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Autore: DarkYuna    18/11/2015    1 recensioni
Quante volte, in passato, avevo fantasticato questo momento?
Dieci?
Cento?
Mille?
Sinceramente innumerevoli volte, ed ognuna di loro, era paragonabile alle scene d’amore dei migliori film hollywoodiani, degni di premi d’Oscar o ad un romanzo Harmony, dove il primo approccio tra i protagonisti era un frangente idilliaco e perfetto, non uno squallido incontro, tra un uomo qualsiasi, innamorato dell’idea stessa dell’amore ed una ragazza disillusa che, dell’amore, non conosceva più neppure il significato dotto della parola stessa.
Genere: Comico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*La bisbetica domata*







 

 
 
 
 
 
 
 
Una torre sotto una pioggia battente, ecco cosa avevo trovato.
Mattoni, erbacce incolte, solitudine, delusioni e l’ombra sbiadita di un amore che si era consumato nel fuoco stesso che l’aveva generato.
A cosa era servito? A cosa?
Attraversare l’Europa intera per un sogno di cristallo che si era infranto su pietre acuminate, rilegato in un passato così remoto, da faticare a riconoscere come mio. 
A niente, ecco a cosa era servito.
 
 
Spendere i soldi per un viaggio che avevo bramato come l’ossigeno, solo un paio di anni fa, eppure pareva trascorsa una vita intera, però nell’anima, avvizzendo velocemente in un cuore stanco, costellato da dolori perpetui, ferite profonde come voragini e lacrime di cui ero satura.
Sembravo una di quelle protagoniste bellissime, dei film americani, dove la bambina, vittima di ingiustizie, desiderava ardentemente diventare un’adulta e il mattino dopo, il suo desiderio diveniva magicamente realtà.
 
 
In fin dei conti era accaduto lo stesso anche me, solo che il mio aspetto era sempre lo stesso, più o meno, ma ero cresciuta lì dove gli occhi umani non potevano vedere. Il destino aveva in serbo amare sorprese per i grandi sognatori e solitamente non erano sorprese gradite, solo incentivi per trasformarli in freddi e cinici disincantati.
 
 
L’acquazzone scrosciava imperioso sull’ombrello grigio, facendo compagnia al temporale che si diroccava nell’anima.
Era stato sbagliato venire fino a qui, con la vana speranza di riuscire a ritrovare quella scintilla di vita che avevo definitivamente perduto, assieme alle emozioni, i sorrisi, i progetti e le ambizioni.
Qui… dove risiedeva colui che era stato in grado di suscitarmi passioni impetuose, tumulti sconvolgenti e un amore che non avevo mai provato per nessuno. La voragine che imperversava al centro del petto aveva risucchiato via ogni cosa, lasciando un deserto di ghiaccio su cui continuavo a cadere rovinosamente.
 
 
Helsinki.
L’avevo pronunciata così tante volte, da aver perso il conto, consumato il nome della città, resa mia, mi ero sentita parte di essa… mentre ora non vi era alcun luogo su questa terra, che potevo avvertire come casa.
 
 
Una luce all’interno della torre si accese d’un tratto, cogliendomi alla sprovvista e una figura scura sostò dietro la finestra rettangolare, al secondo piano. Nel buio della sera appena calata, non potei distinguere i tratti del volto, la morbidezza della bocca e il verde di quegli occhi che conoscevo a memoria, ciò nonostante avvertii il suo sguardo poggiarsi su di me, ferma sotto il piovasco di metà giugno.
Avrei dovuto provare qualcosa, andava bene anche un leggero fremito, poiché ero convinta che la soluzione ad ogni problema, abitasse in una vecchia torre di un paio di secoli fa, ma non accadde nulla. Quanto avevo pregato gli Dei del cielo, per avere una possibilità simile, ed adesso che l’avevo ghermita, non saggiavo le emozioni che speravo di avere.
 
 
Persuasa che bastasse una persona, per porre rimedio al vuoto che albergava nella sottoscritta.   
 
 
Lui se ne stava fermo dietro un vetro, lontano fisicamente e spiritualmente, come lo era stato negli ultimi dieci anni e a Milano nel duemilatredici. Era stato un bel periodo quello, un periodo affogato nell’avvento degli episodi tragici che mi avevano attraversata in seguito: l’inizio della fine.
 
 
“Basta inseguire le utopie. Sono troppo vecchia e stanca per permettermelo.”.
 
 
Un'altra occhiata sull’ombra della torre, scrollai le spalle e camminai pigra, sparendo nell’oscurità. 
Che destino crudele mi era stato assegnato, assaggiare il paradiso, abbagliata dalla sua luce, per poi essere scaraventata nell’oblio eterno.
Già, proprio un destino crudele… un destino che non aveva ancora smesso di accanirsi contro di me e giocare con la mia vita.
 
 
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Il cielo celeste e limpido avvolgeva Helsinki come una dolce coperta splendente e priva di nuvole. Strano, qui l’azzurro del suo manto era diverso, più chiaro, come se fosse consapevole di appartenere ad un luogo differente, da quello da cui provenivo e, con l’aria frizzante del mattino, una bislacca allegria andò ad alimentare il buon umore.
 
 
Nonostante l’acquazzone del giorno prima, le strade adiacenti all’Aussie Bar, sulla Pohjoinen Rautatiekatu, dietro la stazione dei bus Kamppi, era asciutta e priva di pozzanghere.
 
 
Munita della guida su Helsinki, comprata qualche anno prima, ero pronta a scoprire la città che un tempo avevo giurato, sarebbe divenuta la mia madre patria. Mi davo della stupida, ma all’epoca era un sogno scritto sulla lista delle “mete da raggiungere” e finita accartocciata nella spazzatura delle illusioni. Ingenua ragazzina che non esisteva più, diversa nell’aspetto e soprattutto nell’anima.
 
 
Respirai grosse boccate fresche d’ossigeno, naso all’insù e gli occhi chiusi, per sfruttare al meglio gli altri quattro sensi ed imprimere a fuoco le dolci sensazioni trasmesse dal capoluogo finlandese. La temperatura piacevole che accarezzava la pelle, il fragore mattiniero del traffico e del via vai delle persone, il profumo marino che danzava leggiadro, riuscivano a donarmi delle emozioni nuove, primitive e che si sarebbero legate su di me a lungo.
 
 
Era Giugno, ma ad Helsinki, la stagione estiva non era paragonabile a quella Italiana e dovetti indossare il bolero, per evitarmi un’influenza con i fiocchi, che non potevo buscarmi. Giocherellai distratta con la cannuccia colorata del frappuccino alla vaniglia da venti, sommerso da una nuvola soffice di panna e filacci di caramello: il mio preferito. Addentai il ghiotto cupcake al cioccolato e smarties, donandomi l’unico momento di dolcezza e tranquillità, per carburare prima di affrontare la fragorosa giornata da turista. Mi ero mescolata tra i clienti del locale, quasi come una risiedente del luogo e da sotto il dehors bianco, perlustravo i volti sconosciuti, impegnati a conversare tra di loro, in un ambiente confortevole, condito da buona musica rock e cocktail costosi.
 
 
Voltai la pagina della guida, stilando a mente le tappe personali che avrebbero aperto la lunga settimana di vacanza. Sorseggiai la bevanda fredda, distratta dalla moltitudine di luoghi che dovevo ad ogni costo visitare.
Assolutamente Suomenlinna, l’isola fortezza posta a guardia del porto. Alle undici ci sarebbe stata una visita guidata in lingua inglese e, per me, che non ero ferrata in finlandese, era l’ideale. Avrei proseguito poi fino alla Kauppatori nell’edificio della kaupphalli ad assaggiare prelibatezze locali, poi la Senaatintori e la vicina Cattedrale Uspenski. Tappa fondamentale il Tavastia e la chiesa di Tuomiokirkko, la mia preferita.
Ripensandoci bene, sette giorni erano pochi per visitare Helsinki come si deve, ma al momento dovevo farmeli bastare.
 
