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Autore: Daleko    24/11/2015    2 recensioni
"Sono patetico? Non lo so, non riesco a peccare di superbia e mi rendo conto di scimmiottare, anche in modo piuttosto lezioso, grandi del passato che posso realmente incontrare solo nel mondo orinico quando la fantasia me lo permette."
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'Diari'
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Dannazione, dannazione eterna su queste parole!

Lacrimosa, Mozart.
Uno sbuffo di pipa, un bicchiere di scotch e il cielo oscuro davanti a me: quanto tempo è che cerco di riportare la mia mente a quel giorno, a quella sera senza ottenere alcun risultato? Buio, mistero, un dolore lancinante: un "perdonatemi" bofonchiato a mezza voce, poi più nulla. Da qualche parte ho rigettato quella cena avvelenata d'inganni, l'ultimo boccone ancora stretto in gola; ricordo d'aver tossito e urlato e tossito e urlato ancora fino a sentire i polmoni mescersi con lo stomaco ardente, la gola lacerata dagli ululati che forse, in preda alla follia, ho emesso con furia.
Silenzio.
Non sentivo, non avvertivo più nulla; un vago fischio crescente mi trapassava le tempie e gl'occhi con dolore, ma null'altro. Ho pensato buffamente e in maniera alquanto alienata che se fosse stato un film, sarebbe piovuto; la sera invece restò tersa e limpida, come uno schiaffo in pieno volto a significare: "vedi? Tutto ciò è reale".



Longilinea, quasi alta mentre le gambe, frenetiche, s'alternavano in una corsa convulsa. I veli dell'abito mostravano tratti di coscia senza pudore, senza alcun pudore!; la magrezza s'alternava tra le ossa e le nervature tutte in un gioco d'ombre in grado d'ammaliare. Ma cos'è che vedo, cos'è che vedo? Una scia di lucido castagno che dondola con agitazione dietro al corpicino, sbattendo con scarsa violenza sulle spalle della ninfetta danzante, un paio d'occhi brillanti e lucidi aperti su di me. Raggelo sul posto, pulendomi le labbra con una manica della camicia sartoriale resa un irriconoscibile cencio. "Aspetta, aspetta!" mi urla. "Federico", e poi: "John, John, aspetta!". Mi strazia il candore che avverto nella sua voce; il mio sguardo si posa con orrore sulle sue gambe lisce da bambina. Rallenta il suo instabile trotto a due passi, un passo da me. M'è così vicina che non posso più respirare, cado a suolo: sono in ginocchio davanti alla mia ninfa, al suo odore, al suo sguardo che non è severo e anzi, ecco la pioggia attesa: piange sulle gote candide che non posso più baciare.
"Mi dispiace per quella bugia, Federico. Scusami!" esclama tra le lacrime e le sue braccia mi circondano il collo. Sento il peso del suo capo sulla mia spalla, il suo respiro sulla mia guancia: ho bisogno di un momento per comprendere cos'è il dolore al petto che non mi permette di ragionare. Il forsennato galoppìo del mio cuore mi stordisce; volto il capo verso di lei e ritrovo quelle labbra proibite a pochi centimetri dalle mie. Ch'io sia Dannato! L'ho baciata di nuovo. Ma l'ho fatto davvero, o forse ho immaginato tra le febbri del dolore anche il solo averla incontrata? No, no: l'ho presa tra le mie braccia ed ho cercato di nuovo il suo sapore, e ancora, e ancora: la sua ruvida lingua sulla mia, le sue labbra morbide schiuse sulle mie. Ma si può, si può davvero scavare sotto il vestito di una bambina, cercare le sue gambe fredde e stringerle con forza, con più forza fino a sentir male alla mano, senza che lei si dolga, senza che lei pianga per altro che non sia il tuo soffrire? Irrigidisco, lo so, lo avverto l'orrore crescente che m'immobilizza e quando comprendo, quando torno in me e vedo, sento la mia mano sfiorarle la carne proibita mi ritiro come sorpreso dal morso d'una vipera. Lei è lì, ingannatrice, con le gote rosse e la bocca libidinosa. Lei è lì, è vicina e si protende verso di me, caduto all'indietro come ferito, palmi al suolo che si spostano con terrore all'indietro e il corpo, tremante, che le segue come un granchio. "Federico..." mormora con gli occhi lucidi: non è più donna, le sue labbra fremono dal pianto e il fischio interrompe nuovamente la mia lucidità; non sento, non comprendo, non voglio farlo. Urlo, forse?; la mia ninfetta, o ciò che ne resta, piange incontrollabile e io mi muovo come un animale, con lo stesso spirito d'una bestia, fuggendo via.



L'ho sognato, forse?
Più tardi deve aver piovuto per davvero, perché la mia camicia è grondante d'acqua. Sopra c'è una macchia di ciò che fu cibo, visibile appena perché lavato dal cielo ormai terso. Ricordo per un attimo quando lo stesso cielo era in fiamme, probabilmente solo poche ore fa; non so più che ore sono o che giorno sia, ma rabbrividisco da febbricitante qual sono e m'accontento delle gocce d'acqua che ancora cadono al suolo per avere un'idea del tempo passato. Dev'essere la notte seguente alla cena nella Sua dimora, se è davvero esistita da qualche parte; non so per quanto ho vagato nella pioggia che mi ha sorpreso nella follia ma non ho ricordi del Sole, quindi il tempo non dev'essere stato clemente con me e questa terribile notte non è ancora scomparsa dalla Terra.




E adesso, Federico?
Non credo ci siano altre domande da porre. "E adesso, Federico?", immagino detto dalla sua voce e un altro conato di vomito risale con forza. "Altro scotch, Federico?" mi chiede ancora; e cos'altro posso rispondere? Qual altro modo ho per concludere queste che, in effetti, non son altro che le mie memorie?
Grazie, Marie. Volentieri.
 
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Attenzione!
Nomi, luoghi e fatti narrati sono totalmente frutto della fantasia dell'autore. Riferimenti a persone, luoghi o eventi realmente accaduti è puramente casuale.
   
 
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