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Autore: aniasolary    18/11/2015    4 recensioni
A ventotto anni, Arthur Benkinson ha fatto molti errori che non si perdonerà mai. Si è innamorato, due volte: forse tre, non sa ben spiegare. E' stato un disastro. Il cassetto in cui ha conservato i suoi sogni è tutto impolverato, ricorda di averne buttato la chiave.
E' imprigionato da delle catene che si è fabbricato lui stesso.
Ma forse non è troppo tardi per lasciare la sua prigione.
Forse ha solo bisogno che qualcuno ascolti la sua storia. Una storia di dolore. Una storia d'amicizia. Una storia d'amore. Una storia di crescita. Una storia per qualcuno.
Qualcuno di importante.
"Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad essere il migliore in tutto, ma tu mi hai insegnato ad essere un brav’uomo. A cogliere le margherite alla fine dello stelo, per non farle soffrire, perché tutti a questo mondo soffrono anche se non piangono. A prendere le coccinelle con la paletta della polvere e a lanciarle dalla finestra, in modo che si librino in volo. A rifare il letto al mattino appena sveglio, perché verrà un giorno in cui non ci sarò, e sarai solo, e imparerai quanto sono facili le grandi cose, capendo quanto è difficile curarsi delle piccole cose. "
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Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO
Settembre 2015
Quando apro gli occhi è già sorta l’alba.
Dalle tende di velo dell’ospedale, Liverpool brilla d’arancio e cannella nella sua luce autunnale. Guardarla sembra diminuire il peso costante che mi grava su stomaco e cuore. Stomaco, perché è lì che colpiscono tutti i dolori – non riesco a mangiare, a malapena a bere, e mi strasformo in uno spettro che non ha bisogno di nutrirsi. Cuore perché è là che, quando arrivano quei dolori, tutto di te si restringe. Siamo come tessuti tutti diversi, noi uomini, ma la vita ci tratta sempre allo stesso modo; allora ci restringiamo, e noi stessi diventiamo un abito che non ci sta più bene. L’ho imparato a mie spese.
Anche adesso ho addosso il solito completo da lavoro. Giacca, cravatta allentata, camicia. La sigaretta che mi trema tra le mani – non puoi fumare qui, non puoi andartene.
Non puoi lasciarla sola.
«Arthur,» mi chiama mia madre, e solo adesso mi accorgo che ha aperto la porta. «Va’ a casa, resto io con lei… Sei stanchissimo.»
Mamma è sempre stupenda, anche coi solchi sul volto dell’età e dei desideri abbandonati lungo la strada della sua giovinezza. Quanti anni ha compiuto, il mese scorso? Cinquantaquattro o cinquantacinque… ha fatto una bella festa, lei e papà hanno ballato, le persone hanno applaudito. Io guardavo da lontano.
La tinta l’aiuta a mantenere d’un biondo brillante i suoi capelli.
«Lo so da me, ma’. Ma vado via quando lo decido io.»
Mamma si mette a braccia conserte, sbuffa e fissa i suoi occhi nocciola nei miei. «Fai più capricci adesso, a quasi trent’anni, che quand’eri bambino.»
I suoi rimproveri mi riempiono di tenerezza; cercano di recuperare i momenti in cui era impegnata a rimproverare se stessa. «Ne devo compiere ancora ventotto e poi non è vero.» Quasi rido. «Sono sempre stato bravo… sono certo che lei se lo ricorda.»
Allungo la mano verso la donna addormentata nel letto, con gli aghi di flebo infilati nelle vene del suo polso. Bianche le coperte, bianchi i suoi vestiti; bianca la sua pelle.
Con quei capelli nero d’antracite sparsi sul cuscino, il naso ad aquila e il corpo da nuotatrice, in te si irradia una bellezza fatta di sola luce. Un’estasi meravigliosa, ma accecante.
Tu sei così, Eirene.
Mia cara Eirene.
«Sì, Eirene sicuramente ricorda tutto. Come potrebbe mai dimenticarsi di te?»
Sbuffo, non riesco ad evitarlo: Eirene potrebbe averlo fatto, invece, e me lo meriterei. È così che i ricordi mi si affollano nella parte inferiore delle palpebre, liquidi, ed io li trattengo. Devono essere solo miei.
Queste lacrime sono solo mie.
«Ero solo un bambino, mamma,» mi ritrovo a sussurrare.
Poi sono stato solo un ragazzo.
Forse ora sono solo un uomo.