 
Leggevo assorta la cartina stradale.
Il mio senso dell’orientamento era notoriamente famoso per il suo fare acqua da tutte le parti. L’ultima volta che mi ero allontanata da casa, per il concerto degli HIM Milano, se non fosse stato per mio fratello, sarei ancora a Milano a vagare come un’anima in pena alla ricerca della stazione dei treni.
Dato che mi trovavo dall’altra parte d’Europa, completamente sola e spaesata, era meglio tenersi stretta la cartina con le indicazioni scritte, per evitare di perdermi e di arrivare ad Oslo, senza capire come.
 
 
Tenevo ancora il naso nel libro e mi accorsi solo in un secondo momento di una voce maschile al mio fianco che blaterò parole incomprensibili in finlandese, ma sarebbero potute anche essere in aramaico antico, il risultato, alle mie orecchie, era identico.
L’unico che si era degnato di avvicinarsi a me, a parte il direttore dell’albergo dove pernottavo, era stato il ragazzo del bar, per chiedermi cosa volessi ordinare, gentilmente mi aveva teso il menù e mi ero limitata ad indicare le figure, come una bambina analfabeta.
 
 
<< Grazie, non mi serve niente. >>, mormorai soprappensiero in inglese, rapita dal passato storico di Suomenlinna e liquidando il malcapitato con un gesto della mano.
 
 
<< A meno che tu non mi abbia scambiato per un venditore ambulante, non credo di volerti rifilare patacche… uhm forse l’accendino: quello non mi funziona mai. >>, disse calmo l’uomo adiacente al tavolino nella medesima lingua, divertito per la maniera sbrigativa con cui l’avevo licenziato in tronco. << Fumi per caso? >>.  
 
 
Increspai la fronte, sbigottita da una tale affermazione che andava ad interrompere la tranquilla quiete dei miei progetti.
La visione d’insieme dell’uomo mi tolse, per una manciata di secondi, la facoltà di ragionare lucidamente, l’idoneità di parola e la capacità di razionalizzare gli eventi.
 
 
Per primi furono le iridi, di un verde trasparente, arrossati, contornati da orbite livide e smorzati, che conoscevo molto più che bene, a colpirmi. Li avevo visti talmente tante di quelle volte che, avrei potuto dire ad occhi chiusi, i più piccoli particolari, le imperfezioni, la chiarezza delle pagliuzze e la sfumatura peculiare del colore. Eppure fu come se non le avessi mai viste, erano differenti, nuove, inconsuete, profonde e sconosciute. Un oceano di giada inesplorato.
 
 
Io, di quell’uomo, non sapevo nulla, del personaggio invece sì.
 
 
Il sorriso era accennato, mantenuto vago, quasi sibillino, però gentile. Tra le mani grandi, affusolate e dalle unghie mangiucchiate, due buste della spesa, avevano l’aria di pesare più di lui. Teneva un cappellino di lana nero calato fin sulle sopracciglia, i capelli raccolti interamente all’interno e, se non fosse che qui l’estate assomigliava più ad un fresco autunno italiano, avrei trovato ridicolo il cappellino in questa stagione. Su una felpa verde spento, una giacchetta elegante grigia cercava di dare un’aria meno sciatta e trasandata, però il tentativo veniva invalidato dai jeans a sigaretta sbrindellati e dalle converse consumate.
Colui che era stato la mia gioia e il mio tormento negli ultimi dieci anni, l’ancora di salvezza che non era riuscita a tenermi a galla nel mare di scelleratezze, probabilmente l’unico uomo che io abbia mai amato in questa vita e di certo l’ultimo.
Ville Valo.
Non il cantante degli HIM, non l’uomo che aveva scritto le poesie oscure per un cuore spezzato, non il nome celebre, non la persona famosa inarrivabile.
Solo un semplice uomo a dieci centimetri da me.
 
 
Quante volte, in passato, avevo fantasticato questo momento?
Dieci?
Cento?
Mille?
Sinceramente innumerevoli volte, ed ognuna di loro, era paragonabile alle scene d’amore dei migliori film hollywoodiani, degni di premi d’Oscar o ad un romanzo Harmony, dove il primo approccio tra i protagonisti era un frangente idilliaco e perfetto, non uno squallido incontro, tra un uomo qualsiasi, innamorato dell’idea stessa dell’amore ed una ragazza disillusa che, dell’amore, non conosceva più neppure il significato dotto della parola stessa.
Forse sarei dovuta essere sobillata, eccitata… almeno un po’, fingere magari, invece il vuoto totale covava in me, nel cuore e nell’anima. Era orribile trovarsi davanti all’unico uomo che era stato in grado di farmi provare sentimenti profondi, amore eterno ed emozioni inenarrabili e non provare più niente. Tutt’altro, lo detestavo, per non essere arrivato prima, invece che solo adesso, quando ormai ogni cosa era finita per sempre.
 
 
Buffo che fossi arrabbiata con Ville Valo, non era certo colpa sua se la vita era stata un completo schifo, tanto da arrivare a rovinare l’unica cosa buona che avevo trovato: lui.
Inspiegabilmente gli portavo rancore.  
 
 
<< No. >>. Fu l’unica risposta sbalordita, intanto che si sedeva al posto dinanzi al mio, senza chiedere il permesso, se fosse il benvenuto o se non fossi sola. Il suo modo di fare non mi piaceva. << Preferisco non riempirmi i polmoni di merda. >>.
 
 
Poggiò le buste della spesa a terra, accanto alla sedia in plastica nera.
<< Fai bene, alla tua età avrei dovuto fare la stessa scelta. >>, gorgogliò distaccato, più con se stesso che con me.
Indubbiamente era affascinante anche a trentotto anni, benché in molte dicevano che era invecchiato male, per me era ancora attraente, con i segni del tempo sul viso, il passato non clemente, gli abusi di alcool e la vita sregolata. Ogni ruga era amabile e parlava di lui.    
 
 
Lo guardai con un punto interrogativo stampato in faccia, cosa diavolo voleva da me?
 
 
<< Sei la ragazza della pioggia. Eri sotto casa mia. >>, rese noto ad un certo punto, sentendosi scrutato insistentemente. << Mi hai lasciato una lettera, ieri sera, ti ricordi? >>, domandò, stupito che non rammentassi della lettera che avevo imbucato nella piccola cassetta nera ancorata al cancelletto grigio fumo.
 
 
Fui sorpresa, molto sorpresa.
Gliel’avevo lasciata, era vero, ma non avrei mai creduto che l’avrebbe letta e, più di questo, accettato l’improbabile appuntamento che gli avevo scritto a fine foglio. Tentar non nuoce, mi ero detta.  
Era stata solo una prova, non ci avevo sperato neppure, quando, stamattina, mi ero seduta a questo bar. Per questo ero stata colpita di vederlo, poc’anzi. Le favole non esistevano, ed io lo sapevo bene.  
 
 
<< E quindi? >>, rilanciai inespressiva. Evitai di bere o mangiare, sarei stata capace di sbrodolarmi come una povera decerebrata e addio all’aria di ragazza sicura di sé, fredda e disinteressata.
 
 
Strofinò le labbra, messo in evidente difficoltà.
<< Sbaglio o ti diverte farmi sentire un coglione? >>.
 
