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Autore: Nurelnico    26/11/2015    0 recensioni
Newton Creek, una piccola città del South Dakota, dove forse le persone sanno più di quello che vogliono dire. Mentre Ryan e Victoria cercheranno di trovare le risposte ai loro dubbi, tra bugie, rapimenti, incomprensioni e paura, la storia ruoterà intorno ad un circo abbandonato nella zona di Hampton, nella periferia della città, che forse non è poi così abbandonato come si credeva da tempo, ma è il luogo ideale per nascondere qualcosa di importante ed evitare che qualche ficcanaso vada a curiosare.
Però la curiosità è una brutta bestia, soprattutto se alimentata dalla speranza.
Dal capitolo 2 "«anzi, non è bene neanche che vi siate incrociati. Devo gestire meglio gli orari» disse sedendosi sulla poltrona come tante altre volte."
è il mio primo esperimento, quindi vorrei avere dei commenti da voi lettori su come migliorare. Spero che vi piaccia e che con il passare dei capitoli vi appassioni.
Dal capitolo 3 "Salì e partì facendo stridere gli pneumatici sull’asfalto.
-Devo assolutamente tornare a casa.-"
Genere: Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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«Stai zitta, stupida ragazzina!» sibilò la voce prima che l’eco generata dallo schiaffo riempisse la stanza.
«Puoi piangere quanto vuoi, tanto nessuno ti verrà a cercare qui.»
«Sai da quanto tempo sei qui? Sono passati quattro mesi e ventidue giorni.» la risata rauca accompagnò la constatazione, mentre il lamento della piccola Diana sembrava quello di un animale che aveva deciso di arrendersi al suo destino.
«Non sopporto il tuo continuo frignare!» questa volta lo schiaffo fu decisamente più violento, tanto da far cadere la ragazza a terra.
Lei rimase lì, con la guancia in fiamme e le lacrime agli occhi, cercando di trattenersi, sperando di non essere colpita di nuovo.
Senza questi aggiornamenti periodici avrebbe da tempo perso la cognizione del tempo. Spesso provava a tenere a mente il conto delle ore che passavano, basandosi sulle gocce che cadevano dalla tubatura del wc, ma ormai aveva capito che questo metodo l’avrebbe solo fatta impazzire prima.
Quattro mesi prima aveva urlato fino a sentire le fiamme nella gola, poi aveva provato a colpire la porta con i pugni, con le spalle, con i calci, ricavandone solo una serie di lividi e un dito rotto.
Dopo due settimane aveva capito che era tutto inutile, che nessuno la stava cercando e che non importava a nessuno che lei fosse sparita nel nulla e così aveva smesso di piangere fino ad addormentarsi e adesso sentiva di stare lentamente smettendo di vivere.
«Voglio tornare a casa.» sussurrò dopo aver sentito il suono del chiavistello.
Le aveva insegnato a stare in silenzio in sua presenza, ma a volte non ci riusciva e allora veniva colpita oppure sgridata, a seconda che fosse una giornata buona o cattiva.
Oggi era una giornata veramente pessima, perché sentì i primi bozzi doloranti che, nel giro di poco, sarebbero diventati dei lividi.
Lentamente si trascinò fino all’angolo che aveva battezzato come letto, perché nella sua prigione non c’era nulla tranne che una tazza dove poteva fare i suoi bisogni, ma che preferiva usare il meno possibile. Per il resto era una stanza in cemento abbastanza grezzo con una pesante porta di metallo come una via per tornare al mondo reale.
Un sonoro brontolio della pancia interruppe i pensieri di Diana: erano circa tre giorni che non riceveva da mangiare e di sicuro non sarebbe successo neanche in quel giorno, visto il trattamento extra ricevuto.
Si rannicchiò nel suo angolo stringendo le ginocchia al petto, mentre nuove lacrime tracciavano scie sulle sue guance sporche, mentre il suono delle gocce che colpivano il pavimento creava un eco fastidioso e monotono.
Il giorno seguente si svegliò tutta indolenzita come spesso capitava vista la mancanza di un letto vero.
Lentamente cercò di alzarsi, ma la testa prese a girarle in maniera selvaggia, obbligandola a rimanere distesa, mentre i crampi allo stomaco ricominciarono a farsi insistenti.
Diana ripensò alle parole dell’uomo: era rinchiusa in quella stanza da quasi cinque mesi e fino ad ora non aveva mai trovato una sola idea per provare a cambiare la situazione, perché era chiaro che ormai nessuno la stava più cercando, altrimenti l’avrebbero già trovata.
