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Autore: _sonder    18/11/2015    0 recensioni
Un direttore d'orchestra e un trombettista ordinario; un violinista e la sua improbabile partner; un pianista e una fidanzata alquanto eccentrica, dalla voce unica. Il mondo della musica è vario e nasconde storie d'amore che scivolano dai leggii, come spartiti confusi dal vento.
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[IwaOi; KageHina; fem!Hinata; Ushi/OC]
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Autore: _sonder
- Titolo: Sole danzante
- Personaggi e pair: Tooru Oikawa, Hajime Iwaizumi, Wakatoshi Ushijima, Tobio Kageyama, Takeru Oikawa, fem!Hinata Shoyo, Maho Oikawa (OC, sorella di Oikawa); Hisashi Iwaizumi (OC, gemello di Hajime). IwaOi, Ushi/Maho, KageHina (ER). Hints of Oikawa/Hisashi.
- Pair secondari: KageHina, UshiMaho.
- AU scelta: Musicisti
- Avvertimenti: What if, Genderswap
- Rating: Giallo
- Generi: Commedia, Malinconico, Introspettivo, Sentimentale
- Note autore:
° I protagonisti sono musicisti: Oikawa è un aspirante direttore d'orchestra; Iwaizumi un trombettista; Ushijima un violinista; Kageyama un pianista; Hinata una cantante (lirica).
° Oikawa è stato un concertista/pianista, ma la faccenda è solo accennata.
° Le età dei protagonisti sono state alterate. Sono tutti maggiorenni (=21 anni in Giappone) o twentysomething. Eccezion fatta per Takeru.
La sorella di Oikawa, senza nome nel manga, è qui madre single/divorziata di un paio di anni più grande del fratello.
° Iwaizumi ha un gemello in questa fanfiction, Hisashi.
Entrambi gli OC (Hisashi Iwaizumi, Maho Oikawa) hanno un ruolo marginale a livello di attività, ma un proprio significato nelle vicende narrate.
° La fic è ambientata a Tokyo a cavallo fra gli anni '80 - '90, all'epoca dello scoppio della "baburu economi", uno dei peggiori periodi di ristagno economico giapponese. L'assetto sociale del Sol Levante mutò da posti fissi garantiti ai lavoratori delle generazioni precedenti a precariato giovanile; di seguito la popolazione invecchiò e l'instabilità finanziaria dei giovani e delle coppie portò a un calo delle nascite (1% di neonati annui) e a un crollo delle medie e piccole imprese. Il tasso di suicidi conseguente la chiusura di numerose fabbriche e il taglio tra il 17-19% di dipendenti pubblici si assestò attorno alle 30.000 persone. Il numero dei clochard, dei lavoratori occasionali, impiegati per una settimana, e dei disoccupati salì esponenzialmente.
La donna venne lasciata ai margini dell'occupazione e le donne incinte divennero principalmente casalinghe.
Le banche incapaci di controllare l'inesigibilità dei prestiti furono costrette alla chiusura. Cinque banche famose chiusero alla fine degli anni '90.
° Il premio vinto da Oikawa è conferito ogni tre anni da un organo sito a Tokyo, ma di carattere internazionale, che si occupa di selezionare i migliori talenti mondiali.
° Le audizioni e le selezioni musicali offrono vitto e alloggio per il periodo variabile di una o più settimane (a seconda dell'avanzamento nella competizione a turni).
° Hinata canta a orecchio ed è portata per il "cantabile".
° Ushijima, Oikawa e Kageyama sono legati attraverso gli strumenti che suonano, pur non avendo interazioni fra loro. A livello artistico, il pianoforte in un'orchestra si appoggia di fatto agli archi. Ushijima è quindi il modello da sorpassare per entrambi.
° Nell'epoca dei prestiti, la forma più diffusa è l'usura malavitosa adottata dalla yakuza con tassi elevati.
° Kageyama assume spesso posizioni e atteggiamenti che si rifanno alla sua postura di pianista; lo stesso fa Iwaizumi.
° Endaka è un altro termine per indicare la recessione giapponese, basata su false aspettative ed erogazione di prestiti alle aziende da parte delle banche. Dietro l'aspetto ottimistico e florido, si innescò un sistema parassitario.
° Nel corteggiamento giapponese è previsto che la donna (anche matura) accetti di vedere il partner più volte prima di poter entrare in intimità sessuale. Solitamente sono scelti territori neutrali o in presenza di parenti, qualora la relazione sia seria.
° Il mutismo selettivo di Kageyama è una forma traumatica adolescenziale, lieve e non di tipo raro, che si manifesta nell'incapacità di comunicare di fronte a grandi folle.
° Qua e là ci sono nozioni tecniche di postura, suono, definizione della voce di uno strumento.
° Formattazione dei dialoghi Einaudi. La narrazione è a incastro con flashback e un intreccio in cui i personaggi viaggiano su binari paralleli. È un possibile progetto long.
° I genitori di Ushijima hanno divorziato. La questione è puramente introduttiva in questa fic.
° Il titolo si riferisce alle zone d'ombra/luminose della vita umana in relazione a periodi di crisi con se stessi e gli altri, fasi buie e felici.
° Di Hinata ho preferito utilizzare il cognome. Essendo agli inizi della loro relazione, ho preferito che mantenessero un modo di chiamarsi meno "intimo".
° Mirin: sakè dolce giapponese da cucina.
° Udon: noodles di farina integrale di grano.