Ci sono tante cose che ti ho nascosto, Eirene. Non mi sei madre, non mi sei sorella, non mi sei legata per sangue. Eppure sei stata tutte queste cose, anche il sangue, tutte le volte in cui ho ammesso di averne bisogno.
“C’è il veleno nei tuoi occhi”, mi hai detto quel giorno maledetto. “Come c’è finito, là dentro?”
Ed io mi sono scostato da te.
Ti ho negato l’unica cosa che mi hai chiesto in tutti questi anni.
Ti ho negato, poi, tutto me stesso.
Hai la mano fredda, la stringo alla mia. Mi hai accarezzato i capelli, con quella mano, un anello d’oro finto per ogni dita, bella gitana che sei stata. Gli anni non sono mai passati per te, più t’avvicini alla morte più ti riempi di vita.
Mi chiamavi re. Mi raccontavi del tuo mare turchino, della tua Atene di sole e macerie, della tua bambina che correva tra le colonne del tempio di Atena.
Rallenta questa fine.
Regalami un adesso, ma un adesso che duri, perché per una volta vorrei avere la possibilità di essere abbastanza. Ti darò l’unica cosa che mi hai chiesto, ma non andare.
Ti prego, Eirene, almeno tu sii immobile, come le statue dei tuoi antichi dèi.
Ce l’ho ancora, questo veleno. Lo so mentre mia madre mi guarda e mi lascia uno sfioro che sembra un bacio sulla guancia che punge di barba. Non ho chiuso occhio. Non mi sono guardato allo specchio. Non riesco più a riconoscermi.
Ora saprai come mi è finito dentro, questo veleno.
Mia madre esce dalla stanza. Ha detto qualcosa – un saluto, forse un torno presto – ma ha poca importanza.
Tu non devi fare altro che ascoltare, Eirene: mi sta ritornando in mente la mia vita come non l’avevo mai vista prima, come puoi vederla solo tu. Riesci a vedermi?
Sono di nuovo un bambino.
Ho di nuovo diciassette anni.
Sono sempre vicino a te.
E tu non devi fare altro che restare.
Preludio alla fenice
 
«Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l'abitudine, che non trovi, e l'occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così».
Luigi Pirandello, “Lettera alla sorella Lina”, 13 ottobre 1886
 
Primo capitolo
 
«Arthy, scendi! Non costringermi a salire!»
Sollevai la testa dal modellino della mia Ferrari e lanciai uno sguardo alla porta con il poster di Batman. Mamma aveva la voce alterata dal nervosismo e così mi alterai anch’io, e subito mi alzai dal tappetino su cui giocavo. Lasciai la mia stanza e percorsi il lungo corridoio, scesi le due rampe di scale e mi fermai di fronte al salone. Mi lisciai la maglia, e sperai che il nostro ospite non si curasse della macchia di cioccolato che ne segnava l’orlo.
Avevo mangiato una brioche di nascosto.
«Tesoro,» mia madre mi chiamò, mentre si abbassava per posare il vassoio del tè e dei biscotti sul tavolino di cristallo. La gonna corta che indossava le si stirò sulle cosce, e il tornare con la schiena dritta con quei tacchi alti ai piedi le recò una difficoltà che cercò di nascondere con un sorriso tirato.
Era la prima volta che serviva qualcuno.
«Vieni a conoscere la nuova governante,» continuò, e i suoi occhi nocciola si addolcirono.
Feci qualche altro passo nella stanza e gli occhi castano scuro della donna seduta di fronte a lei mi squadrarono.
Eri tu.
Capelli nerissimi, pelle pallida, i lineamenti fini, una veste bianca addosso.
Sembravi un cigno.
«Ciao.» Quel saluto – nella tua voce grave – mi parve quasi l’insieme di un mormorio di tante voci. Mi regalasti un sorriso di mezza luna. «Sei il figlio di Vanessa e Richard, non è così?»
Avanzai. «Sì,» ti risposi. «Mi chiamo Arthur.»
Non smettesti più di sorridermi. «E quanti anni hai?»
«Compio sei anni il trenta dicembre.»
Allungasti le mani verso di me ed io, perso nei tuoi occhi caldi, mi lasciai catturare nel tuo spazio. Così mi ritrovai ad essere cullato dal tuo abbraccio.
Mia madre, i capelli biondi che le scendevano lisci sulle spalle e la tazzina del tè a mezz’aria, ci fissava. Forse aveva già capito che saresti stata tanto importante per me.
