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Autore: Roxar    23/11/2015    2 recensioni
In alto, molto più in alto, un paio d'occhi brillano, fanno il paio con un sorriso bianco e appena cauto che pensavi il tempo e il rancore ti avessero strappato di dosso e invece è ancora lì, perfetto come lo ricordi.
«Ciao, Sirius».

Il Velo, dopotutto, non è stato che il principio di ogni cosa.
[brotherhood!Sirius/Regulus | Reunion]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Crew&Ship: Sirius Black, Regulus Black | Black!brotherhood
Warnings: Reunion, Post mortem
Dove la Rana dice cose: erano probabilmente secoli che volevo scrivere questa reunion. Ne sentivo un bisogno quasi fisico. E nonostante gli impegni universitari - che ho deplorevolmente trascurato per mettere nero su bianco questa storia - ho sentito che era il momento di farlo. Anche perché a volte questi due mi mancano come se fossero concreti; mi manca scriverci su, o anche solo parlarne.
Ma l'unica vera nota importante, in mezzo a tutte queste considerazioni di dubbia utilità, è che quanto segue è, in un certo senso, il sequel di un'altra mia fanfiction, Il primo della stirpe; ovviamente il senso generale di questa storia è chiaro e non c'è bisogno che voi conosciate/andiate a leggervi anche l'altra, ma ci sono alcuni dettagli, alcune parti che si ricollegano direttamente a Il primo della stirpe. In ogni caso, comunque, siamo in un Paese libero, perciò sentitevi liberi di fare come più vi va XDD
Ultimo: il titolo è lo stesso del capitolo in cui Sirius muore e questa storia ne rappresenta l'ipotetico - molto ipotetico - spin-off.
La vostra amichevole Rana di quartiere.

 

___

 

A Silvia
(no, tesoro, non ti aspettare niente che sia al livello di Leopardi XD)
che è stata la mia personalissima iniziatrice
a questa coppia e che per questo devo ringraziarla
proprio tanto. <3

 

____

 

 

Il Velo non è che il principio di ogni cosa.

Non puoi ancora saperlo, ovviamente, perché il principio verrà solo alla fine e perché c'è stata come un'esplosione che ti ha scaraventato due vite lontano dal Ministero, gettandoti alla fine su qualcosa di morbido e vagamente pungente che solletica le zone che i tuoi vestiti non riescono a coprire: le caviglie, le mani, la nuca, un lembo di schiena. Segue un momento di apnea dove il respiro resta incagliato da qualche parte, e tutto è fermo, sospeso, in bilico. Ma poi ogni cosa torna al suo posto, il sangue ricomincia a fluirti nelle vene e il cuore a vibrare in petto, e infine riapri gli occhi su un cielo azzurro come il disegno di un bambino. Da qualche parte c'è il sole; lo senti nell'aria, con quel suo odore di polvere e di caldo, ma non riesci a vederlo – qualcosa lo trattiene, lo occulta, te lo nega. Per ultimo arriva lo scialacquio maldestro di qualcosa che cerca di muoversi in acqua; solletica una corda della tua memoria – e del tuo cuore – ma ancor prima di poterti concentrare su quell'informazione perduta una mano tesa e una sagoma buia e imponente ti tolgono la luce di dosso, proiettando su di te un'ombra densa. In alto, molto più in alto, un paio d'occhi brillano, fanno il paio con un sorriso bianco e appena cauto che pensavi il tempo e il rancore ti avessero strappato di dosso e invece è ancora lì, perfetto come lo ricordavi.

«Ciao, Sirius».

Il ricordo si incrina, si riempie di condensa, come se quella voce sconosciuta vi avesse soffiato sopra, confondendolo. Perché non conosci quella tonalità, non hai mai imparato a farlo – ti sei negato l'occasione. Ma conosci chi ancora ti tende la mano, chi la agita appena per invitarti a prenderla. E tu, che mai nella vita ti sei piegato all'invito di chicchessia, l'accetti. Chiudi le dita sulle sue e stringi la mano di quello che, alla fine dei conti, è un estraneo.

Ma che, alla fine dei conti, è pur sempre Regulus. Tuo fratello Regulus.

