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Autore: Made of Snow and Dreams    18/11/2015    1 recensioni
Seguito di 'Oh mammy, dear mammy...' e 'Sometime nightmares are reality... like now.''
Dal testo:
' La vidi fare una pressione maggiore, stringere maggiormente il manico con entrambe le mani e fissare senza gemere la punta affilata premere contro la carne molle.
Sì, ancora un grammo di forza in più e si sarebbe bucata il petto.'
Genere: Horror, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie ''Sometime nightmares are reality... like now.''
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HIDE AND SEEK

 

 


Eravamo tutti troppo stretti lì dentro.
Non riuscivo a capire nemmeno dove mi trovassi: l'oscurità incombeva su tutti noi, ad ogni sussulto di quel maledetto camion sbattevamo gli uni contro gli altri, l'aria iniziava a scarseggiare, quell'odore dolciastro ci nauseava.
Eravamo in viaggio da più di quattro ore, eppure non si vedeva ancora la destinazione del mio tragitto; qualche minuto prima mi ero anche chiesto se ce ne sarebbe stata davvero una.
'Guardate tutti! Proprio lì, vedete? Siamo arrivati!'
'E' vero, quella è la città in cui sono nato!'
'Finalmente è finita! Scendete, scendete subito!'
Diverse urla ruppero l'imbarazzante silenzio che si era creato tra di noi, una scintilla di emozione colmò il vuoto lasciato nei nostri occhi scuri; una serie di spintoni e scosse mi fecero quasi cadere a terra, mentre tutti gli altri si ammassavano per poter uscire fuori e respirare l'aria fresca della campagna, ma...
...ma non fu esattamente come tutti noi speravamo.
Quando gli sportelloni si aprirono da due mani rudi, sconosciute e sbrigative, lo smog prodotto dal traffico ci colpì le narici. Quelle stesse mani ci afferrarono senza un briciolo di delicatezza e ci sballottarono a destra e a sinistra mentre noi, spaventati, facevamo del nostro meglio per non fiatare.
Il primo ad essere preso sparì oltre la nostra visuale, strizzato e torturato da un altro paio di mani, e così toccò al secondo e al terzo.
Il quarto ad essere stato preso fui io.
Sperimentai le stesse sensazioni degli altri e cercai anche di ribellarmi, di ferire o almeno graffiare il mio assalitore.
Ma non ne ebbi il tempo.
In un battito di ciglia venni affidato alla custodia di un altro paio di mani, fin troppo diverse da quelle precedenti, così nemiche.
Queste invece erano davvero belle, oltre ad essere delicate e soffici: bianche e dalle dita affusolate, decorate con strani anelli argentati e da dei monili in ferro, esse mi trattavano con un grazia e una tale cura che provai inizialmente l'istinto di piangere; tuttavia mi limitai ad appoggiarmi contro il suo petto morbido, cercando di non guardare indietro e concentrandomi sulle sue carezze.
Quella donna mi portò con sé, attraversò una stradina secondaria per poi entrare in un edificio enorme e stranamente illuminato: non ebbi il tempo di osservarlo meglio che la porta con uno scatto si spalancò, lasciandoci entrare.
E dentro... era orribile.
Una specie di prigione fatta di colori vividi e luci colorate, di mobili laccati e canzoncine allegre, di tutti noi costretti a rimanere seduti nella medesima posizione, quasi fossimo manichini da esposizione. Quella donna, fasciata di un acceso azzurro, mi sollevò per posarmi su un ripiano, per poi guardare l'effetto complessivo e girare i tacchi, sorridendo contenta e un po' annoiata allo stesso tempo.
Nel frattempo io ne approfittai per studiare meglio il posto: alla mia destra c'erano altri come me ridotti in pessime condizioni, chi ferito e chi arresosi nell'animo; alla mia destra c'erano altri legati o intrappolati all'interno di scatole piccole e strette, fin troppo piccole per la nostra stazza.
Chi piangeva sconsolato, chi progettava di fuggire via, chi impazziva all'idea di stare lì, rinchiuso per sempre.
Ma quanto tempo avrei resistito lì?
Quale dei tre destini sarebbe divenuto il mio?

Chiusi gli occhi... e attesi.

 

 

 

E, alla fine, tutte le mie preghiere vennero accolte.