«Io mi chiamo Eirene Mesiani,» dicesti poi. «Prometti che ti comporterai bene con me?» Avevi uno strano accento, rendevi dolci tutte le vocali, come se stessero tutte per trasformarsi in i.
«Che nome è Eirene?» chiesi io.
«Arthur!» Mamma mi lanciò un’occhiata contrariata e posò la tazzina nel suo piattino.
La tua risata sembrava uno stormire d’uccelli.
«Va tutto bene, signora,» parlasti tu. «Il mio è un nome greco perché vengo dalla Grecia, Arthur. Sai dove si trova?»
Restai interdetto. Mi morsi il labbro, cercai il sostegno di mia madre ma trovai solo uno sguardo distolto.
Così mi ritrovai solo.
«Papà mi ha insegnato a leggere le ore sull’orologio, a fare le divisioni e a costruire i castelli di carte. Mamma mi ha insegnato a memoria il sonetto settantacinque e centosedici di William Shakespeare e a scrivere, ma no…» Scossi la testa, preso da un senso di colpa che non comprendevo. «Non so dov’è la Grecia.»
Mi accarezzasti il volto, notai i tanti anelli che portavi alle dita dalle unghie lilla. «Imparare fa parte del vivere.» Posasti un bacio sulla mia fronte. «Domani porterò una cartina e te la mostrerò.»
Eirene Mesiani. Avevi trentotto anni di forza ed eleganza. Il lavoro non ti stancava ma sembrava insito in queste mani ora abbandonate lungo i tuoi fianchi, in queste braccia ora molli come continuazione dei tuoi tendini. Per questo non ti limitavi a dare ordini alle cameriere ma lavoravi tu stessa. Cucinavi pranzi squisiti, sapevi rammendare i vestiti, curavi le rose e le margherite del nostro giardino. Quando appassivano, coglievi i fiori alla fine dello stelo, per non farli soffrire, perché tutti a questo mondo soffrono anche se non piangono. In camera mia, mentre giocavo con il modellino della mia Ferrari, trovasti una coccinella sul vetro della mia finestra: la facesti salire sulla paletta della polvere e la lanciasti fuori, in modo che si librasse in volo. Appena mi svegliavo rifacevi il letto sotto i miei occhi, mi spiegavi come cominciare e finire perché verrà un giorno in cui non ci sarò, e sarai solo, e imparerai quanto sono facili le grandi cose, capendo quanto è difficile curarsi delle piccole cose.
Io mi svegliavo sempre alle sette e da che mi alzavo ti seguivo come un grillo saltellante e parlante, anche se tu eri libera da qualunque coscienza altrui.
«Ti piace la scuola?» mi chiedesti un giorno, mentre lavavi il pavimento, ed io mi stringevo le ginocchia al petto seduto sulla sedia, per non intralciarti. Un sospiro e poi altre parole. «Vedo che porti sempre buoni voti.»
«Mi piace di più giocare in giardino.» Reclinai la testa e chiusi gli occhi. «E fare il supereroe.»
Ti mettesti a ridere.
Quando ridevi non sembravi più un cigno, ma un gabbiano.
Già, proprio così.
Ti guardo, Eirene. Cuore codardo che non hai altro. Proprio adesso che ho cominciato ad aprire gli occhi doveva portarti via da me?
Eri rimasta a casa. Così non mi hai visto attaccato alla gonna di mamma mentre si apriva la porta, e la famiglia che mi ha preso il cuore ci ha accolto nella loro immensa villa con quell’aria semplice e solenne di chi non sa niente, di chi vive nella grazia e nella gioia.
La famiglia Truman.
«Rick! Vanessa! Oh, e c’è anche il vostro, piccolo Arthur…» Una miriade di sorrisi, e voci, e abbracci mi invase, ed io ne rimasi per l’ennesima volta incantato. Buford Truman, occhi azzurrini, occhiali fini scivolati sulla punta del naso, il migliore avvocato di tutta Liverpool, con un braccio teneva stretta sua moglie.  «Ti trovo benissimo, Theresa!» esclamò mamma. In mezzo a loro, la figlia maggiore dei signori Truman:  era nata solo sei mesi prima di me. D’una bellezza disarmante e intoccabile, così fresca da annullare il fatto che in Inghilterra tante bambine nascono con la pelle bianca di latte. Aveva gli occhi che parevano un cielo ombrato: gli stessi del padre, ma allora il signor Truman possedeva, nello sguardo, più chiarore; lei invece sembrava scorgere minacce ovunque guardasse ed era pronta, senza paura, ad affrontarle. «Ciao a tutti,» sorrise. Dopo i vari saluti corse al piano di sopra mentre io, con la mano stretta a quella di mamma, desiderai disperatamente seguirla.