SOLE DANZANTE

Questo amore tutto intero | Così vivo ancora | E baciato dal sole | È il tuo amore | È il mio amore | È quel che è stato | Questa cosa sempre nuova | Che non è mai cambiata |


L'autobus scorreva lento sull’asfalto, come se avesse perduto il ritmo e faticasse ad adeguarsi al passo della città. Dai finestrini sfilavano teste mogie e il cuore pulsante delle strade al mattino: i colori si offrivano in pennellate meno confuse rispetto alle tavolozze del treno veloce.
Fra tanti volti, Tooru si distingueva per i tratti composti del viso; gli occhi si specchiavano nel vetro, contemplando la scia di pendolari e di disoccupati e l'autunno che si apriva sui loro capi: una stagione dura, che segnava l'entrata nella recessione endaka.

Il capo tentennò e dondolò di lato, finché il mento non colpì il petto. In quel breve momento di riposo dimenticò se stesso. Sognava di essere ancora il concertista in grado di eseguire ottave e numeri acrobatici al piano. Passava dalla levità degli scherzi ai passaggi romantici di un notturno e le sue braccia erano libere, prive di peso; e la sua schiena poteva struggersi, ignorando gravità e postura.
Sentì qualcosa scorrere sulle labbra e vide il volto di Hajime.
"Guardi solo quello che ti fa comodo, Oikawa!"
Iwa-chan era arrabbiato. Le unghie grattavano la pelle, lo frenavano dal tentativo di scappare dalla situazione. C'era stato quel tocco fugace di labbra: un bacio attento, devoto. Anche al ricordo, Tooru percepì la stessa fitta al petto. Hajime aveva lo stesso volto di Hisashi; non poteva essere diversamente... erano gemelli.

La Toho Gakuen Music School si apriva nel suo gioco architettonico da cubo di Rubik. Il grigiore che decorava gli esterni risaltava sulle vetrate linde. Dalla linea Yamanote bastava poco più di una passeggiata per raggiungerla, ma Tooru preferì prendere la via più lunga. Poster di protesta giovanile decoravano alcune mura del quartiere e gli addetti allo smaltimento dei rifiuti erano già all'opera per stracciarli e sostituirli. La connivenza della polizia ai mezzi della yakuza non proteggeva dalle estorsioni ai danni dei piccoli commercianti, già schiacciati dalla crisi.
Tooru lo sapeva bene: Hisashi si era impiccato nel suo esercizio commerciale. Dichiarato il fallimento, umiliato da contratti non garantiti, non era riuscito a sganciarsi dal profondo senso di vergogna. Senza lavoro non esisteva dignità; senza dignità non era possibile vivere.



Hajime si chinò ad annodare i lacci delle scarpe, gli occhi fissi sula porta d'ingresso. Sentì la voce di sua madre arrivargli alle spalle dal piano di sopra: strascicata, come la lenta discesa dalle ripide scale di legno e i lamenti dei gradini consumati. Sollevò il busto e restò diritto, con il collo torto in direzione della zona notte: giocherellava con le dita nella tasca, il muso serio; quello di un animale abituato a una certa ritualità, in attesa di dedicarsi ai membri più fragili dei suoi affetti.

— Buon lavoro, Hisashi.
L'ombra salutò brevemente e tornò a schiacciarsi nelle profondità della casa. Hajime annuì e incontrò lo specchio. Si congedò dal proprio riflesso come se avesse visto un fantasma: era uno spettro ingombrante, che ancora s'insinuava fra parenti e amici. Bastava ascoltarlo suonare per comprendere la differenza: Hajime era un musicista ordinario; Hisashi non sapeva battere il piede a tempo.



