi non può avere e chi ha e mi allontano, patendo lo stesso crampo all'addome, con la convinzione di conoscere la forza degli dei: come loro, stabilisco chi ha diritto alla vita.

È l'ennesimo mattino di un agosto di fuoco. Mia madre carezza lo shamisen e intona un canto della sua epoca. Le note la guidano alla dolcezza di venti anni fa, quando era in età da marito e i suoi giorni scorrevano nell'ansia di essere accettata di buon grado dai suoceri.
Ho deciso di sposare Junko, mentre rinvenivo le alghe kombu dall'acqua tiepida. Guardavo la loro consistenza e mi dicevo di essere coriaceo allo stesso modo: per quanto fossi a mollo in una situazione disperata, potevo ancora spaccarmi la schiena e dare di che vivere alla mia famiglia. A guerra conclusa, avrei aperto un ristorante.

Penso a Junko, alla nuca sottile nascosta da una lunga coda. Non sta bene per una donna legare i capelli a quel modo, ma lei continua a portarli così. Dice che è pratico in fabbrica, quando deve abbassare il capo e forare i pezzi di acciaio e passarli alle colleghe della catena di montaggio. Le operaie sembrano chicchi grezzi di riso: tutte uguali, in pantaloni chiari e camicette sbiadite, le teste annerite e le sagome esili. Persino il riso è stato razionato e la borsa ne consegna poco alle famiglie numerose. Tante di queste madri, mi racconta Junko, svengono a lavoro per nutrire i loro figli. Talune, se scoperte, sono rispedite a casa e licenziate; altre hanno la fortuna di essere sostituite brevemente da qualche compagna. Se la catena s'interrompesse, perderebbero tutte la paga giornaliera: l'Imperatore esige una produzione celere per rifornire le truppe navali e di terra.

Tolgo le alghe dall'acqua e divido il contenuto della stoviglia: metà per la zuppa di miso e l'altra per il brodo danshi. Non spreco nulla: è il segreto che un bravo cuoco condivide con gli affamati. Di questi tempi, gli uni e gli altri sono nella medesima situazione.

Quando non lavora, Junko trascorre la serata in casa nostra o mi aiuta in cucina. Ho recuperato una bicicletta arrugginita per le consegne, in un rione abbandonato. È in pessime condizioni, ma meglio che andare a piedi. Così, Junko e mia madre badano alla base del ramen e io consegno più velocemente agli uomini della ditta di costruzioni.
Da qualche tempo Junko ha un viso più tondo. Dice di averlo capito quando l'odore delle carpe grigliate le ha dato allo stomaco e il ritardo è aumentato. È stato allora che mi sono rassegnato alla sua coda lunga; non sta neanche bene che un uomo metta incinta una donna prima di sposarla. Dovrò chiedere la benedizione ai suoi antenati e curarmi che nessuno dei vicini lo scopra o le chiacchiere mineranno gli affari.

È una mattina di agosto e il sole si dona come tuorlo d'uovo sodo: è una sfera in un cielo sbiancato dalla luce, pallido quanto i morti di fame che mi danno dell'assassino. Conto le vertebre più facilmente, dannandomi per il poco sonno e limitandomi a sognare focaccine di riso, quando ingurgito soltanto tè amaro. L'allarme si spande e scricchiola, crepitando dentro le imposte. Ho il tempo di chiamare mia madre, di allungare il passo sino al soggiorno e guardarla a distanza, in piedi nel giardino, con gli occhi al cielo e una mano che la scherma dal sole.
Un fischio mi volta: un rombo scrolla il cielo e il tuono seguente mi fa sanguinare un orecchio. Dal dolore non riesco ad aprire le palpebre: sono secche come al risveglio. Ricordo un lampo, il tramonto di fuoco a mattinata non ancora inoltrata: intenso come le fiamme del focolare, quando l'acqua calda sfugge dalla pentola e sgorga sulla lingua viva, accendendola d'ira. Sento una spinta e il corpo cedere, un fuscello senza nerbo, che rotola sui tatami. Vedo oscurità: i miei occhi vagano nel buio e tossisco, perché qualcosa opprime il petto e s'insinua in bocca. Trascorre l'eternità in questi minuti e il battito del cuore balza nell'orecchio ferito, si sposta anche lui, spinto dalla paura.