La signora Truman mi accarezzò i capelli con un tocco leggero ma caldo, e così attirò il mio sguardo. «Diventi più bello ogni giorno che passa… non è così, Arthur?» mi chiese, con tutta la curiosità che non si potrebbe mai trovare in una domanda retorica. La trovavo bella in modo tanto strano, con quel vestito bianco che sembrava una camicia: era una fata scura, che aveva preso i colori delle cortecce degli alberi mentre la pelle, lucida, aveva la sfumatura più chiara delle foglie autunnali. Theresa, il suo nome – con il th, perché all’anagrafe ci fu uno sbaglio che suo padre, non sapendo leggere, non notò. E lei si divertiva sempre a raccontare a noi bambini questa storia, del suo papà napoletano che fino alla fine l’aveva chiamata Teresì, che nell’amore di suo marito è diventato Tracy, ma che nel cuore dei suoi genitori è sempre stato Teresa, la piccola Teresa, figlia di due avventurieri italiani.
Feci un alzata di spalle ed arrossii come poche volte ho poi fatto nella vita.
«Tracy, lo metti in imbarazzo,» la richiamò papà con voce divertita, e mamma lo guardò come guardava ai tempi, in televisione, due maschi che si baciano, con fastidio e un immotivato disgusto. Richard Conrad Benkinson, mio padre. Un gran manager. Sempre lontano. Sempre a suo agio.
«Oh, non vorrei mai,» gli risposte Theresa, e tornò a rivolgersi a me. Ed io corsi fino alle scale, fino al piano di sopra, fino a quando me lo disse il cuore. Mi fermai solo al suono della voce di Jade.
«Sei proprio bellissima,» diceva. «Lo sei proprio, proprio tanto.»
Quella voce aveva sempre il potere di bloccare qualunque cosa accadesse nel mio universo, lontana o vicina che fosse. Un suono che era come una sirena, e mi metteva all’erta.
Aprii la porta, piano, per non far rumore.
Jade, i capelli scuri così lunghi da sfiorarle la vita, teneva entrambe le mani appoggiate alla culla di legno decorato, con la testa abbassata a guardare giù.
E poi, d’improvviso, si girò verso di me.
Bella e splendente come la gemma che è il suo nome.
«Perché stai qui?» chiese impettita, e incrociò le braccia al petto.
Dura e difficile come la pietra.
«Sono stato invitato a salire,» dissi io.
Jade roteò gli occhi. «Non ti ho invitato io,» sbuffò. «E sai, Barbie magia delle feste 1993 che mi hai rotto non si è più potuta aggiustare.»
«Mi dispiace…»
«E fai bene a dispiacerti!»
Un risolino attirò la mia attenzione.
«Cosa c’è lì?» le chiesi, con un cenno del mento.
Jade fece un passo indietro e si appoggiò alla culla di schiena. «Non è un “cosa”, è mia sorella,» sibilò. «E se quando ti vede piange, lo dico a papà.»
Sbuffai.
Era sua sorella, è vero, eppure io continuavo a chiedermi che cos’è? perché mi sembrava impossibile d’essere stato così piccolo. La piccola era della stessa misura di una bottiglia d’acqua. Come faceva a sorridere senza denti? E lo faceva, con quella pelle olivastra che sembrava esser fatta per assorbire tutti i raggi del sole e i grandi occhi, marroni come il cioccolato amaro, vispi e selvatici.
Aveva la testa piena di capelli, corti e castani.
«Non è perfetta?» mi chiese Jade, e la sua voce aveva una sfumatura così dolce, un tono colmo di adorazione.
«Sì, è perfetta.»
Jade rise, le guance le diventarono più rosse, avvicinò la mano a quella della bambina e la piccola la strinse, così mi accorsi che la sua presa era forte anche se era appena nata: è una bambina che vuole vivere, mi venne da pensare. Si portò il dito di Jade alla bocca con un risolino che mi fece venire i brividi sulla nuca.
«La mia Natalie,» mormorò Jade, come se non esistessi; come se non fossi più un intruso, come se facessi parte di tutto questo. «La mia sorellina.»