Teneva una matita in equilibrio sul naso e gli occhi strabici a furia di fissare il tratto di legno zebrato sulla punta, che cominciava a pruderle. Gonfiò le guance e arricciò le labbra, lanciandosi un'ulteriore sfida di resistenza, finché non intercettò l'espressione attonita di un uomo in giacca e cravatta. A quel punto, le caddero: la mascella, la dignità, un braccio sul tavolo e un paio di chicchi di riso, cotti al dente, ai lati della bocca. Sorrise e agganciò un dito e la matita al primo ciuffo di capelli che potesse ripararle il viso. Kami-sama, perché tutte a lei? Abbassò lo sguardo e tentò di affossarsi sul taccuino dei conti. Accantonò la gaffe e concentrò le sue energie sul foglio della contabilità. C'era di che piangere a fissare i pagamenti da saldare. Le banche non sganciavano più un quattrino e non la sfiorava neanche l'idea di affidarsi ai prestiti della yakuza.
Nel locale erano seduti uomini e donne, per la maggior parte precari e casalinghe, che si permettevano di pranzare e cenare in un ristorante per famiglie dal menù a prezzi modici. Maho non si lamentava degli affari, perché il suo giro di clientela le consentiva di consumarsi a piastra, fornelli e ricevitore di cassa. Se la prendeva con i politici, con le tasse che spremevano le piccole imprese, con il maschilismo che imponeva alle donne di marcire dentro le mura domestiche. Si accigliò e sotto il naso spuntò un biglietto da visita. Lo afferrò e lesse più volte con gli occhi sgranati; infine, alzò il viso verso l'uomo in completo.

— Ha un cercapersone?
Il suo tono maturo la colpì. Rispose negativamente, un breve cenno del capo che lasciò libero qualche ciuffo arricciato dall'umidità.

— Martedì sera siete chiusi al pubblico. Passerò a prenderla alle otto.
Fece per aprire bocca, ma il cliente raccolse il quotidiano e la sua ventiquattrore, allontanandosi senza sentir ragioni.
A volte gli uomini le sembravano così difficili... Palloni gonfiati!



Si era innamorato. Lui, l'irraggiungibile virtuoso del violino, che sapeva piegare morbidamente il collo e segnarlo di calli per il solo amore della perfezione e dei risultati. Guardò con ironia al passato, al divorzio dei suoi genitori e all'attaccamento per suo padre. Gli rimaneva l'eredità di un'azienda indebolita dalla chiusura di alcune banche e dalla concorrenza americana, che aveva declassato la percentuale di importazioni dal Giappone.
Era un'anima divisa fra il dovere di risanare il nome che portava e l'obbligo di primeggiare per se stesso, in nome del proprio casato.
Era un'anima che non si donava, intrappolata nella riservatezza... eppure, anche Ushijima Wakatoshi conosceva il peso dell'amore.


Stappò una bottiglia di vino bianco; con gli occhi cercava i calici che aveva preso dai pensili ed era rimasto con un braccio sollevato e l'indice che scorreva da una direzione all'altra. Sembravano essersi nascosti, quei bicchieri, perché le stoviglie e la spesa si erano messi in bella mostra, ostentando l'usura delle padelle e la povertà degli alimenti. In quelle tracce che, altrimenti, Wakatoshi avrebbe definito sintomo di mediocrità, di una quotidianità che gli stava stretta, scorse la schiena di Maho e rilassò il corpo per gustarsi i movimenti ritmici di lei e la musica improvvisata della cucina. Era un continuo ribollire d'acqua, rimestare d'ingredienti, affettare verdure sul tagliere sino a ridurle a veli colorati, come leggeri tendaggi da gonfiare al soffio del vento. In un'esplosione violenta di sfumature sgargianti e di aromi che si confondevano tra loro, addensandosi nell'aria, le dita di Maho governavano, danzavano e tenevano sotto controllo la propria creatura inanimata e le infondevano la scintilla della passione culinaria.
Wakatoshi non aveva mai considerato la disciplina che albergava in un piatto né si dimostrava riconoscente per quelli che pagava in un ristorante o per i pasti che gli venivano offerti in casa. Per lui si trattava di tributi, di atti dovuti alla sua persona e obbligati, in base a questo, a sfoggiare un equilibrio di perfezione estetica e di pienezza nel gusto; all'altezza dei suoi standard. Detestava i vuoti improvvisi, nella mente come nell'esecuzione di un brano, e s'infastidiva a notare la debolezza, la mancanza di tecnica.