 

 

Con un paio di manine piccole e abbronzate.
E un paio di occhi scuri.

 

 

La casa era grandissima, spaziosa, con un giardino che, a quanto capivo, la bambina condivideva con i vicini di casa. Era un posto luminosissimo e allegro: dalle finestre di vetro filtravano diversi raggi di luce che le tende bianche amplificavano fino a illuminare tutto il salotto; le pareti dello studio erano dipinte di azzurro acqua, quelle della cucina di un delicato color pesca e quelle della cameretta della bambina di un etereo verde splendente. Anche i suoi genitori erano sorridenti e felici, ognuno a suo modo.
Insomma, quel posto era davvero un paradiso per me.
E lo era anche di più la camera della bambina!
Con un lettone gigantesco e circondato da tantissimi mobili, dalla scrivania al comò fino alla libreria e al mobiletto dov'era stata poggiata una piccola tv adibita alla visione delle cassette dei cartoni, la bambina passava chiusa lì dentro la maggior parte del giorno, disegnando o mettendosi seduta per terra, in silenzio e senza fiatare, fissando il cartone animato scelto.
Era una strana bambina, molto silenziosa e molto vivace.
Ma non giocava mai.
Non si avvicinava mai a noi.
Credo che le facessimo paura: si limitava a fissarci per qualche minuto, le mani lungo i fianchi, dentro la camera che lei stessa aveva chiuso a chiave. Senza parlare.
E io ricambiavo il suo sguardo, perplesso.

 

 

 

I suoi comportamenti diventavano sempre più bizzarri con il trascorrere del tempo in ogni giornata.
Di giorno tutti e tre uscivano fuori di casa dopo essersi sistemati a dovere e aver mangiato, e tornavano verso l'ora di pranzo. Durante tutto quel tempo io e gli altri ci muovevamo, ridevamo, aprivamo le finestre o i cassetti della scrivania sporca di inchiostro e zeppa di fogli disegnati, per poi lasciarli aperti e immaginare la reazione della proprietaria nel vedere tutte le sue cose fuori posto.

Sì, lei doveva imparare a non ignorarci!

Lei non doveva dimenticarmi.

Nel pomeriggio tornava in camera saltellando allegra, accendeva la tv perché si spaventava del silenzio continuo e si metteva seduta a disegnare, interrompendosi qualche volta per lanciarci qualche occhiata inquieta, come a tenerci d'occhio.
Ma non si azzardava nemmeno una volta a toccarmi.
Era una situazione bizzarra oltre ogni limite: era stata lei stessa a scegliermi ,era stata lei stessa a pregarmi di seguirla per tenerle compagnia nascosto nella sua cameretta, e custodirla nel buio della notte!
Se lei mi avesse dato un'effimera carezza ogni tanto, o anche un solo misero gesto che mi trasmettesse il suo affetto lo avrei fatto sicuramente, senza indugiare.
Sarei diventato il suo prescelto.

E lei non mi avrebbe mai dimenticato.

Ma lei non faceva niente di tutto questo, anzi: qualche mese dopo la mia venuta in casa sua, la vidi entrare con le braccia che sorreggevano un pupazzetto a forma di tigre sorridente, con dei buffi ciuffi di pelo scuro che spuntavano da sotto il muso, come a formare una esilarante cornice.
Lo tenne stretto stretto nelle braccia appoggiando il viso sul morbido pelo sintetico, cullandolo come una madre culla il proprio figlio.
Poi lo scostò da sé, fissando gli amichevoli occhi cuciti per un lungo istante, esaminò la stanza e poggiò il peluche per terra vicino a una culla finta per bambolotti, in attesa di trovare una sistemazione più adeguata.
Si rimise seduta a disegnare.

Era come se per lei non esistessi più.