Con la forza di un adulto – che ancora una volta stride con il ricordo di bambino ch conservi di lui – ti tira in piedi, sulle gambe, e finalmente riconosci il luogo. I cappelli aguzzi di decine di torrette che ti negano il sole non possono che essere quelli di Hogwarts. E lo scialacquio maldestro non è che quello della piovra gigante, la cui testa affiora dal pelo dell'acqua.

Regulus intuisce la tua incertezza e abbozza un sorriso.

«Non mi aspettavo niente di diverso; questa, dopotutto, è casa tua».

Lo guardi.

Alla luce del giorno, sotto questo cielo terso, non potrebbe essere più diverso dal ragazzino che ricordi, quello dalle spalle ingobbite dal peso di un rancore che non gli apparteneva e dagli occhi grigi come i tuoi, ma opachi, abbacchiati, sempre socchiusi quando le urla gli sciamavano intorno, colpendolo infine dritto al cuore. Questo Regulus è l'adulto che ti sei negato, il bambino che è cresciuto nella penombra di Grimmauld Place, come una pianta malaticcia in un ambiente malsano.

Questo Regulus è il fratello che è morto sotto la bacchetta di Voldemort e per il quale non hai osato piangere – Azkaban ti era già penetrato troppo dentro, anchilosandoti il cuore.

Però ti assomiglia. Non dimostra più di vent'anni e ti assomiglia in una maniera che t'impressiona e ti sconcerta, lo specchio del ventenne che sei stato. Abbozzi un sorriso e una domanda sboccia sulle tue labbra, solo per appassire l'attimo dopo.

Perché – non l'hai appena pensato? – Regulus è morto. E se la sua presenza è così fisica e concreta, allora questo non può che voler dire che anche tu sei morto. In qualche modo, da qualche parte, sei morto. Una risata fredda e acuta veleggia piano verso di te e il viso di tua cugina Bellatrix ti si stampa nelle retine, facendo il paio con l'incantesimo che non ti ha ucciso, no, ma ha fatto di peggio: ti ha spinto oltre il Velo, oltre il cuore frusciante e sussurrante della Camera della Morte.

«Sono morto».

Regulus annuisce e il suo sorriso si allenta un po', incupito dal dispiacere.

«Perché siamo a Hogwarts?»

«Ah» sospira Regulus, battendoti una pacca leggera sulla schiena per spronarti a camminare, a passeggiare, a calpestare quell'erba che i tuoi passi hanno mandato a memoria una vita fa. «Dicono che la morte porta la pace. Questa, evidentemente, è la tua» e allarga le braccia, osando perfino una mezza, lenta piroetta, senza mai smettere di camminarti accanto, come se temesse di perderti ancora. O forse sei tu a camminargli accanto come se temessi di perderlo ancora.

«E adesso?» chiedi, impaziente come sempre di sapere cosa viene dopo. Ma tuo fratello sorride, scuote un po' la testa in quel modo che ti ricorda un po' il giovane Remus della tua adolescenza (al pensiero, una vertigine dolente ti si spalanca nella pancia, perché tu sei qui e Remus è rimasto oltre il Velo e questa solitudine che ti scava nella pancia deve somigliare un po' alla sua) e indica un punto lontano, proprio davanti al portone sprangato. C'è qualcuno sugli scalini, qualcuno che ti aspetta quietamente e qualcun altro che invece agita un braccio e c'è qualcosa, in quella sagoma, qualcosa che ti fa venire una gran voglia di piangere, una gran voglia di ridere. Una gran voglia di vivere.

«Aspetta» ti prega Regulus, stringendoti per un gomito. I suoi occhi ti stanno dicendo che ci sarà tempo per quello e per tutto il resto, ma che, al contrario, non ne resta troppo per colmare tutti gli anni che vi separano; non basterà, sai che non basterà neppure una vita per recuperare quello che vi siete negati, quello che tu gli hai negato voltandogli le spalle, quello che lui ti ha negato facendosi marchiare. Perciò, quietamente, ti lasci condurre sulla sponda del lago. Camminandogli appena un passo indietro, come per proteggerlo, prendi nuovamente atto di questo giovane uomo che non conosci, di come tutto ti sia estraneo in lui: il suo incedere, le sue movenze, perfino e banalmente i vestiti che indossa – gli ultimi. C'è però una sorta di serenità che ha sostituito il tormento che lo ha appannato per tutta la vita, come se veramente la morte gli avesse portato la pace. Non c'è più dolore nei suoi occhi, né rancore o disperazione; questo che ti scocca da sopra la spalla, un po' in tralice, con i capelli che il vento gli soffia sulle guance, è lo sguardo di una persona che ha finalmente esorcizzato i propri demoni.