Maho era un'eccezione: ritraeva un'umiltà dignitosa, fasciata dai lineamenti semplici di una donna abituata ad arrangiarsi da sola. Nel corso dei mesi, Wakatoshi aveva alzato gli occhi per incrociarne la figura; si era estraniato dagli spartiti e meravigliato della forza attrattiva di quella presenza così minuta, distante dai suoi canoni di bellezza, eppure ebbra di vita. Vedendola sfilare tra i tavoli, i capelli raccolti da una cuffia e l'olezzo di fritto, sovrastato a malapena dal profumo dolce e fragrante del pane, Wakatoshi aveva combattuto contro l'irrefrenabile impulso di convertire quell'animo in musica. Aveva immaginato la propria ombra di aspirante compositore calarle addosso, in picchiata, e tingerla di quei toni grevi e burrascosi che viaggiavano sulle sue note.

I polpastrelli seguirono la lunghezza delle ciocche e le tirarono appena dietro le orecchie, per disciplinare i pochi ciuffi sfuggiti allo chignon. Di fronte a quel selvaggio disordine, che gli ricordava i prati incolti e testardi nella loro volontà di crescere in qualunque modo, percepì le convinzioni di una vita tremare e smussare i loro angoli.

Wakatoshi sciolse il crocchio di Maho e vi immerse le labbra. Circondò il grembo con un braccio, adeguandosi al lieve sussulto di lei: la strinse, annusò lo shampoo fruttato diffuso sulla chioma e baciò la nuca sottile, china come un giunco. I fremiti del suo corpo lo raggiungevano; formicolavano sui risvolti arrotolati della camicia; e poi piombavano sui peli e sgambettavano via. La loro relazione godeva di lunghe pause di non detti, riempiti da gesti reciproci, che si cercavano e desideravano trovarsi.
Saggiò la pelle e la sua lingua la chiazzò: una macchia rosea che si allungava sulla carnagione diafana.
— Ushijima... — morse le labbra prima di cedere alla tentazione di affibbiargli un suffisso formale.
— Sst.

Replicò distrattamente, un verso più simile a un grugnito e non la dolce ma autoritaria pretesa di calmarla. La bocca scivolò sul collo e una guancia si strusciava sulla sua. Wakatoshi, gli occhi ridotti a due fessure tremule, fissò la vista modesta della cucina e i giocattoli che appestavano ogni arredo tradizionale. Sorrise e spostò le mani sulle braccia di Maho; giunse alle falangi di lei, intente a impastare, e sovrappose i palmi sulla pelle infarinata. Le loro dita s'intrecciarono in un modo tanto immediato da stupirlo. Chiuse le palpebre; le poche note stonate, sfuggite dalla bocca di Maho, lo scaldarono e non riuscirono a infastidirlo.
Sì, era a casa, finalmente.



Hajime storse la bocca: passò le dita dietro la nuca e trovò il solito ciuffo di capelli, perennemente spettinato e gonfio, che bombardava di tic nervosi per sfogare l'ansia. Esibirsi e allenarsi in gruppo erano attività in grado di mettere a nudo i propri limiti; più di tutto, si trattava di essere giudicati sul palco e combattere contro la sensazione di avere un groppo in gola e non saper sciogliere la lingua. Fallire era un costante balbettio di suoni e versi insicuri, incapaci di acquisire forma propria.
Guardò il palmo e le linee che disegnavano viuzze su di esso: uno stradario privo d'indicazioni. Buffo che la vita fosse riassunta in un incrocio di pieghe che non si sapeva dove avrebbero condotto. Sulla pelle serbava il racconto della caccia alle farfalle, le avventure segrete nei cantieri aperti, usati come fortini di pirati, e la dolorosa dedizione alla musica. La tromba era la sua voce e Hajime aveva tante, troppe analogie con l'idea astratta del suo strumento.

Assottigliò gli occhi e cominciò i suoi esercizi di stretching; anziché rilassarsi, tese le spalle e la nuca iniziò a dolergli. Si appoggiò alla parete dell'aula di musica e allargò gli occhi, inebetito di fronte alla realtà che gli si offriva alla vista. Il pavimento tirato a lucido lo abbagliò di una luce calda, che avvolse il ricordo vivido della bocca di Tooru; la maniera in cui le sue labbra sapevano incresparsi in un sorriso malizioso e fasullo; le reazioni infantili ed eclatanti, esplose come quello sprazzo di sole in un ambiente chiuso.
Hajime portò le mani a coprirsi il viso ed esalò sui palmi aperti. Nella mente, sulla carne, serbava ancora il momento in cui aveva costretto Oikawa in un angolo e lo aveva baciato senza pensare alle conseguenze. Si accasciò a terra e mandò la testa indietro; in alto, i tendaggi di velluto rosso cadevano dritti: spiovevano com'era d'obbligo per le sue spalle durante un concerto; immerse nel silenzio si donavano ai primi scrosci di applausi e poi tornavano alla discrezione dell'artista, raccogliendosi fin nelle ossa e preparandosi al momento d'oro della cassa toracica.