 

 

 

Con il passare del tempo il suo comportamento diventò sempre più indifferente nei miei confronti.
Non che la cosa ormai mi infastidisse o mi urtasse, ormai.
Non più.
Semplicemente diventai uno degli spettatori di quel film noioso e monotono che era la sua vita.
Un film noioso e oltremodo monotono, sì, ma con qualche colpo di scena ogni tanto; un giorno quella bambina si svegliò una domenica mattina da sola e senza i genitori che erano usciti fuori, convinti che si sarebbe svegliata più tardi. La sera prima aveva lasciato la porta della sua camera aperta, quindi potetti avere una visuale molto chiara e nitida di quello che faceva. E quella mattinata... per la prima volta la vidi piangere.
Piangeva in un modo strano, senza singhiozzi, senza lamentele; così, in silenzio, rannicchiandosi dentro il pigiama azzurrino di almeno tre taglie più grande di lei.
E, sempre in assoluto silenzio, la vidi dirigersi in cucina e aprire uno degli sportelli.
Per prendere un coltello.
Era molto sottile e piccolo,dall'impugnatura nera, e sebbene lei fosse molto piccola non esitò a puntarselo sul petto da uccellino, graffiandosi leggermente in diversi punti e immaginando dove fosse realmente situato il suo cuore. La vidi fare una pressione maggiore, stringere maggiormente il manico con entrambe le mani e fissare senza gemere la punta affilata premere contro la carne molle.
Sì, ancora un grammo di forza in più e si sarebbe bucata il petto.

 

Ma non lo fece mai.
Dopo un paio di secondi passati a fissare la lama pulita

Chissà, forse la sta immaginando sporca del suo stesso sangue! Magari sta immaginando cosa ne potrebbe essere dei suoi genitori se trovassero il corpicino di una bambina con il petto squarciato da un coltello ancora incastrato nelle costole nella cucina!
E non una bambina qualunque, ma... la loro adorata figlioletta!

Ripose il coltello dove l'aveva preso.
E si sedette, accendendo la tv del salotto, ascoltando molto distrattamente uno stupido cartone animato coloratissimo, mentre si portava una mano alle labbra e con l'altra si strofinava entrambe le cosce.

 

 

 

 

 

La vidi crescere, assistetti alla sua crescita.
Mi portò con sé quando i suoi genitori si separarono e la casa fu venduta, mi portò con sé durante il trasloco e mi portò con sé quando si stabilì definitivamente nella casa di sua madre, alternando cinque giorni da lei e due giorni da suo padre, proprio come aveva stabilito il giudice.
C'erano volte in cui mi carezzava distrattamente o parlava con me come se fossi stato un suo intimo amico così, all'improvviso, ma erano molto rare; ora la sua più grande occupazione era scrivere ed eseguire i compiti, e leggere fumetti e libri dell'orrore.
Come tutti i bambini che crescono, cambiò anche il suo corpo: ossessionata dall'avere una pelle diafana perfetta non si espose più al sole e iniziò a curarsi di più, facendosi crescere i capelli castani e allenandosi maggiormente.
In definitiva, tutto era tornato alla normalità.
Per lei.

Mi hai già buttato dentro una polverosa scatola per poi chiuderla e dimenticarla nei recessi della tua mente, bambina?

Oh sì. L'aveva già fatto da tempo, sin da quando aveva imparato a ignorare i miei sguardi arrabbiati, sin da quando aveva vinto l'abitudine di controllarci da dietro le sue spalle, agitatissima e inquieta come non mai.

Ah, perché quando ti facevo così paura non mi ignoravi? Perché mi tenevi sempre in considerazione?
Abbandonato lì e condannato a fissare ogni tuo singolo movimento per la mia sopravvivenza, sì, ma pur sempre importante per te. Cos'è cambiato, bambina? Cos'è cambiato, piccola mocciosetta?

 

Ma se per lei non era cambiato nulla nella sua vita e nei miei occhi, commise comunque l'errore di cambiare la mia visione delle cose e distruggere ciò che restava della mia tolleranza verso di lei.
Avevo passato anni nell'essere ignorato e ad essere considerato come uno dei tanti suoi amichetti, studiando quella bambina e cercando di capirla per quanto meglio potevo, ma proprio per questo lei non dovette commettere quell'errore: stancarsi così tanto di avere me tra i piedi dopo un'accesa lite con sua madre - una delle tante da quando i suoi genitori avevano divorziato - e buttarmi come se fossi stato solo un semplice acquisto dimenticato il giorno stesso, uno dei tanti della sua vita. Sì, mi afferrò senza alcuna delicatezza

Quelle mani...

e mi trascinò verso il cancello principale dell'appartamento

Così buio...

buttandomi senza alcun ritegno nel cassonetto dei rifiuti.

Manca l'aria... il camion!

E andandosene soddisfatta, accese l'mp3 e affondò le cuffie nelle sue orecchie.