Questo è il fratello che meritavi; lo stesso che tua madre, con il suo odio e la sua follia, ha tenuto fuori dalla tua portata.

Si ferma proprio sul delimitare della sponda, con la punta della scarpa pericolosamente in bilico sul pelo dell'acqua, in un punto che, se foste ancora bambini, ti strapperebbe un moto di apprensione e ti riempirebbe la mano dell'urgenza di tirarlo via da lì – proteggerlo. Infila le mani nelle tasche dei pantaloni e un po' di vento gli smuove i capelli, i lembi della camicia che scodinzolano dietro la sua schiena, quasi sfiorandoti. Ti guardi la mano e pensi all'ultima volta che gliel'hai offerta, ai piedi di quella scala che vi ha separati e mai più riuniti, sì, gliel'hai offerta e hai pregato che l'afferrasse, che si mettesse dietro alle spalle tutte le aspettative che i vostri genitori avevano nutrito nei suoi confronti, ma Regulus è rimasto fedele al sangue, sacrificando l'affetto.

Ti guardi la mano e la senti colmarsi del desiderio di posarsi sulla sua spalla, chiuderla sulla sua carne e non lasciarlo mai più andare, perché solo in questo modo tua madre avrà definitivamente perso – perché Regulus è qui con te, e non altrove con lei. Perché solo in questo modo ritroverai il ragazzino piccolo e buono che a fatica sapeva pronunciare il tuo nome, ma che ci provava comunque perché l'idea di restare lontano da te lo terrorizzava.

Le dita stanno quasi per posarsi sul tessuto morbido della sua camicia, ma poi Regulus parla e la sua voce è come una fiammata che ti strina la pelle, spingendoti a ritrarre la mano al petto.

«Ho fatto un sacco di errori, Sirius, così tanti nei tuoi confronti che... Io, vedi, potrei dare la colpa di tutto a nostra madre – forse non a torto – ma la verità è che quando te ne sei andato, non avevo più motivi per mostrare quel poco di resistenza e coraggio di cui la tua presenza mi faceva forte. Io penso di averti odiato, Sirius» e si volta, guardandoti dritto in faccia, a viso aperto e mento alto, come mai ha osato fare dall'altra parte del Velo. C'è però un sorriso autentico, come lo spettro di un ricordo una volta velenoso ma che il tempo ha mitigato, rendendolo adesso perfino dolce.

«Penso di aver odiato la tua assenza, soprattutto, e il fatto che James Potter mi avesse spinto fuori dal tuo cuore per prendere il mio posto. Naturalmente, nostra madre non ha perso tempo a sfruttare la cosa a suo vantaggio. L'anno dopo era già un Mangiamorte» e si sfrega l'avambraccio nudo, libero del Marchio Nero – un atto di bontà della morte, pensi.

Sei tentato di interromperlo e scagliargli addosso tutte quelle domande che si sono accumulate nel corso degli anni e del dolore e della lontananza, quelle che a volte ti hanno tenuto sveglio, o quelle che a volte ti hanno fatto piangere nell'intimità di una doccia che, per quanto bollente, proprio non riusciva a scaldarti, ma qualcosa nella rigidità delle sue spalle o nel profilo del suo mento ti trattiene.

«Ho fatto cose orribili, Sirius, in nome di qualcuno in cui non credevo nemmeno. Ciononostante, le ho fatte. Finché...»

E quello che ti racconta ti strappa brividi di disgusto e rammarico. Ti spiega di quella volta che Voldemort aveva voluto Kreacher al suo servizio, di quello che era stato costretto a fare, di come gli ci fossero volute settimane e visite in posti infinitamente deplorevoli per scoprire il suo più grande e terribile segreto. Di come avesse definitivamente prestato ascolto a quei dubbi e a quei rimorsi che lo pungolavano sin dalla marchiatura, di come si fosse reso conto troppo tardi della selvaggia brama di potere che animava il suo signore, di come avesse deciso di intervenire.