Oikawa era il sole nelle diverse stagioni: sapeva essere molesto e sfuggente, come i raggi di marzo; capace di ripicche come i fasci insolenti di agosto, con la loro insopportabile invadenza; brillava tiepido e assorto in ottobre... e diventava distante, assorbito dal lavoro duro degli esercizi pratici in inverno.

Hajime guardò il palco al suo fianco e deviò sulla predella in fondo all'aula. In quello spazio che lo serrava e riusciva a schiacciarlo, svelando i suoi punti vulnerabili, c'era Tooru. Giurava di avvertire il deodorante che utilizzava abitualmente; di inspirare l'odore muschiato ai primi cenni di sudore sulla fronte; e di assistere a quegli archi descritti dalle sue braccia, quando guidava l'orchestra e le dita curvate nel pugno chiudevano la melodia, spezzando tutte le voci strumentali. Aveva senso del controllo, dei tempi e dei talenti sotto la sua ala; pure, si disse Hajime, mancava di giudizio in tanti aspetti, come nel risparmiarsi, nel badare alla sua salute. E non era semplice, per chi restava a guardare come lui, arrivare a un compromesso con l'ossessione di perfezionismo di Tooru. Non era facile restare un passo indietro, vegliarlo senza desiderare di afferrarlo e trattenerlo.
Congiunse le mani sulle gambe e schioccò la lingua: dal petto gli risalirono più insulti diretti al grande assente. L'idea che lo avrebbe affrontato con un'espressione ebete e qualche battutina, lo infervorò all'istante.
Si alzò di scatto, imprimendo più forza del dovuto allo slancio e ritrovandosi ad abbracciare una fila di leggii.



Tobio affondò le dita nei tasti. Primo errore: mai imprimere la stessa forza nelle braccia; era un passo falso da lasciare ai dilettanti. Serrò i denti e indurì lo sguardo per acquisire la concentrazione necessaria e scivolare fra una battuta e l'altra. Seconda imprecisione: la tensione muscolare e la rigidità della postura. Ammorbidì i polsi e scorse prima i denti del pianoforte, poi lo spartito. L'orologio a cucù segnò la sesta ora di pratica giornaliera. Diciassette rintocchi.
Gli occhi guizzarono verso la finestra e ammirarono la traccia aranciata che sfumava nel cielo, finché non ebbe la sgradevole sensazione di pensare a una pel di carota. Dopo qualche minuto di torpore, Tobio sobbalzò e indirizzò lo sguardo alla porta della camera d'albergo: chiusa. Emise un sospiro di sollievo e passò una manica sulla fronte, udendo il fruscio della stoffa sulla frangia. Per fortuna, nessuno lo aveva colto in flagrante e poteva tornare al suo allenamento. Sperava soltanto che quella stupida stesse seguendo le sue direttive: avrebbe voluto alzarsi e telefonarle, ma il pensiero di sentire quel tono credulone e infantile lo immobilizzò sulla seduta. Allungò le gambe e le suole delle scarpe aderirono sui pedali del pianoforte.

Inspirò e visualizzò il primo movimento e la tenacia della narrazione: un fauno conosceva la furia del temporale al tradimento della sua amata. Il labbro inferiore fremeva, anticipando la solennità della melodia; le dita misurarono con scioltezza i secondi che le separavano dai suoni, dai minuscoli zampilli di pioggia ai rombi dei tuoni. Tobio si circondò di un'attesa carica di aspettative e la porta sbatté di colpo.
Restò rattrappito: una mummia con le mani in alto. Le tempie gli pulsarono come per scoppiare e lo sguardo lanciò fulmini in direzione della ragazza che saltellava a gambe larghe. Dapprima Tobio seguì stizzito i balzi da cavalletta impazzita; in seguito le sue guance s'imporporarono e una linea scura gli appesantì le occhiaie e la fronte.
— Hinata... vuoi morire?
Allungò le braccia, ma la ragazza, incurante delle reazioni del compagno, seguitò ad ammirare un angolo e anche l'altro, sgusciando come un'anguilla. All'elevazione da molla compressa e rilasciata d'un tratto, accompagnava dei gridolini euforici: "Din don dan", "Bravo, bravo, bravo", "Si si do re re do si la sol...", tutti rivolti a mobili e quadri di lusso.
Tobio arrotolò una rivista di settore e percosse la nuca di Hinata fino ad arrossarla, un ghigno sadico dipinto sulle labbra. La ragazza, di rimando, sgattaiolò in un angolo, le lunghe trecce crespe e le braccia alzate a mo' di difesa; chiamò una tregua incrociandole a ics.
— S-sono venuta per esercitarmi con te!
La fissò: gli occhi scuri indugiarono nei suoi e restarono a scrutare la fiamma che ardeva in entrambi e si rifletteva con la stessa determinazione. Da quando Hinata si era dichiarata, con quella sua delicatezza da tifone, che sconvolgeva, metteva a soqquadro e piantava guai in ogni angolo di pace, Tobio aveva percepito sudore e tremiti sulla punta delle dita. L'impazienza era diventata prepotente e il bacio che le aveva dato, toccandola appena, era stato sufficiente a negargli il sonno.
Le sue maniere dispotiche non avevano subito miglioramenti e neanche l'egoismo che lo plasmava era mutato.