 
Puntellai il braccio al tavolino e nascosi il sorriso dietro la mano.
<< Perspicace. >>, mi congratulai. Chiusi la guida alla città e attesi che fosse lui a rompere il ghiaccio. Accettare il mio appuntamento non sarebbe stato esattamente come se l’era immaginato.
 
 
<< Non mi offri da bere? Mi hai invitato tu. >>, pretese sfacciato, sfociando in una tosse grassa che faceva invidia a mio zio che soffriva di bronchite cronica. 
 
 
<< Per te latte caldo e miele, vedo che hai del catarro. >>, lo presi apertamente in giro, godendo del mio momento di rivalsa. In qualche modo dovevo pur fargli pagare i dieci anni di aspettative, lacrime e sogni ad occhi aperti, che mi avevano distorto la visione della realtà.
 
 
<< Una Red Bull andrà più che bene. >>. Ora starnutì e tirò su con il naso, poco aggraziato.
 
 
<< Un brodino di pollo e poi a letto, su, hai la salute cagionevole. Non vorrei che un colpo di freddo ti portasse via con sé. A Dicembre hai l’Helldone, ci vuoi arrivare? >>. Doveva essere alquanto strano che, due perfetti sconosciuti, si parlassero come si conoscessero da una vita. Almeno all’inizio fu così. Non ero intimorita dalla sua presenza, anzi, lo stavo trattando come uno scocciatore da sopprimere in fretta.
 
 
Scoppiò in un’intrigante risata contagiosa, da lambretta scassata. Prese il libro sul tavolo e lo sfogliò, fermandosi di tanto in tanto a leggere le parole riportate in italiano.
<< Lasciale perdere le guide, ti faccio io da cicerone. Per quanto tempo ti fermerai? >>.
 
 
Inarcai le sopracciglia e, naturalmente, non lo presi sul serio.
La star Ville Valo che vuole fare da cicerone ad una ragazza di cui non sapeva nulla? Maddai! Non ci credevo manco io.  
<< Non sai neanche come mi chiamo e vuoi farmi da cicerone? >>.
 
 
<< Mi sottovaluti: l’ho letta la lettera, cara Elisa. Penso sia stata proprio la tua lettera a convincermi, hai scritto cose che mi sono piaciute. >>.
Mesi fa, una mia amica, mi aveva detto che, secondo lei, sotto certi aspetti, assomigliavo a Ville, forse erano stati proprio questi “aspetti” che erano fuoriusciti nella lettera a persuaderlo. Restava il fatto che sarei potuta essere una serial killer, che mirava ad ucciderlo e lui si stava fidando.  
 
 
<< Sette giorni. Convincimi che saresti un buon cicerone. >>. Non avevo bisogno di essere convinta, essendo nativo del luogo, conosceva bene la città dei mille laghi.
 
 
Gli occhi scivolarono sul frappuccino e il dolce quasi divorato del tutto. Rovistò nella tasca dei jeans, inarcando il bacino in avanti e dopo essersi dimenato come un povero disperato, tirò fuori un pacchetto sformato di Marlboro Rosse e uno zippo argentato.
<< Un buon cicerone ti consiglierebbe una buona colazione, non questa porcheria. Sei venuta ad Helsinki per quella sciacquatura di zucchero e la palla calorica? >>. Bloccò una sigaretta all’angolo della bocca pallida, l’accese, richiudendo l’accendino con un colpo secco.
 
 
<< Da quanto sei divenuto un dietologo salutista? >>.
 
 
<< Salutista? Io? >>. Rise, marcando la risata ironica. << Non sai che i finlandesi sono tra i più grandi bevitori di caffè? >>. Espirò il fumo dritto sulla mia faccia, rischiando di farmi sputare un polmone per la mancanza di ossigeno pulito.
 
 
<< Ed io che credevo che i finlandesi fossero tra i più grandi bevitore di birra. >>.
 
 
<< Sì, anche. >>, concesse sorridendo apertamente.
 
 
Mi protesi sul tavolo, il pollice e l’indice afferrarono la sigaretta e la gettarono il più lontano possibile da me. Il fumo mi aveva arrossato la sclera.  
<< I bravi ciceroni non fumano. Non in mia presenza. Quindi cosa consiglieresti per una buona colazione? >>.
 
 
Ville guardò la sigaretta rotolare a terra, con un’espressione di puro rimpianto. Chi gliel’aveva fatto fare di accettare l’invito?
<< Un buon caffè accompagnato da una pulla. >>, disse, rivolgendosi più alla sua compianta sigaretta che a me.
 
 
Sbarrai le palpebre, vicina dallo scoppiare a ridere a crepapelle.
<< Da una cosa? >>. In dialetto siciliano la parola “pulla”, era un’offesa abbastanza pesante da affibbiare ad una donna. Mia madre essendo del luogo, lo sapeva bene.  
 
 
<< Una pulla: è una pagnottina di cardamomo. Te la consiglio. Dopo una sbronza è il massimo. >>. Schiacciò l’occhio con fare intraprendente.
 
 
Sospirai rassegnata, ben presto trovarsi seduta in un bar con Ville Valo fu la cosa più normale di questo mondo, forse perché avevo smesso di amarlo da morire e di vederlo come un Dio sceso in terra, in fondo era un mortale come tutti gli altri.
<< Il caffè migliore? >>.
 
 
<< D’inverno, uno dei posto migliori è il Café Ursula, di fronte al mare, vicino a Kaivopuisto. Nei mesi freddi, quando le giornate si accorciano, in questo locale si può godere il massimo della luce, oltre al magnifico panorama. >>. Doveva averci trascorso molto tempo o forse gliel’avevano consigliato.
 
 
<< Siamo in estate. >>, gli feci notare saccente.
 
 
Scrollò le spalle, come se quello che avesse detto non cambiasse.
<< Idem per l’estate. >>.
 
 
<< Il cicerone cosa consiglia di guardare in tv, dopo che mi sarò girata mezza Helsinki e tornerò in albergo stanca morta? >>.
 
 
Ci pensò su qualche secondo.
<< Potresti provare a guardare qualche film dei fratelli Kaurismäki. Aki Kaurismäki, per esempio, ha girato “L’uomo senza passato” del 2002, che ha vinto un premio al festival di Cannes. Ne ho una copia a casa, se ti interessa. >>. Faceva sul serio, sarebbe andato veramente nella sua abitazione a prendere il film e prestarmelo.  
 
 
<< Di cosa parla? >>, chiesi realmente interessata. Adoravo le persone acculturate e Ville Valo era la persona acculturata per eccellenza.
 
 
<< Un po’ sopra le righe, lo ammetto, è una specie di caricatura della società finlandese, ma è proprio attraverso questo specchio deformante che il regista trasmette l’immagine della timidezza e della riservatezza che caratterizzano la popolazione finlandese. >>.
 
 
<< Come mai hai scelto proprio questo film? >>. Tirai da un lato la chioma fluente e tormentai alcune ciocche di capelli ribelli. Bevvi il frappuccino, attenta a non sporcarmi eccessivamente la bocca. 
 
 
<< Non so. Hai l’aria di una ragazza che ha bisogno di essere sorpresa e sbalordita da chiunque abbia davanti o qualsiasi cosa faccia, non sembri una che si accontenta. >>, spiegò semplicemente, giungendo alla verità in pochi minuti di chiacchierata. C’era gente che non riusciva a capirmi, benché mi conoscesse da una vita e lui mi aveva squadrata subito.
 
 
Intrecciai le dita sotto il mento e lo scrutai proprio come facevo quando guardavo un suo video musicale o un poster plastificato sulla parete: da baccalà fritto.  
<< E del cibo, invece, che mi dici? >>. Usavo un tono di sfida e non mi rendevo conto di come le mie domande erano mirate per metterlo in difficoltà, in un argomento che, era, certamente, ferrato. L’ignorante di turno ero io.
 