Sei attonito, sgomento, e non riesci a togliergli gli occhi di dosso; sei ipnotizzato dal suo racconto, ma senti la spina dorsale vibrare quando percepisci quello che viene dopo, l'ultimo tassello di un quadro che non hai mai potuto completare se non con vaghe supposizioni e ancor più vaghe incertezze.

Ti racconta di come avesse avuto intenzione di sostituire il medaglione e distruggerlo per distruggere Voldemort.

«Ero convinto che, privato della sua più grande garanzia di vita eterna, l'avrei indebolita al punto da poterlo sconfiggere, uccidere. Volevo dimostrarti che alla fine avevo trovato la mia strada, Sirius, che ero degno di te. Niente, però, è andato come avevo pianificato».

E ti racconta degli inferi, delle loro mani bianche e scarnificate che erano affiorate dall'acqua per prenderlo, per sommarlo al loro esercito dormiente e infernale, di come avesse urlato a Kreacher di portare a termine il suo compito mentre i corpi lo trascinavano giù, di come la bocca gli si era riempita di acqua ghiacciata che si era portata via metà delle sue parole, tre quarti delle sue speranze e tutta la sua vita.

Senti un po' di quella stessa acqua scialacquarti nel fondo della gola e cerchi di mandarla giù prima che possa soffocarti, ma è solo un'illusione e il sole che ti riscalda i capelli e che fa brillare gli occhi di Regulus ti aiuta ad uscire da quell'apnea.

«Anche se è andato tutto per il verso sbagliato, io devo ringraziarti. Sei stato la mia seconda possibilità. Se quel giorno, ai piedi delle scale, non mi avessi guardato in quel modo così... spento, forse adesso sarei dall'altra parte e dalla parte sbagliata».

Lo abbracci.

Non puoi farne a meno, non potete farne a meno.

Non sta più bene tra le tue braccia come quando era bambino; adesso scivola da tutte le parti, le braccia e le spalle non si incastrano più bene come una volta; vi limitate a cozzare, senza combaciare. Però forse è giusto così; quello che vi è successo, i segni che vi sono rimasti addosso non potete cancellarli come con un colpo di spugna – come con uno schizzo d'acqua o col fruscio di un incantesimo.

Quando si separa e fa un passo indietro, sai che non sarà per sempre, sai adesso che il Velo è stato il principio di ogni cosa. Ti spiega che deve andarsene, che deve tornare nel luogo a cui apparterrà finché qualcuno non lo libererà delle catene che lo trattengono. Finché qualcuno non ucciderà definitivamente Voldemort.

Si allontana senza dirti una parola, e guardi la sua schiena rimpicciolire, ridimensionarsi e adesso sai cosa deve aver provato in cima a quella scala, mentre ti guardava andare via. Lui, però, si volta. Così lontano e piccolo, è fin troppo facile confonderlo con il bambino che hai protetto fino a che hai potuto. Perfino il suo sorriso incerto e gli occhi un po' socchiusi ti sembrano gli stessi. Il braccio quasi nudo si leva in un ultimo saluto e la pelle pulita e priva del marchio, adesso lo capisci, non è un atto di bontà della morte: è l'ultimo atto di coraggio di tuo fratello.

C'è una mano posata sulla tua spalla.

Un ventunenne James ti sorride in quel modo morbido e trattenuto che tanto ti sorprendeva, che tanto stonava con quello che era. Stringe forte, come se con quella sola mano volesse sorreggere tutto il peso del tuo essere, delle tue preoccupazioni e del tuo dolore.

E ce n'è un altra che si chiude sulla piega del tuo gomito, più piccola e aggraziata, dalle unghie corte e mangiucchiate – Lily non ha mai davvero perso quel vizio. Anche lei ti sorride incoraggiante, carezzandoti con l'altro palmo la parte superiore del braccio.

Quando torni a guardare davanti a te, Regulus non c'è già più.

 

 

 

«Una nuova e devastatrice utopia della vita,
dove nessuno possa decidere per gli altri persino il modo di morire,
dove sia davvero vero l'amore e sia possibile la felicità,
e dove le stirpi condannate a cent'anni di solitudine abbiano
alla fine e per sempre una seconda opportunità sulla terra.»

(Gabriel Garcia Marquez, discorso per il Premio Nobel)

   
 
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