Quando vedo, mi dolgo di essere stato risparmiato. Della mia casa, è in piedi la colonna che ha impedito al tetto di crollarmi sulle spalle. Mi trascino a stento in giardino e urlo, chiamo mia madre. A terra, a qualche metro di distanza, c'è un rettile nero che striscia, si lamenta, chiede aiuto. Smette di muoversi poco dopo; da un pettinino fuso per metà, riconosco quel che resta della donna che mi ha dato alla luce.
Il cielo è una cupola di fumo e ciò che respiro brucia dentro il petto; ardono le nubi attraversate da bagliori verdi e scarlatti; piovono a terra oggetti incendiati, arti della città che un tempo sorreggevano palazzi e posteggi per i risciò turistici. Cammino a lungo e tento di portarmi le mani al volto: guardo la pelle che è stoffa del mio kimono; osservo il tessuto imbrattato da residui di carne abbrustolita.
Nell'aria non c'è più l'aroma rassicurante della zuppa, che invita a tavola; si sente un odore di uomini che bruciano, di plastica contorta, ridotta a grumi informi e grida simili a quelle di una ragazza colpita da un calderone di acqua bollente. Il quartiere è la testa di un uomo calvo.

Camminavo verso il cuore di Hiroshima: al crepitare delle fiamme si univano strida acute, pianti di bambini e singhiozzi inconsolabili. A piccoli gruppi, alcuni scolari correvano dai feriti, con gli elmetti sbeccati, usati come recipienti per l'acqua, e gli unguenti per le medicazioni. Prima di consegnarli dovevano obbedire al codice della scuola e chiedevano ad altri ragazzi quali fossero i loro insegnanti. Talvolta, le ombre non rispondevano più.
Erano suppliche sottili, uscite da bocche gonfie e guance strappate; sui corpi c'erano tizzoni anneriti e di rado i malati si sollevavano da terra.
Andavo verso Dobashi. Sulle colline, accanto alla sponda del fiume, c'era un letto di cadaveri. Molte persone cercavano ristoro nell'acqua per placare le ustioni. I feriti immobili piangevano accanto ai morti e la loro vita si smorzava in una lenta agonia: soli, con la consapevolezza di non ricevere parole di conforto, attendevano la morte, imprecando verso le nuvole.
Sono passato fra cadaveri e quelli che a stento riconoscevo come uomini, vergognandomi di stare sulle mie gambe, di avere le mani vuote e le guance piagate dalle lacrime. Provai ad asciugarle, ma la pelle venne via.
Tanti m'imploravano di restare, di avere un goccio d'acqua. Avanzavo, chiedendo scusa fra i denti, mentre qualcuno biascicava alle mie spalle: — Addio.
Nella mia testa la scodella di ramen si frantumava, cadeva in cocci a terra, e il tuorlo vomitava fuoco sulla città: anneriva i campi verdi, le risaie e la vita per come l'avevo conosciuta; nella poltiglia di resti galleggiavano uomini, come cibo scotto, sfilacciato nelle sue parti. Donne nude correvano perdendo sangue, le vesti stracciate e cumuli di grasso che pendevano come maniche scucite: il mio orgoglio è morto con loro, sui seni senza più latte che stringevano neonati deceduti.

Ho superato scuole ridotte a trappole per topi e guardato i vetri esplosi; ho visto impronte di sangue tracciare i muri e sentito il vento raccontare altri orrori, levare insulti e domande al sole.
La notte avanzava stancamente e rendeva avvoltoi. Con il suo drappo non c'era vergogna nel sottrarre effetti personali alle carcasse, ma non si attenuava la paura di essere colti in flagrante, di essere presi a sassate.

A lungo ho cercato la fabbrica in cui Junko lavorava. Il pensiero di proteggere lei e il bambino era più forte dei dolori alle gambe. Zoppicavo e non me ne curavo come avrei fatto anni addietro: adesso eravamo avanzi di un pasto andato a male, parti che sarebbero finite in un cestino, perché inservibili.
Il giorno sorse ancora. Percepivo il sudore scivolare fra le piaghe, ma non sentivo nulla sulla pelle morta.
Di fronte a me, altra distruzione, altre fantasie in frantumi. La fabbrica di Junko è una tavola: una fossa comune spianata dal crollo della costruzione. Si lavora per estrarre i resti e i volontari sono nervosi: come riconoscere i morti?

Non ci sono sopravvissuti. Consegno la pala al direttore dei lavori e siedo curvo, tra i salici che agitano la chioma: sembrano altri uomini che trattengono le carni e rifiutano la realtà. Penso all'arroganza, alla sfrontata sicurezza di cavarmela sempre e comunque: ho ucciso io Junko, mio figlio e mia madre; ho mentito al padre che desiderava un futuro per la sua casa di legno, alla nonna che mi aveva svelato la bontà del ramen.
Sulle escrescenze dei miei palmi, indovino la geografia di un Paese sconfitto e la tristezza del brodo, delle rinunce in favore di un futuro che ha deciso di non nascere.
Tremo o è la vista annebbiata dal pianto a confondere il corpo: sono vivo e non ho altro che questa sofferenza a ricordarmelo. Resto come la pietra, abbandonato fra gli alberi, a contare le foglie cadute e a chiedermi cosa ne sarà di me.