 
<< In questa stagione nella Kauppatori vengono allestite delle tende dove viene offerto un ricco assortimento di pesce, patate e cose del genere. Tutto molto tipico. Ti consiglio un ristorante moderno, lo Juuri, che propone invece tapas finlandesi: le “sapas”. >>.
 
 
Grattai la testa e i ruoli si invertirono, ora era lui che mi metteva in difficoltà.
<< Sai che non ho la più pallida idea di cosa tu stia blaterando? >>.
 
 
<< Ovvio. >>, accertò compiaciuto, setacciando nelle tasche interne della giacchetta elegante, sperando di trovare altre sigarette. << Ti piace il pesce? >>.
 
 
<< No. >>.
 
 
<< Immaginavo. C’è qualcosa che ti piace? >>.
 
 
<< Uhm, no. >>.
 
 
<< Morirai di fame per sette giorni. >>.
 
 
<< Oh sopravvivrò, fosse in te mi preoccuperei per la tua salute, hai l’aria di uno che non mangia da tre giorni. >>.
 
 
<< Quasi due, diciamo. >>.
 
 
Spinsi il piattino del cupcake addentato. Mi angustiavo e al contempo mi chiedevo del perché dovessi affliggermi per qualcuno di cui non me ne fregava un fico secco. La vita era la sua, poteva non mangiare, sfondarsi di sigarette e annegare nell’alcool quanto desiderava, a me non cambiava nulla.
 
 
<< È in regalo al cicerone, non ti fa schifo, vero? >>. Cacciai la lingua con fare scherzoso. << A meno che, non bisogna dare del cibo ale scimmie. >>.
 
 
<< È la mancia? >>.
 
 
Annuii, ridacchiando.
Rilassai le spalle allo schienale e non badai alle occhiate delle persone presenti nel bar. Non doveva essere normale vedere l’eremita Ville Valo seduto in un tavolo, accompagnato da una ragazza. Evento più unico che raro.
 
 
<< Una volta si pagava in natura. >>. Pareva avvinto dall’idea.
 
 
<< Appena passo dal fruttivendolo, ti compro frutta e verdura e ti ripago con la natura, contento? >>. Gliel’avrei lanciata addosso la frutta e la verdura, se il discorso continuava su allusioni sessuali.
 
 
<< O rimborsato… in questo caso. >>.
 
 
<< Dura la vita dei ciceroni, eh? >>.
 
 
<< Durissima. >>.
 
 
<< Secondo me facevi bene a restare un cantante, il cicerone non fa proprio per te. >>. Entrambe ci trattenevamo a stenti dal ridere come due pazzi fuggiti da un manicomio.
 
 
<< Un’ultima possibilità dai. Se non mi assumi neanche stavolta, torno a fare il cantante. >>.
 
 
Più che ad Helsinki, ero interessata a lui, a ciò che pensava, volevo conoscerlo meglio ora che ne avevo l’occasione. Non avrei avuto altre possibilità in futuro. Poteva finire tra cinque minuti, oggi stesso o tra sette giorni, non sarebbe durata: ne ero consapevole.
Nella realtà quelle come me non stavano con i cantanti famosi, al massimo potevano aspirare a qualche ora di sesso e nulla più. Io non volevo il sesso, volevo il “più”, che non mi era concesso, per questo coglievo l’attimo e lasciavo che il destino conducesse la partita per me. Non ero illusa che potesse andare bene, io per prima non volevo che andasse bene, poiché alla fine della settimana avrei dovuto prendere un aereo per tornare a casa, mentre Ville era già a casa sua.
Ma se non l’amavo più, non sentivo niente, allora perché desideravo l’impossibile?
 
 
<< L’edificio che preferisci? >>, domandai, per poi aggiungere: << e che mi consiglieresti di visitare? >>. Non volevo espormi, fargli capire che volevo farmi gli affari suoi, per questo decisi di velare il quesito.
 
 
Respirò piano, aprì e richiuse lo zippo varie volte, non se ne rendeva conto.
<< Temppeliaukion Kirkko, una chiesa a pianta circolare che sorge in cima ad una collina. È uno splendido edificio e sono davvero stupito che le autorità ecclesiastiche ne abbiano autorizzato la costruzione, dal momento che, la forma circolare, richiama le religioni pagane, che ebbero un ruolo predominante in Finlandia prima dell’avvento della cristianità. >>.
 
 
Per me era già il cicerone perfetto non appena aveva aperto bocca. Con lui, la città, avrebbe avuto un sapore e una storia differente. Da sola mi sarei persa molte sfumature rilevanti che mi avrebbero raccontato per davvero la bellezza del posto.
 
 
<< Helsinki in una parola? >>.
 
 
Si bagnò sensuale la bocca secca e si morse il labbro inferiore: stava per sparare una cavolata delle sue.
<< Di primo acchito, direi “fresca”. >>.  
 
 
Schioccai la lingua al palato e mi accomodai meglio sulla sedia fastidiosa. Avevo incontrato Ville Valo in una delle sue giornate “sì”, data la spiccata voglia di scherzare, forse era alticcio.
L’orologio del cellulare segnava quasi le dieci e, considerando che dovevo spostarmi a piedi, dovevo iniziare a muovermi per prendere in orario il traghetto per Suomenlinna.
Mi alzai lentamente, per andare a pagare la colazione consumata.
 
 
<< Il provino è andato male? >>, domandò retorico, scrutava le mie mosse, come se da esse potesse carpire i più oscuri segreti.  
 
 
Scossi la testa, presi la borsa e mi apprestai a contare i soldi spicci.
<< C’è di peggio. >>, decretai criptica. << Il posto è vagante, se ti interessa. Vado a prendere un traghetto. >>. Lo stavo invitando per davvero?
 
 
<< Suomenlinna? >>.
 
 
<< Suomenlinna. >>, replicai, per tutta risposta.
 
 
<< Ma sì dai. >>. Scattò dalla sedia e recuperò le buste della spesa. << È da un po’ che non ci vado. Torno a casa a posare queste, dove ci incontriamo? >>.
 
 
Scrollai le spalle.
<< Sei tu che abiti qui, dimmi dove? >>.
 
 
<< Alla Piazza del Mercato, tra dieci minuti. Credi di arrivarci o finirai sul telegiornale della sera? >>. Se l’aveva intuito perfino lui che mi serviva una bussola, allora dovevo essere seriamente un caso disperato.
 
 
Mi fermai sul posto e lo fissai in cagnesco, falsamente offesa.
<< Qui l’unica che fa le battute pedanti sono io, secco! >>.
 
 
<< Se continuiamo così, sul telegiornale della sera ci finisco io. >>, dichiarò, scrollando la testa per aver incontrato una ragazza che riusciva a tenergli temerariamente testa, senza alcuno sforzo.
 
 
Ci allontanammo dall’Aussie Bar, insieme per un paio di metri, nell’improbabile estate scandinava, che mi fece rabbrividire un paio di volte.
 
 
<< Almeno io non sono come quelle quattro galline delle tue fans che si fanno venire ventotto orgasmi appena respiri. >>.
 
 
<< Quindi l’heartagram tatuato nell’incavo del tuo polso, non sta ad indicare che sei una fan, giusto? >>, punzecchiò. L’avevo giudicato superficialmente, era molto più attento ai particolari di quanto lo fossi io solitamente.
 