Hinata gli rubò la rivista e la portò alla bocca, utilizzandola come megafono.
— Kageyama, suona per me!
La incenerì con una sola occhiata e tornò a sedere. Hinata sorrise di nascosto, una mano portata alle labbra e gli occhi raggianti di vittoria. La serata sarebbe stata lunga, si disse Tobio.
Sul tavolo, la copertina della rivista immortalava Oikawa Tooru e il suo premio, la cui targa recitava: chief conductor.



Conosceva i propri limiti di musicista. Secondo lui esistevano tre gradi in cui classificarsi: ai margini, sui marciapiedi, c'erano le persone prive di talento. Avrebbero faticato a trovare un impiego con tanta concorrenza e probabilmente avrebbero ripiegato su piccoli eventi per conto di agenzie funebri e matrimoniali. La recessione non prometteva di più. Davvero allettante, confessò Hajime a se stesso e calciò un sasso contro la fiancata di un'automobile.
C'erano gli intrepidi, nel mezzo: quei concertisti senza genio e maniaci della pratica. Tipi come Oikawa; evitò di dirselo, ma il cuore gli suggerì proprio lui. Infine, c'erano i prodigi. Le spalle di Ushijima gli offuscarono la visuale e annebbiarono il suo orizzonte al solo figurarsi il suo nome. Si trattava di un individuo con un orecchio interiore allenato, forse restio ad aprirsi al pubblico e per questo antiquato. Hajime, che aveva sempre guardato con pragmatismo alle proprie pecche, senza poltrire per questo, guardò il divario che si era creato fra lui e Oikawa. Forse era stato proprio quel bacio a separarli, ma vide le loro differenze galleggiare nel letto del fiume. Erano cresciuti e gli eventi avevano preso una piega imprevista. Pensò a sua madre, tornata curva come una vecchina alla morte di Hisashi e al contrappasso che la perdita aveva causato a tutti loro.
Le acque sorrisero ai suoi piedi.



Takeru sporse il viso e indagò coi suoi piccoli occhi prima verso un lato della strada e poi nella direzione opposta. Portò le mani dietro la nuca, con il suo zainetto pieno di cianfrusaglie per il piano di fuga perfetto: trovare il papà. Aveva un po' di fifa, in verità; sapeva che non era una bella cosa far soffrire la mamma né agire di nascosto... ma non conosceva altri modi per raggiungerlo senza che la mamma lo mettesse in punizione. E poi, Yusuke, Genta e Manoru parlavano sempre dei loro padri e abbassavano la voce, quando lui tentava di aggiungersi alla discussione.
"La mia mamma dice che tu non hai un papà e che le donne non possono avere bambini senza marito".

Per tutta risposta, Takeru aveva infilato un dito nel naso e si era pulito sulla maglietta di Genta. Sapeva bene che non avrebbe dovuto agire così, tuttavia nessuno poteva parlare male della mamma. Nemmeno Genta, il suo compagno di giochi preferito. A insegnargli come lottare era stato Tooru, suo zio, che aveva una gran paura della mamma, ma gli raccontava tante cose utili, a condizione di non svelarle alle bambine. Anche il "tiro della caccola" era un'invenzione di zio Tooru; di fronte alla bella maestra aveva negato le sue responsabilità e dato la colpa alla fantasia di Takeru. Non è stato per niente figo, gli aveva detto lui, pestandogli un piede. Lo zio era caduto e si era messo a piangere e agitare la gamba tanto a lungo che, dopo un po' di chiacchierate con i Super Sentai alla TV, Takeru aveva deciso di non usare altre mosse di arti marziali contro di lui. Doveva avere un piede di ferro per ridurre Tooru così!