Le lanterne di carta sembrano stelle senza una meta, penitenti; avanzano nella loro luce fioca e portano i nomi di coloro che non sono qui a pregare per altri, mentre i vivi lottano contro le malattie da radiazioni, contro la povertà e il dolore non ci rende più legati come credevo. Anche mio figlio si libra nella corrente, su fogli senza nome, raccolti come un grembo da cui non è mai uscito. Esita appena nel cielo della sera; lo lascio andare col cuore greve e gli occhi umidi.

È trascorso un anno dal lancio dell'atomica. I dottori americani ci visitano, ma non hanno cure. I cittadini temono le persone toccate dalle radiazioni e le scansano, credendo che siano vittime della sfortuna, in grado di contagiare i loro figli. Il Paese ha bisogno di essere ricostruito, dicono; non possono adoperarsi per esso se qualcun altro minaccia la prole e loro stessi.
Li chiamano hibakusha e nessuno darebbe loro lavoro né li sposerebbe per timore di contrarre la medesima condizione di vita.
Sono uno di loro, ma quando mi domandano del mio paese natale, dico di essere nato e cresciuto a Tokyo e sento uno strappo al petto, immaginando il castello imperiale, la costa e le onde che si abbattono sulle banchine del porto; ciononostante, continuo ad affermare che sono un tokyoita. Fra una pausa e l'altra nel ristorante dove lavoro, sogno le cipolle verdi colte da mia madre, la coda folta di Junko, che affetta il manzo e mi consegna uno scalogno ben pulito e mia nonna che rimesta gli ingredienti, facendomi cenno di guardare bene... e il volto del figlio che non vedrò mai.
Mi sveglio con un sobbalzo e impilo le scodelle decorate con motivi in oro, sulle quali si avverte il pepe nero e l'azione sbiancante del sale. Vorrei tornare puro, immergendomi in una vasca piena di quei granelli bianchi; di idee bizzarre, da quando ho iniziato a stare male, ne sono balenate parecchie alla mente.
Continuo a impastare le shina soba nell'antico metodo cinese, usando farina di qualità e dando loro una forma riccia, dinamica come i capelli al vento di una donna. La salsa è intensa, saporita, ha un gusto deciso e vitale: potrei vedere le mani che mi tenevano in braccio in questo cerchio; le dita di Junko che mi stringevano per camminare alla stessa andatura.

Le strisce pedonali di Tokyo si sfaldano come una diga e lasciano prorompere la folla, divisa da correnti opposte che si mescolano nel liquido di una minestra colorata.
Nel traffico impazzito e nei flash dei neon si possono ascoltare il battito martellante della città, le bacchette di legno spezzarsi e poi immergersi in un piatto di ravioli alla carne. I gyoza accompagnano il ramen con la loro rotondità perfetta, scaturita dalle dita; hanno una natura croccante che cede all'accuratezza dei ricami per richiuderli e si lascia avvolgere dal macinato di manzo, dal sapore pungente dell'aglio e dai ciuffi leggeri di cicoria. Scivolano giù per la gola, uno per uno, e ingrossano di nuovo le guance degli impiegati: imperdibili, come i treni superveloci che li accompagnano a lavoro.
Mi volto verso il tempo perduto e immagino il chiosco mobile, il suono stridulo del corno per richiamare la clientela, il contatto con le persone. Oggi è qualcos'altro a misurare le temperature; non più i miei occhi stanchi, che vedono il miraggio delle pianure coltivate e il profilo dei templi... e il petto sussulta di paura allo sfrigolio della carne in padella, ricordando gli uomini in fiamme.


Hiroshima ha cambiato pelle. È anonima, minata dal verde di qualche polmone che ha scelto di non fumare né inspirare dalle ciminiere; si nasconde come qualunque altra città orientale, nel suo ammasso di cemento, finto legno e palazzi moderni. Boccheggia, ansando su soste ferroviarie della durata di brevi minuti.
Hiroshima è andata avanti, sfornando case come figli di un'altra epoca; ricorrendo alla chirurgia plastica come le vergini del posto. Mi guardo attorno e in lontananza, dalla mia seduta nel parco, intravedo la Genbaku dome, la cupola della Banca del Giappone e la struttura ossea, un corpo rachitico, a testimonianza della fame e della miseria di allora.
Sollevo gli occhi e schiudo le palpebre gonfie, indirizzandomi al cassetto della memoria: il parallelepipedo dai muri sottili, che mi fissa con le sue mostruose fessure di vetro. Non ho bisogno di quel blocco sospeso da terra per ricordare, per tornare all'inferno. Alzo sopra il naso la ciotola che reggevo fra le gambe, alla memoria di chi è diventato un'ombra sulla terra.
Accanto a me scoppiano risate, nascono famiglie oltre ai fiori: la vita cresce come un oleandro.

  
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