 
Inutili i tentativi di nascondere quel maledetto tatuaggio.  
<< Ero drogata, quando l’ho fatto. >>, mentii spudoratamente. << Ho anche richiesto i danni al tatuatore, che poi vorrei sapere il genio che ha inventato una cosa tanto stupida. >>. Sarebbe potuto essere un giocondo passatempo, offendere Ville Valo tutto il giorno. A lui non dispiaceva e a me piaceva da morire farlo.
 
 
<< Doveva essere qualcuno che non aveva un cazzo da fare. >>.
 
 
<< Uhm sì, lo penso anche io. Qualche giovincello, sbarbatello, capellone che pensava che l’amore fosse chissà quale miracolo e invece… >>.
 
 
<< … era una gran cagata. >>, concluse lui, togliendomi letteralmente le parole di bocca. Accanto mi camminava un Ville disilluso, stanco della vita, annoiato dai sentimenti e solo… come me. Riconoscermi in lui, faceva male oggi, come un tempo.  
 
 
<< Ci credi davvero in quelle cose che scrivi? >>.
 
 
Si voltò ad osservarmi, affascinato.
<< E tu? La non fan sei tu. >>.
 
 
Battei le palpebre, distolsi gli occhi dai suoi e una singolare sensazione, come una scintilla che provava a fare luce nell’oscurità, fu l’irritante reazione per lo sguardo intimo che ci eravamo scambiati.
<< Ci ho creduto, fino ad un certo punto. La vita è  in grado di darti sogni e speranze, di farti pregustare le porte del paradiso, e allo stesso modo è in grado di radere tutto al suolo, i progressi, le conquiste e di scaraventarti all’inferno. Non ho più la forza per uscirne, in fondo l’inferno non è poi un brutto posto in cui vivere. >>.
 
 
<< Parli come se avessi cent’anni. >>.
 
 
<< Anche tu. >>, gli feci notare pignola. << Invece tu hai solo trentotto anni ed io ventiquattro. >>.
 
 
<< Sembravi più giovane. >>, appurò meravigliato.
 
 
<< Sei il primo che lo dice, a diciotto anni già me ne davano dieci in più: sarà l’aria finnica a ringiovanirmi. >>. Spostai la chioma, come se mi stessi pavoneggiando per il complimento.
 
 
<< Da dove vieni di preciso? >>. Svoltammo all’angolo, così presa dalla conversazione, le iridi di giada, il sorriso sghembo e la voce musicale, che dimenticai il fatto che dovevamo separarci per ricontrarci alla piazza e mi lasciai guidare da lui.
 
 
<< Italia. Da un paesino dimenticato da Dio… anche se, se devo essere sincera, Dio s’è dimenticato pure di me. >>.
 
 
<< Credente? >>. Aggiustò meglio le buste della spesa, gli stavano lasciando visibili solchi tra le dita arrossate.
 
 
<< Mi piacerebbe, anche se sarebbe un autoinganno ipocrita. Per ora credo solo in me stessa e non mi sono mai delusa, non corro il pericolo. Sono il Dio di me stessa. >>.
 
 
<< Tipo il satanismo laveyano o l’egocentrismo freudiano. Però non sembri la tipica donna egocentrica descritta da Freud, che non riesce a cogliere la differenza tra il proprio punto di vista e quello degli altri. D’altronde non hai neppure l’aria di una satanista. >>. Squadrò il sobrio abbigliamento di quella mattina, il bolero grigio, la maglietta color cielo su dei jeans e stivaletti neri e comodi. Ero la tipica ragazza che si mescolava tra la folla, passava inosservata e si memitizzava. Non c’era niente in me che poteva essere ricordato o che spiccava. << Hai un modo di fare simile, come se prendessi il meglio delle due correnti di pensiero e le facessi tue. Ti sei fatta influenzare dalle idee di Nietzsche, Aleister Crowley, Macchiavelli, Ayn Rand, Jack London, e dalle biografie di personaggi famosi, come Basil Zaharoff, Cagliostro e Rasputin? >>.
 
 
Non avevo la più pallida idea di chi o cosa stesse parlando. Tra i nomi conoscevo solo meno della metà, gli altri non li avevo mai sentiti, neanche a scuola. 
<< Da quando ti sei trasformato da cicerone a psicologo? >>.
 
 
<< No so: mi ispiri. >>, confessò naturalmente.
 
 
<< Da quando gli estranei ti ispirano? >>. Da in fondo la strada, la famosa torre, casa Valo, sbucava da dietro un’ampia casa dai mattoni amaranti. Le abitazioni del quartiere avevano un design simile, raffinato e costoso. << E lasci che gli estranei ti accompagnano fino a casa? >>.
 
 
 
Sorpreso si guardò attorno, come se non si fosse reso conto della strada percorsa e di dove eravamo.
<< Non è detto che ti faccia entrare. >>, chiarificò pedante.
 
 
Dire che c’ero rimasta di merda, era un sottile eufemismo.
Ma che ci speravo pure? Matta!  
<< Non è detto che io voglia entrare, in realtà potresti essere un pazzo psicopatico che adesca le turiste, le porta a casa sua e poi le fa a pezzi. Resto in strada, che è meglio. >>, ribadii pronta. Doveva ancora nascere chi mi zittiva. << Anche se, al massimo, dato la prestanza fisica, l’unica cosa che potresti farmi è spezzarmi un’unghia. >>.
 
 
<< Mi sottovaluti, ragazzina. Potrei farti molto male. >>, ma non stava più parlando di forza a livello corporeo, intendeva dolore dell’anima. Dubitavo che riuscisse a farmi più male di come me ne aveva fatto in passato. Ero ancora indifferente, ma mi sarebbe piaciuto vederlo provare.
 
 
<< Non ti stanchi a recitare questa pantomima, Ville? Né tu e né io abbiamo più la voglia, le energie e il tempo per perderci dietro a questi giochetti infantili. E poi non siamo sopra ad un palcoscenico, non devi ammaliare nessuno, siamo in strada, nella vita reale e non devi impressionarmi. >>.
 
 
Si fermò sul posto, socchiuse gli occhi in due piccole fessure e la bocca restò socchiusa, come se avesse delle amare parole inespresse incastrate in gola.
<< Chi ti ha ridotto così? >>.
 
 
Inspirai profondamente, vedeva più di quanto dessi modo agli altri di percepire. Lì dove le persone si offendevano per il mio atteggiamento scontroso, Ville scorgeva al di là della rabbia, dritto al nucleo pulsante del supplizio. 
<< Tutti e nessuno, la vita e la morte, l’amore e la sofferenza, tu, io, il passato, il futuro. Ognuno di loro ha avuto una parte rilevante per ridurmi così. >>.
 
 
<< Hai solo ventiquattro anni. >>, ribadì, come se gli dispiacesse sul serio.
 
 
<< Lo dici come se le persone di ventiquattro anni non hanno dispiaceri, invece ne ho avuti parecchi. Altrimenti non sarei ridotta così, no? >>. Poi sbuffai, non amavo avere i riflettori puntati addossi, volevo sottrarmi dall’argomento delicato, ero ad Helsinki in vacanza, non per rimembrare quanto schifo facesse la mia vita. << Dai, porta queste benedette buste in casa: ti aspetto qui. >>.
 
 
Parve confuso, diviso tra la ragione e l’istinto, come se, mollarmi in strada fosse maleducato e al contempo non volesse che una sconosciuta invadesse la sua privacy.
 
 
<< Se non ti sbrighi, perderemo il traghetto delle undici per Suomenlinna, c’è la guida in inglese. Altrimenti ti toccherà fare da traduttore per tutta la mattinata. >>, la buttai sul ridere, ma fu una vena ironica vuota. Incrociai le braccia, per troncare la chiacchierata e mi appoggiai al muro, adiacente al numero civico sette e fissai l’albero nella recinzione al di là della strada.
Ci impiegò relativamente poco, giusto il tempo di salire le scale che portavano alla torre, sistemare la spesa, magari collocare i surgelati nel congelatore ed i prodotti freschi in frigorifero, che fu di nuovo in strada.
 