La strada era dritta e continuava senza che passassero tante vetture. Ai lati delle corsie si alzava qualche albero di cedro e penzolavano foglie e odore di mirin. Quel silenzio gli spiegò la sua solitudine e gli ricordò com'era trovarsi in casa senza la mamma ad accudirlo. A volte lo zio suonava ancora il piano per lui e poi chiedeva scusa, quando le braccia tornavano a bruciargli. Takeru non capiva come facesse la carne a bruciare senza fiamme. Erano discorsi strani, da adulti e vecchi; e con questa scusa poteva chiamare lo zio nei modi più strani che conosceva.
Teneva gli spallacci alla stessa altezza e camminava a un lato del marciapiede. A ogni passo ricordava tante cose che amava della mamma: i suoi udon; le carezze della buonanotte, che sapevano di cioccolata e carne grigliata e terminavano sempre in uno spuntino della mezzanotte, perché lo stomaco gorgogliava tanto da disturbare il riposo della nonna; il modo in cui gli puliva il viso ogni volta che si sporcava; e la sua voce stonata quando cantava ninnananne. Le prime lacrime gli annebbiarono la vista e tracciarono nel paesaggio bolle d'acqua, che sfocarono la città e le poche toyota parcheggiate nei box privati. Pensò alla mamma, allo zio e ai nonni che gli volevano bene e si sentì in colpa, perché c'erano dei momenti in cui non gli bastava quel bene.
Tornò sui suoi passi, ma a metà strada non trovò la nissan nera a cui aveva fatto riferimento all'andata.

Aspettò, finché non vide un signore vestito come i boss della yakuza e si appese al suo braccio, nonostante avesse paura dello sconosciuto, che lo guardò con occhi torvi e segnati dall'insonnia.
Il gigante si abbassò e si mise ad ascoltare la storia di Takeru, mantenendo la sua aria minacciosa; lo prese in braccio al termine del racconto e camminò in direzione del ristorante.

Quando Maho udì Ushijima dire: — Vuole conoscere suo padre, — credette di svenire. Lasciò al muro mocio e secchio e si afflosciò sulla sedia zoppa.
— Penso sia grande a sufficienza, — aggiunse, mentre carezzava il capo rasato di Takeru, — non potrei fargli da genitore, se non gli dicessi la verità.
Aveva ancora quella voce vecchia, impostata, tipica dei grandi discorsi.
— Ho intenzione di chiedere la tua mano, seguendo la tradizione.
Si chinò, sostenendo Takeru sulle braccia, che lasciava un rivolino di saliva sopra l'abito buono. Le sfiorò le labbra in un soffio: le morse e avvertì il calore del respiro di lei diventare anche suo.



Aveva esagerato. All'ennesimo verso strozzato e fuori tempo, Tobio aveva sollevato le dita dal piano e percorso avanti e indietro la stanza d'albergo che gli era stata assegnata. Hinata provava a scusarsi, sempre più piccola, poco in vena di saltare.
— Kage...yama... fammi riprovare.
— L'audizione è domani! Hai ascoltato il brano per un intero mese. Cosa ti riesce difficile nel memorizzare i passaggi?
La scuoteva come un fuscello, indeciso se appenderla al muro o buttarla nell'acquario con i piranha.
— Beh, veramente... t-tutto?
Tobio cominciò ad abbattere il muro con la sola forza delle proprie testate. Dimenticava che la sua ragazza-cantante-piantagrane non fosse esattamente un modello accademico su cui contare. Hinata era dotata di una voce dalla straordinaria coloratura, ma era negata nella lettura degli spartiti.
Voleva passare al turno finale. Era riuscito a complimentare le mancanze tecniche di Hinata, ma non poteva sperare di guadagnare il primo posto con lei al fianco. Strinse il pugno e fu travolto dalla propria ambizione.

Hinata lo fissava assente, con uno sguardo inquietante e ottenebrato dalla medesima aspirazione. A differenza di Tobio non aveva ancora i mezzi per competere e affermarsi, ma la fede incrollabile e testarda nelle proprie capacità creava un magnetismo speciale attorno a lei.
Hinata gli era stata necessaria e indispensabile per superare l'ansia da prestazione che lo aveva colto negli ultimi mesi; era riuscito a sbloccarsi, stringendo quegli stupidi pupazzi antistress a forma di cuore, che lei gli regalava prima di ciascuna esibizione. Il suo sogno, tuttavia, non poteva scendere di priorità rispetto alla loro relazione.

Lo schiaffo che gli diede risuonò sulla pelle, riempì l'orecchio di un lungo fischio e gli impedì di tirar fuori le parole. Neanche udì la porta chiudersi dietro di lei.
Il silenzio gli cadde addosso: vibrò un colpo finché nel buio Tobio non ravvisò che mani rivali e volti di giudici. Era tornato al suo primo fallimento: un'audizione durante la quale le sue mani erano rimaste ferme sulle cosce.