Natalie si addormentò, Jade mi lanciò uno sguardo d’affetto immotivato, come se negli occhi potessi leggere le parole ti ho perdonato, puoi stare qui, puoi bearti con me di quanto è meravigliosa questa vita; fece la mossa di spostarsi i capelli dietro le spalle, mi prese per il braccio e mi condusse fuori, in silenzio.
Alla nascita di Natalie Truman anch’io ho chiesto a mia madre di avere una sorella o un fratello con cui giocare, ti ricordi? Eravamo appena tornati dalla cena dei Truman, tu aiutavi papà a togliersi il cappotto, mamma si toglieva le scarpe alte e scomode sul tappeto ed io correvo da una parte all’altra, mi seguivate con lo sguardo da una parte all’altra, mi sentivo come Superman ed a un certo punto ho girato come una trottola e sono caduto sulle ginocchia, sfinito, ridendo.
Credevo ancora che bastasse rivelare i propri desideri, per realizzarli.
Mamma e papà non mi ascoltarono mai.
Avrei preferito un fratello per fare giochi da maschi impavidi, ma mi è toccato il dono della solitudine, l’imposizione forzata e poi benedetta di bastarmi.
Ma questo lo sai già.
***
Quella sera mi rimboccasti le coperte. Erano tanto calde mentre io pensavo alla bambina appena nata che avevo appena conosciuto e a sua sorella maggiore.
In quella stanza dal profumo dolce e delicato, ero rimasto stregato.
«Arth? … mi pare di capire che il mito di Piramo e Tisbe non ti piace molto. È vero, è molto triste. Dormi con gli occhi aperti, piccolo re?»
«Cosa? No… ho solo sonno.»
«Va bene, adesso spengo la luce.»
Che brutta figura. Tu mi raccontavi tutte quelle belle cose che a scuola non mi avrebbero mai insegnato ed io pensavo alle due bambine della mia infanzia. Dovevo dimostrarti di non essermi dimenticato di te.
«Ti piace Liverpool?» ti chiesi.
Spegnesti la lampada sul mio comodino, ma il bagliore dei lampioni esterni ti raggiungeva e ti sfiorava con il suo orlo dorato. «Oh, molto.»
«E non ti manca casa tua?»
Mi accarezzasti i capelli per farli finire all’indietro e mi ipnotizzasti. Chiusi gli occhi.
«Sì, mi manca. Mi mancano mia figlia e mio marito.»
«E perché sei qui, allora?» Mi offesi, perché non mi avevi mai parlato prima della tua famiglia.
Credevo fosti sola.
Credevo fosti nata solo per rendermi un bambino felice.
«A volte sei costretto a lasciare le cose che ami per amarle di più.» Il tuo fu un sussurro, ed io sollevai di poco le palpebre. «Forse, tra un po’ di tempo, quando avrò racimolato abbastanza soldini, potrò tornare ad Atene e aprire un bel ristorante, proprio come sognava la mia mamma, Clio… E qualunque cosa accada, piccolo re, s’agapò. Io ti voglio bene. Ti vorrò sempre bene.»
Rimasi colpito dal suono di quella parola straniera. Non da te, che mi amasti subito come si amano tutti i bambini nel momento in cui si supera il loro mistero: senza motivo, perché esistono, perché nel loro vivere non ci sono artifici ma solo giochi d’amore, di guerra, di pace, tutto si risolve con un bacio, un abbraccio, un non lo faccio più.
Ed io feci lo stesso con te.
«S’agapò,» la assaporai con lentezza. « Ti voglio bene, Eirene.»
*
*
*
*
Ciao a te, lettore! <3 se non ci siamo mai conosciuti, eccomi: sono Ania e ti ringrazio immensamente per essere qui e per dare un possibilità alla mia preludio alla fenice. Questa è la storia di Arthur Benkinson: non è la prima volta che scrivo di lui, compare nella mia long conclusa La volpe di Liverpool in cui Natalie Truman, che qui vedete quando è una bimba appena nata grande quanto una bottiglia, è la protagonista. Preludio alla fenice si può leggere anche senza conoscere La volpe di Liverpool.
Se tu, lettore, fai parte di quelli che hanno letto la volpe... ben tornato in questo viaggio che va all'indietro solo per andare molto, molto avanti. Grazie per essere tornato a trovarmi *--------------------*
Grazie per aver letto.
Grazie a te per avermi dato una possibilità.

A presto
Ania <3

P.s vuoi leggere La volpe di Liverpool? Clicca sul banner qui sotto! <3 E' di un genere completamente diverso da questo, io la definisco commedia drammatica :p
 
   
 
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