 
Si grattò la testa impacciato, pareva si vergognasse di qualcosa.
<< Scusa se ci ho messo troppo, ma sto cambiando casa ed è tutto un casino. >>. Mi superò assorto e lo zainetto nero sulla schiena, lo faceva somigliare ad un allegro scolaretto -allampanato ed emaciato- al primo giorno di scuola.
 
 
Boccheggiai incredula, faticando a tenere il passo spedito.
<< Raperonzolo cambia casa? >>, sbottai scettica. Per me, Ville e la torre, erano un tutt’uno, un po’ come un principe tenebroso che viveva in un’ambientazione gotica degna della sua reputazione. Saperlo in un posto diverso, mi creava non pochi problemi e non concepivo il perché.
In fondo a me non fregava niente di lui, fra sette giorni me ne sarei tornata in Italia e lui si sarebbe dimenticato della ragazza che gli aveva lasciato una lettera e a cui aveva fatto da cicerone… cosa più assurda, che altro.
 
 
Mi considerò di sbieco, i pollici nelle stringhe dello zaino.
<< Rape, cosa? >>.
 
 
<< Raperonzolo. >>, ripetei, troppo sconvolta per notare il suo shock per il nomignolo affibbiatogli. << Non ti piace? Ne ho degli altri: la lista è lunga. >>.
 
 
<< Per quanto la cosa mi incuriosisca, vorrei sapere gli altri e poi mi spieghi questo. >>.
 
 
<< Eremita da strapazzo. La tua misantropica asocialità è leggenda, lo sapevi? >>.
 
 
<< Vivo con me stesso da trentotto anni, credo di averlo capito ad un certo punto. E tu invece? >>.
 
 
Ricambiai l’occhiata, pentendomene immediatamente. Le iridi verdi risplendevano nei raggi del sole e il cielo ceruleo si rifletteva in essi, divenendone un tutt’uno. C’era un mondo in esse, ed era difficile non perdersi nel labirinto oscuro dell’anima.
<< Io cosa? >>.
 
 
<< Che mi dici della tua di misantropica asocialità. >>.
 
 
<< Chi ti dice che ho i tuoi stessi difetti? >>.
 
 
Tirò la bocca da una parte, in una replica di un dolce sorriso retorico.  
<< Un misantropico asociale, riconosce immediatamente un altro misantropico asociale. Non è detto che sia un difetto non sopportare le persone. >>.
 
 
<< Io non sopporto il mondo intero, i pianeti adiacenti, le galassie limitrofe e le realtà parallele, mica solo le persone! >>, confermai la sua ipotesi. << Ma poi perché finiamo sempre a parlare di me? Sei tu la star, mica io. >>.
 
 
Scrollò le spalle, seguendo una meta ben precisa. Se non avessimo fatto altre escursioni non previste, saremmo arrivati al traghetto in tempo.
 
 
<< Che gusto c’è a parlare di qualcuno di cui sai già tutto? Io di te non so niente, Elisa. >>.
 
 
<< E non è meglio? In fondo non ti perdi niente di eclatante. Sai come mi chiamo, quanti anni ho e da dove vengo, non è abbastanza? >>.
 
 
<< Non basta questo per conoscere una persona. >>, fece notare franco, nemmeno volesse sul serio approfondire quel rapporto sconclusionato, nato da neppure un’ora e che non aveva alcun futuro.
 
 
<< Fra una settimana vado via, che vuoi conoscere? Limitati a fare da cicerone, Ville. >>. Mettere le distanze da un cuore devastato dal passato ed uno sfigurato dall’amore, era l’unica via da percorrere, poiché, a volte, da due sbagliati come noi, solitari e mal ridotti, poteva balenare la malsana idea di farsi compagnia nell’oceano di amarezza.
Ci avevo impiegato due anni per distaccarmi totalmente dall’amore platonico per lui, la realtà mi aveva svegliata dal sogno che mi ero creata, con un schiaffo in pieno viso ed aveva lasciato un segno indelebile. Non avrei commesso l’identico errore.
 
 
<< Sei così prevenuta. Ci conosciamo, forse, e sei risentita perché non ti ho riconosciuta? >>. Pareva spaesato dal mio comportamento, prima amichevole, poi freddo e distante. << Oppure sei impegnata e trovi sconveniente farti vedere in compagnia di un altro? >>, suppose mesto, l’espressione malinconica fece velocemente presa sull’anima e in Ville riconobbi lo spirito affine che avevo individuato in questi anni nelle sue canzoni.
Il principale motivo per cui mi ero innamorata di lui era stato per il suo dolore, perché conosceva la sofferenza vera, la saggiava giornalmente e ne aveva fatto una compagna fedele.
L’avevo fatto anche io, almeno fino a quando il dispiacere non mi aveva sopraffatta ed annientata. Ville era, paradossalmente, legato alla me prima della sconfitta e la me di adesso, per risalire in superfice, aveva dovuto scrollarsi via ogni motivo di tristezza e lui era uno di questi.
 
 
Scoppiai a ridere, per eclissare l’attimo di smarrimento.
<< E tu credi che a me possa fregare qualcosa di cosa sia sconveniente o cosa no? E poi non ci conosciamo Ville, quindi non porti il problema, sono io che sono acida di natura. >>.
 
 
<< Però non hai risposto. >>, disse, un sopracciglio malizioso alzato e l’espressione da schiaffi. << Sei impegnata? >>.
 
 
<< Sei serio, secco? >>. Se aveva voglia di prendermi in giro, avrebbe ricevuto un dolorosissimo calcio lì dove non batteva il sole. 
 
 
Curvò la lingua sui denti, sogghignando disonesto.
<< Credo che potrei trascorrere l’intera giornata ad ascoltare i simpatici appellativi che hai inventato. Ti sembra così strano, che possa interessarmi? >>.
 
 
Gli diedi una leggera gomitata tra le costole e presi la vicenda sottogamba.
<< Andiamo, Ville, non fare il fricchettone strapazza ovaie, che con me non attacca. So bene quale sono i miei limiti, perché illudersi? >>.
 
 
<< I tuoi limiti te li sei autompoisti, altrimenti l’essere umano in sé non ha limiti. L’hai detto tu stessa: sei il tuo Dio. Ed essendo un Dio non c’è niente che non puoi fare. >>.
 
 
Senza neppure accorgermene giungemmo al molo d’attracco dei traghetti per Suomenlinna giusto in tempo, poiché il traghetto era in partenza. Il tempo passava relativamente in fretta e ciò mi sorprese.  
<< Conserva i discorsi teologici per la favola della buonanotte, Ville, siamo arrivati. >>.
 
 
Suomenlinna era ad appena quindici minuti di traghetto dalla Kauppatori, situata su un gruppo compatto di quattro isole, collegate da ponti. Dal molo d’attracco dei traghetti, un sentiero pedonale contrassegnato d’azzurro, collegava i principali luoghi di interesse.
Per l’intera traversata, la visita al Suomenlinna-museo e la proiezione di un documentario della durata di trenta minuti, io e Ville non avevamo fatto altro che parlare, scherzare, ridere e commentare qualsiasi cosa, come due adolescenti in gita scolastica. All’esterno apparivamo come una coppia che si conosceva da una vita, invece che da poche ore.
La parte più suggestiva di Suomenlinna era quella in fondo al sentiero azzurro, all’estremità meridionale di Susisaari. Aggirarsi tra i vecchi bunker, le mura fatiscenti e i cannoni, permetteva di farsi un’idea dell’aspetto che la fortezza aveva in passato; vi erano molti spiazzi erbosi adatti ad un picnic.
 