-A meno che non mi abbia portato in mezzo al bosco o in un’altra città- pensò sconfortata e un gemito di disperazione le sfuggì dalle labbra.
-Probabilmente morirò di fame, o peggio, ci penserà lui ad uccidermi in una delle sue brutte giornate- sentì le poche lacrime rimaste iniziare a rigarle nuovamente il viso, ma le asciugò immediatamente sentendo i passi avvicinarsi alla porta, che si aprì poco dopo seguita dal forte stridio metallico dei cilindri della serratura e dei chiavistelli.
Ricordava perfettamente il suono di ogni mandata, del fatto che spesso la terza era leggermente difettosa e ci volevano due tentativi, mentre il secondo chiavistello doveva essere uno di quelli con la catenella che si usano nelle abitazioni solo più grosso e pesante visto il suono che produceva andando a rimbalzare sulla porta.
Il familiare cigolio dei cardini leggermente usurati la costrinse a mettersi seduta, ma poggiò entrambe le mani a terra per contrastare e violente vertigini, ma vide subito che l’uomo aveva in mano il vassoio e subito percepì l’odore di minestra.
«Buongiorno.» Si limitò a dire lui, poggiando il pranzo o la cena a terra davanti alla ragazza.
C’erano due ciotole sul vassoio e una era piena di minestra di pomodoro calda, mentre l’altra conteneva del pane morbido, inoltre c’era anche una bottiglia d’acqua e delle posate.
-È una trappola.- pensò la ragazza osservando l’espressione apertamente innocua del suo carceriere, rimanendo ancora ferma al suo posto, ma lo stomaco, richiamato dall’odore della minestra, lanciò un sonoro brontolio che la fece arrossire vistosamente e stringere la pancia rapidamente.
«Mangia. Non posso lasciarti morire di fame.» disse l’uomo duramente, quasi con disprezzo, come se il doversi curare della sua sopravvivenza fosse una cosa insostenibile e disgustosa e le avvicinò il vassoio con la punta del piede.
«Vuoi forse farmi arrabbiare come ieri, stupida ragazzina?» replicò quasi urlando e avvicinandosi di un passo.
«Vuoi essere picchiata ancora? Non ti basta quello di ieri?!» le urlò quasi furioso per via della sua sostenuta immobilità.
Diana capì subito che il tono non ammetteva repliche e si avvicinò lentamente al vassoio iniziando a mangiare velocemente, mentre si preparava mentalmente a subire un altro periodo di digiuno forzato e probabilmente altre punizioni perché lo aveva fatto arrabbiare.
-Sei proprio una stupida. Fai sempre arrabbiare tutti.- disse la vocina dei suoi pensieri.
«O forse lo fai di proposito?» disse prendendola per il polso, costringendola a lasciare il cucchiaio e ad alzarsi in piedi.
«Ti piace essere picchiata? Sei una di quelle ragazzine che provano piacere dall’essere colpite?» le parlò a un soffio dal viso tanto che poteva sentire il calore del suo respiro inondarle il viso.
«N-no…» rispose scotendo appena la testa, cercando di trattenere le lacrime e di controllare la paura.
L’uomo la spinse via facendola cadere a terra, poi prese il vassoio e lo scaraventò contro uno dei muri, macchiandolo col denso liquido rosso della minestra e mandando in frantumi entrambe le ciotole, poi uscì infuriato dalla stanza chiudendo violentemente la porta alle sue spalle, senza degnare Diana di uno sguardo.
Le mandate veloci decretarono l’inizio di un nuovo periodo di totale isolamento.
Diana era terra, stanca e dolorante, ma soprattutto terrorizzata dalla reazione dell’uomo. Fino ad ora non era mai stato così violento e irascibile, anzi, di solito dopo ogni sfuriata tornava calmo e cercava di essere gentile, come se fosse dispiaciuto di aver reagito. Però questa volta lei aveva peggiorato la situazione e probabilmente ne avrebbe pagato le conseguenze.
Dopo quelle che sembrarono alcune ore l’uomo tornò a farle visita.
La sua mole sembrava quasi impedirgli di passare attraverso la porta di metallo che tanto odiava e che la teneva lontana dalla libertà, ma quando se la chiuse alle spalle, notò che portava con sé un sacchetto di plastica in cui erano contenute delle cose simili a delle schegge di legno, anche piuttosto piccole.