Si isolò dal mondo: le cuffie calzarono come una seconda pelle e lo immersero in una fuga. Le labbra si curvarono all'insù e Tooru adeguò il battito del cuore ai suoni, socchiudendo le palpebre. Le ciglia tremarono, come per dissolvere il sogno in cui era piombato. Le braccia si mossero da sole e la bacchetta non era più necessaria. Guidava la sua orchestra ed era lui ad aprire bocca ai vari strumenti: un regista che stabiliva l'armonia. C'era un volto, uno soltanto, che spuntava su tutti gli altri. Il labiale ne seguì ogni lettera: Hajime.
Rotolò su un fianco e rise fino alle lacrime. Aveva aspettato disperatamente di capire se lo amasse, se fosse prigioniero di un fantasma. Eppure sapeva già di riuscire a individuarlo nella folla, di conoscere quei due ciuffi sparati in alto, a differenza del gemello. Sapeva di udire la voce di Hajime arrochirsi, dopo una giornata trascorsa ad ascoltare i suoi insulti, per poi rubargli il naso, così come si fa con un neonato. Tooru sentiva anche la sua voce intima, quella sensuale e più dolce della tromba. Hajime colmava la musica di improvvisazioni squillanti e baldanzose; altre strisciavano fuori imbarazzate, mentre le guance erano tanto calde da andargli a fuoco. Nascosta dentro Hajime c'era un'anima romantica, come lo strumento che suonava.
— Iwa-chan~!
Si appigliò al suo collo e succhiò la pelle. Il tepore era identico a quello che aveva trattenuto qualche giorno prima. Non sentendo risposta, piantò i piedi a terra, a peso morto, e si lasciò trascinare.
— Iwa-chan vuole un altro bacino, ma non osa chiederlo! Ti-mi-do-ne~...
Tooru sgualcì l'uniforme, trattenendo spasmodicamente le dita sulla stoffa. Per nulla scoraggiato, tirò fuori la punta della lingua e si lasciò andare a una lappata sul collo di Hajime.
Stavolta udì un borbottio stizzito e lo vide cacciare le mani in tasca, il naso arricciato e gli occhi un po' più lucidi.
Tooru gli diede un pizzicotto sulle natiche e Hajime lo tirò via. Urtarono contro un armadietto e l'eco della latta non sovrastò i gemiti del loro bacio.



Aveva conosciuto il fallimento. Di fronte al pubblico si era impietrito di nuovo. Il vuoto e l'insonnia non gli avevano giovato: sedeva guardando il piano, muto come lui.
Fu come morire e rinascere nel silenzio per la seconda volta. E dopo venne il pianto: singhiozzi liberatori, l'affermazione della vita, proprio come un nascituro di fronte alla luce.
Hinata era in sala. Tratteneva i pugni sul suo abito bianco e tirava su col naso, per l'orrore dei borghesi al suo fianco, gli occhi gonfi e le lacrime che si confondevano con il moccolo fino a ciondolarle sulla bocca.

All'interno del vagone metro, Tobio sedette e si tenne alle estremità del sedile, due dita dallo schienale, in perenne sfida col mondo, come quando si trovava su un palco, incapace di abbandonarsi realmente. Hinata era accanto a lui, le gambe incrociate e un ginocchio piantato nella coscia del compagno: ossuta, come suo solito, e stramba nella maniera più innocente.

Tobio rabbrividì nell'osservare la sua postura da selvaggia e nel paragonarla alle altre studentesse presenti a bordo. Posò la fronte sul palmo aperto e trasse un profondo respiro, con le rughe che gli pasticciavano la pelle d'indignazione e scoramento.
— Hai di nuovo la faccia da yamabiki!
— Guarda la tua! — la rimbrottò, ma intanto cercò di distendere il viso in un'espressione serena. Salutò due bimbi col risultato di farli gridare e scoppiare in lacrime per tutto il tragitto.
Era ancora il Re Egoista, il principe viziato e incapace di comunicare, che si accaniva sui tasti e ne comprendeva gli intimi segreti, ma non sapeva condividerli. Si tenne il polso e indugiò sulle proprie scarpe. Hinata non parlava più e lui, a disagio, passò una mano dietro la nuca, le spalle nervose e appuntite. Lasciò andare la mano e afferrò quella di lei, aderendo alle dita con una presa salda.
Hinata non disse nulla e rimase in un silenzio anormale. Solo allora Tobio riuscì a incrociarne lo sguardo; non fu abbastanza lesto, perché le labbra di Hinata si fissarono sulle sue in un bacio.

Un sole danzante apriva l'autunno di Tokyo.

  
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