 
<< Questo posto è fantastico! >>, esclamai, la bocca paralizzata in un sorriso a trentadue denti, gli occhi lucidi e soddisfatta per aver fatto quel viaggio, sognato da quando avevo quattordici anni. Non erano stati soldi buttati al vento, mi trovavo bene qui e se fosse stato per me, ci sarei rimasta per sempre. << Helsinki è davvero magica. >>.
 
 
Ville si infilò le mani nei jeans, alla ricerca delle sigarette, che aveva terminato, l’ultima era quella che gli avevo gettato io. La mimica non era tra le più felici.
<< Helsinki è un po’ come la sorella minore tra le capitali scandinavi. Che ha frequentato l’istituto d’arte, disprezza la musica pop, lavora in un modernissimo studio di design e frequenta persone piene di piercing, che amano vestire di nero. >>. Mentre parlava si guardava attorno, alla ricerca di un’ancora di salvataggio che vendeva sigarette.
 
 
Portai i pugni chiusi sui fianchi, esterrefatta.  
<< Ho fatto bene ad assumerti come cicerone. >>.
 
 
Un gorgoglio improvviso si levò dallo stomaco di Ville, si poggiò una mano sulla pancia e sorrise colpevole.
 
 
Finsi di osservare il cielo preoccupata.
<< Eppure il meteo stamattina diceva che non ci sarebbero stati temporali… senti che tuoni! >>. Abbassai il viso su di lui. << Stai stabilendo un record personale di digiuno forzato, oppure posso offrirti il pranzo? Niente Red Bull, birra o schifezze varie. Il latte e miele è sempre opzionabile, per il catarro. >>. Non feci in tempo a terminare la frase, che la tosse grassa si fece sentire nuovamente.
 
 
<< Vicino al molo principale c’è un supermercato, potremmo prendere qualcosa lì, continuare il giro e pranzare nel pomeriggio. >>.
 
 
Ci ritrovammo poco più tardi, seduti su uno spiazzo erboso a mangiare pizza rossa, bere Coca Cola e a goderci un po’ di riposo, sotto il sole fresco ed accogliente scandinavo.
 
 
Appallottolò la carta della pizza tra le mani, tolse lo zaino e si coricò sulla distesa verde, usando lo zaino come cuscino improvvisato.
<< Non trascorrevo una così bella giornata da… da non ricordo nemmeno io quando. >>. Gli occhi si spostarono nei miei. << Devo ringraziarti per questo. >>. Era sincero e la sua sincerità mi colpii. Mi ero approcciata a lui prevenuta, come se fosse un uomo pericoloso, in grado di ferirti e che recitava costantemente un ruolo… mi sbagliavo.
 
 
<< Non ho fatto niente. >>. Incrociai le gambe, curvai la schiena e centellinai la lattina di Coca Cola.
 
 
Il pallido sorriso distese la bocca, abbassò le palpebre, si portò le braccia dietro la testa ed assaporò l’estate. Era bellissimo, nella sua umanità, non importava chi fosse, chi avesse rappresentato per me, che non lo amassi più, che gli portavo astio… era bellissimo, era innegabile.
E, non sapevo come o perché, riuscì a donarmi un briciolo di pace che avevo smarrito per sempre, fu come se fosse riuscito ad alleggerire il peso sull’anima, come se potessi respirare meglio, come se fosse divenuto d’improvviso facile vivere… vivere, non sopravvivere.
 
 
<< Perché proprio Helsinki? >>, chiese ad un certo punto, riaprendo quegli occhi che sembrarono due fari in una notte senza luna.
 
 
<< Per Babbo Natale, sai, sono venuta a protestargli il fatto che non si sia mai presentato a Natale a portarmi i regali che gli chiedevo. E di lettere gliene ho scritte a vagonate. >>. Torturai le dita tra di loro e dopo la battuta iniziale, decisi di abbassare le difese insormontabili e di mostrare un frammento della vera me. << Era una promessa che ho fatto a me stessa tempo fa. Aspetto di venire qua da quando avevo quattordici anni, ed una volta che ce n’è stata l’occasione, ho preso il primo aereo, ed eccomi qua. >>.
 
 
<< Perché ieri sera eri davanti casa mia? >>.
 
 
Umettai la bocca, mordendo il labbro inferiore.
<< Ma i finlandesi non erano rinomati per essere un popolo riservato che si fa gli affari suoi? >>.
 
 
<< Deve essere una predisposizione genetica il fatto che non fai altro che rispondere alle domande con altre domande e a non cedere. Che vuoi dimostrare? >>.
 
 
Sospirai afflitta e gli concessi un margine di armistizio.
<< Suonerà patetico e melenso. >>, anticipai come se mi stessi giustificando, insicura se dire la verità o se inventare una balla. Non si doveva arrivare a questo, non doveva vedere la parte più fragile e debole di me, non doveva soggiogarmi ancora.
 
 
Diede una pacca gentile e di incoraggiamento sul mio ginocchio.
<< Non potrà mai essere più patetico e melenso di qualcuno che dichiara i propri sentimenti al telefono, ad una che si stava scopando un altro nello stesso momento. >>.
 
 
Mi distolse dalla confessione.
<< Serio? >>.
 
 
<< Serissimo. Ecco cosa accade a chi è un coglione romantico, alla fine resti solo un coglione e basta. >>.
 
 
<< Non è colpa tua se le donne sono tutte troie. >>.
 
 
<< Stai generalizzando, c’è ancora qualcuna che si salva. >>. Ebbi la netta sensazione che si riferisse a me, ma anche io avevo i miei difetti e non ero perfetta. << È come se dicessi che tutti gli uomini sono stronzi. Non si può fare di tutta l’erba un fascio. >>.  
 
 
<< Ma le donne sono tutte troie e gli uomini tutti stronzi, non raccontiamoci balle, Ville. Nel mondo ci sono solo questi esemplari di esseri umani, se studiassi in psicologia il comportamento umano, mi daresti ragione. >>.
 
 
<< Ma hai ragione, però ti ricordo che tu sei una donna, Elisa. >>, fece notare divertito.
 
 
<< No in realtà sono un alieno, che è venuto sulla terra per prendersi una meritata vacanza. >>, interruppi la frase.  
 
 
Sorrise apertamente, si stropicciò il naso e con un guizzo veloce tornò in posizione seduta a pochi centimetri da me. Una zaffata di dopobarba e tabacco mi si abbatté addosso e fu in grado di farmi girare la testa, girava tutto, perfino la città stessa. Ritrovarselo così vicino, fu talmente inaspettato e repentino, che indietreggiai con la schiena e a lui non passò inosservato. Il cuore tremò o forse fu la terra sotto di me ad essere colpita da un terremoto terribile, stava giocando con il fuoco, ma quella che si sarebbe bruciata sarei stata solo che io.
Venire ad Helsinki, per ritrovare le emozioni perse, non si stava dimostrando una buona idea. Le emozioni c’erano, così come ci sarebbero state le lacrime.
 
 
<< Ed io sono un uomo. >>, terminò ciò che stava dicendo, ma ci mise troppa enfasi, quasi lussuria e sensualità, forse lo divertiva andare alla ricerca di punti deboli, per colpire inesorabile. Era nell’indole dell’essere umano andare a caccia della preda più appetibile e non arrendersi fino a quando non si era conquistata.
Il problema stava nel fatto che non mi consideravo una preda appetibile e non volevo neppure esserlo: non mi interessava. Se non mi piacevo io, perché dovevo piacere a qualcun altro, soprattutto ad uno come Ville Valo?
 