 

 

 

 

 

 

Una sola parola continuava a ronzarmi nella testa, come una cantilena senza fine composta da una sola parola: vendetta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La ragazzina che abitava al terzo piano, dalla pelle bianchissima e dai capelli - ora schiariti fino ad essere di un biondo scuro - lunghi, scriveva poggiata parzialmente contro il muro, a gambe incrociate sul suo letto. Erano passati tre anni.
Aveva imparato a disegnare da sola tutto quello che voleva, aveva imparato a leggere storie di assassini sanguinari o di fantasmi senza quasi spaventarsi più di tanto, ed era giunta per lei l'ora di imparare a scrivere da sola e mettere su carta i suoi sogni.
Aveva imparato che scrivere le faceva oltremodo bene; era sempre stata piena di paure e di timori sui mostri sotto il letto o i giocattoli, o sui compagni di classe irrispettosi del suo essere.
Inoltre, ultimamente il suo sonno non era stato ottimale: incubi di ogni specie avevano iniziato a popolare la sua mente senza tregua,senza lasciarle spazio.
In particolare ce n'era uno che continuava a tormentarla la notte, un sogno che si ripeteva notte dopo notte ripetutamente.
In realtà non era proprio un sogno, quanto una serie di immagini legate insieme meccanicamente, come in un rullino di una macchina fotografica.
Nel suo sogno, udiva distintamente una risata strana e agghiacciante, terribile, provenire da dietro la porta chiusa della camera da letto di sua madre, dove dormiva anche lei perché si spaventava ancora troppo del buio, sebbene fosse un'adolescente.
Era troppo acuta, troppo metallica e piena di ruggine per essere naturale e umana; e come se non bastasse, essa aumentava di intensità, dall'essere a malapena percettibile a divenire assordante.
Ricordava di vedere distintamente, sebbene ci fosse molto buio, la porta aprirsi lentamente come spinta da un alito di vento inesistente, e l'ombra di qualcosa di molto piccolo entrare.
Un paio di occhi rossi la fissavano con un odio sconfinato e un sadismo pronti da essere sfogati solo su di lei.
E una voce sussurrare mielosa e irritante, e così dannatamente inquietante:
'Avanti bambina, giochiamo pure a nascondino!'
Inutile dire che si era svegliata con il pigiama incollato addosso e il respiro affannoso.

 

La ragazzina scrollò le spalle.
'Ma finché rimane solo un sogno, non c'è niente da preoccuparsi!'

 

 

 

 

 

Tuttavia quella notte... giocò davvero a nascondino.

Un vicino sostenne di aver sentito delle grida disperate provenire dal terzo piano.

 

 

 

 

 

E, sempre quel vicino di casa, un anziano signore di settantaquattro anni di nome Johnnie Brukes, affermò di aver visto una ragazzina di circa quindici anni uscire dal portone principale sporca di sangue rappreso, specialmente nella zona degli avambracci, orribilmente cuciti e tenuti insieme da una lunga fila di bottoni neri. Tra le braccia reggeva un peluche a forma di cagnolino, bianco e a macchie marroni, anch'esso sporco di rosso e dagli occhi infuocati. Sorrideva, ma era come se il suo sorriso fosse stato cucito recentemente da una mano inesperta.
Tra le fauci di pezza aveva impigliati un ago e un filo.

 

 

 

 

 

La ragazzina si fermò di colpo.
Aveva corso senza mai fermarsi, cercando di farsi notare il meno possibile dagli altri e cercando di non farsi scivolare il suo migliore amico dalle braccia.
Era più che sicura che lì, ai limiti della città e nei pressi del parco abbandonato situato accanto a una radura non ci fosse nessuno.
Eppure...

 

 

 

… eppure lì, a fissarla, c'era un bambino.

 

 

 

 

 

 

 

 

E siamo arrivati al terzo capitolo di questa serie con un nuovo personaggio!
Teoricamente avrei dovuto scrivere il doppio per la storia intera, ma dato che sarebbe risultata un malloppo illeggibile ho pensato di spezzare l'intera storia in due parti. Questa è la prima.
Niente, spero che vi sia piaciuta anche questa. Se vi va, ovviamente recensite e se non avete capito qualcosa non esitate a chiedere!
Alla prossima! ^^

Made of Snow and Dreams.

  
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