 
<< Me ne sono accorta. >>, borbottai a fatica e non riuscii a nascondere l’imbarazzo che mi procurava ad essere separata dalla spazio di un respiro. L’occhiata profonda che ricevetti, mi fece capire che stavamo pensando alla stessa identica cosa.
 
 
<< Mi stai dando dello stronzo? >>, incalzò, ridacchiando. Aveva il coltello dalla parte del manico e, forse, ce l’aveva avuto fin dall’inizio. Darmi l’illusione del comando, faceva parte del gioco.  
 
 
<< Se è per questo mi sono data della troia. >>. Mi ero infilata in un labirinto senza uscita per comportarmi come l’arrogante, strafottente e pignola di turno.
 
 
<< Io, stronzo, lo sono. >>, dichiarò senza problemi. << Ma tu non hai l’aria di una troia. >>.
 
 
<< Ti basi molto sull’apparenza. >>. Perché mi stavo affossando in questo modo pietoso?
 
 
<< Non mi dai altri modi per conoscerti. Se dovessi giudicarti solo dalla lettera che mi hai scritto, beh… direi che sei la donna della mia vita. >>, disse di getto e rischiò di farmi andare di traverso la saliva, di sputare un polmone e di liquefarmi sullo spiazzo d’erba.
 
 
<< E se dovessi giudicarmi da queste ore, che abbiamo trascorso insieme? >>.
 
 
<< Difficile. Ci vogliono anni per conoscere bene una persona, averci litigato, fatto l’amore, odiata, rimpianta, presa e lasciata. Ma se dovessi basarmi solo da queste ore, il concetto resterebbe lo stesso. >>.
 
 
Non volevo ricascarci, innamorarmi per la seconda volta, quando tra poco meno di sette giorni me ne sarei dovuta andare, quella che ci avrebbe sofferto sarei stata solo che io. Stemperare il frangente solenne, fu l’unico modo saggio per tirarmi via dagli impacci.
 
 
Portai la mano sotto il mento, buttandola sul comico.  
<< Secondo me hai bevuto, eppure mi sono raccomandata di evitare alcolic… >>, non ebbi il tempo di terminare la frase che, Ville, afferrò di getto la stoffa della maglietta, proprio sullo scollo sopra il seno e, con una naturalezza disarmante, come se lo avesse fatto altre mille volte, mi attirò a sé e mi baciò.
 
 
Nel secondo stesso che le sue labbra si premettero sulle mie, il dolore persistente si quietò, la ferita sull’anima si ricucì e il cuore rincollò i frammenti insanguinati. Poi accadde qualcosa di strano, fu come se fossi uscita dal mio corpo e vedessi la scena da occhi esterni.
Ville mi baciava, con una prestanza interminabile, vigore e desiderio, pareva non avesse atteso altro dal momento stesso in cui ci eravamo incontrati. Mi teneva avvinta, tramite la presa ferrea sulla maglietta e l’altra mano si incatenò tra i capelli castani. Ricambiavo a stenti, non perché non gradissi, ma perché mi aveva colta alla sprovvista e al mio cervello sarebbe occorsa un’eternità per convincersi che non era un errore, una fantasia realistica o che me lo stessi immaginando.
Lo vedevo baciarmi, la lingua danzare con la mia, la saliva mischiarsi, le labbra disegnarsi a vicenda, soffermarsi, gustare il mio sapore e gli schiocchi del bacio riempirmi le orecchie. Parve trascorso un secolo, quando si arrestò, mulinando nei pressi della mia bocca gonfia e sensibile, non convinto a fermarsi e pronto a ricominciare.
 
 
Ce l’aveva fatta, le sentivo le emozioni, una dopo l’altra, confluire come una potente cascata che rompeva gli argini che l’avevano trattenuta. Le potevo avvertire tutte, dalla più bella e luminosa a quella più tetra ed orrenda e tra quelle, l’amore… l’amore per l’unico uomo sulla faccia della terra che avevo amato prima, durante e che avrei amato finché avevo respiro.  
 
 
<< Tu parli troppo. >>, mormorò malizioso. << A me piacciono di più i fatti che le parole. >>.
 
 
Stordita ed intossicata, ebbi l’ardire di riprovare a baciarlo, non persuasa che fosse accaduto sul serio, ma lui si allontanò, deliziato che mostrassi interesse finalmente, invitandomi ad avvicinarmi io stavolta. Lo feci per due volte, ala terza, fu di nuovo lui a baciarmi, poi io, poi lui, poi io, fino a quando persi il conto, persi la concezione del tempo e persi me stessa.
 
 
<< Dimostrami che avevo ragione. >>, disse lui, dopo un’eternità in cui non vi era stato alcun bisogno di comunicare a voce.
 
 
<< Su cosa? >>. A lui piaceva avere ragione.
 
 
<< Che potresti essere la donna della mia vita. >>. Bloccò il mento tra il pollice e l’indice e di tanto in tanto un bacio a stampo mi impediva di parlare, come se, quello che era appena accaduto, non fosse abbastanza per zittirmi.
 
 
<< Fra sette giorni dovrò andarmene. >>. La nota triste era palpabile, così come la voglia di gridare per la frustrazione.
 
 
<< Basati sul presente, il futuro deve ancora arrivare. >>. Balzò in piedi e mi tese una mano. << Andiamo, ti aspettano sette giorni per darmi ragione e non voglio perdermene nemmeno uno. >>.
 
 
Afferrai la sua mano, ma più di questo afferrai l’unica possibilità di essere felice e di trovare un posto nel mondo e nel cuore di Ville. Non ero certa che sarei riuscita a dargli ragione, a dimostrargli che potevo essere la donna della sua vita, non avevo pretese, potevo solo essere me stessa, ma se mi stava dando questa occasione, non me la sarei lasciata sfuggire per nulla al mondo.
 
 
Perché a volte, rincorrevamo tutta la vita un sogno e poi, quando il sogno sfumava e non ci si sperava più, il sogno stesso ti dimostrava che, avere tenacia e fiducia in se stessi, alla fine, ti ripagava sempre. 










Note: 
Eccomi qui dopo una lunga assenza con questa shot sul Secco. 
Parto con il dire che ho iniziato a scrivere senza una trama precisa, un po' buttata a casaccio, per questo il breve squarcio di vita non segue una vera e propria trama, è un po' campata per aria e molto sconclusionata. E pensare che ho iniziato a scrivere questa storia a giugno, l'ho abbandonata e l'ho terminata nel corso dell'ultima settimana. 

Beh che dire, per chi mi conosce sa che mi piace scrivere di Ville con fatti realmente accaduti, posti realmente esistenti e determinati fatti del mio passato che adatto per la scrittura. 

L'Aussie Bar esiste davvero, così come tutti i luoghi di Helsinki descritti e le cose dette su Suomenlinna.
Sigh, sigh! Il Secco cambia casa!!! 
Purtroppo ho internet lento ed ho poco tempo per mettere i link per ogni luogo citato nella shot. Le cose dette da Ville sono tutte farina del mio sacco, niente di inventato. 


Per chi continua a scrivermi in pvt, chiedendomi che fine abbiano fatto "Inferno e Luce", "Il Nulla che Dura per Sempre" e "Dove Sei?", Fanfiction della sezione HIM, sono state tolte dal sito poiché sono divenuti un ebook unico e lo potete trovare in vendita qui:
 Inferno & Luce


La storia può presentare errori ortografici.

Ringrazio già da adesso chi commenterà o chi leggerà solamente. 



Un abbraccio.
DarkYuna.  

         
  
                           
  
   
             
          
 
 

 
  
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