Si avvicinò alla ragazza, prese dal sacchetto una manciata di quelle schegge e gliele mise davanti al viso tenendole sul palmo della mano.
«Mangia.» Le intimò in tono duro, guardandola con i suoi inespressivi occhi neri, cerchiati da profondi solchi neri, probabilmente dovuti alla stanchezza.
Diana pensò di chiedere cosa le stesse offrendo, ma subito le tornarono in mente le prime volte in cui si era rifiutata di ubbidire agli ordini.
Rimase ancora un momento a fissare il cibo.
Ora che lo vedeva da vicino, sembravano proprio dei pezzi di funghi secchi, invece che legno, come aveva pensato all’inizio e questo la fece sentire più tranquilla.
Mise in bocca il primo dei pezzi e il sapore non le sembrò così strano, era proprio come quelli che le era capitato di mangiare altre volte e quest’ultima conferma la spinse a mangiare ancora, fino a terminare i pezzi che l’uomo le aveva offerto.
«Buoni…» sussurrò, guardando il suo carceriere gentile, provando ad abbozzare anche un sorriso, che non ricevette alcuna risposta né positiva, né negativa.
Invece lui si alzò e andò nuovamente verso la porta e iniziò ad armeggiare con tutte le varie serrature.
«Grazie.» disse la ragazzina a voce più alta, prima che l’uomo uscisse e la lasciasse alla sua solitudine per altri due giorni, facendosi vedere solo per l’unico pasto che le veniva concesso.
Il terzo giorno si svegliò con uno strano senso di fastidio, inoltre cominciava a sentire stranamente caldo visto che nella stanza non c’erano forme visibili di riscaldamento.
-forse ci sono dei tubi caldi nelle pareti.- pensò poggiando una mano sul muro trovandolo freddo come sempre. Tuttavia la sua mano era strana: era decisamente più arrossata rispetto ai giorni precedenti.
La bionda continuò a osservarsi le mani, scoprendo che il rossore era ben più esteso di quanto immaginasse: sul braccio sinistro arriva quasi alla spalla, lasciando qualche chiazza ancora normale, mentre sull’altro arto il rossore si interrompeva appena sotto il gomito.
Il suo cuore iniziò a battere molto più velocemente per la sconvolgente scoperta e la terribile sensazione che fosse qualcosa di grave, una qualche malattia, oppure una forma allergica di cui non era a conoscenza.
-Adesso che faccio?- iniziò a pensare sempre più nel panico, perché non sapeva quando e se il suo aguzzino sarebbe tornato.
Il respiro iniziò ad accelerare frenetico.
Gli occhi guizzavano a destra e a sinistra, cercando qualsiasi cosa le potesse essere utile.
Il cuore le martellava nel petto, quasi che volesse uscire ed esplodere.
Iniziò a sentire sempre più caldo, mentre sentiva il panico crescere nelle viscere.
Corse fino alla porta e iniziò a picchiare i pugni contro di essa.
«Ehi!» urlò continuando a tempestare la lastra di metallo di pugni. «Aiutami! Sto Male!» ripetè più volte.
«Stai indietro!» urlò di rimando l’uomo dopo alcuni minuti e iniziò ad aprire le varie serrature.
La giovane si fece indietro, cominciando a sentire le gambe tremare per la paura e quando vide l’uomo gli corse incontro.
«Ti prego, aiutami! Sto male!» disse mostrandole le braccia arrossate, ma lui non si preoccupò minimamente di controllarla, anzi ne approfittò per afferrarle entrambe le mani con una presa decisa, quasi che fosse quella di una tenaglia e le bloccò i polsi con una fascetta di plastica.
«Stai ferma.» le intimò come lei cercò di sottrarsi a quella reazione del tutto inattesa.
L’uomo la mise a terra schiacciandola con il suo peso e le bloccò allo stesso modo anche le caviglie, fino ad arrivare a coprirle gli occhi con una benda, prima che Diana sentisse svanire il peso che la tratteneva a terra.
«Cosa mi vuoi fare?» urlò di nuovo in preda alla paura.
Adesso sentiva ancora più caldo, non poteva muoversi, non poteva vedere nulla e sentiva le gambe cominciare a farle male.
Il panico cresceva e cercò di muoversi e di divincolarsi per liberarsi, ma invano.
«Si. Ho capito.» sentì dire all’uomo con la voce profonda.
«Adesso lo chiamo.» aggiunse subito dopo.
Poi di nuovo silenzio e si sentì il suono dei cardini che giravano soltanto una volta, come se la porta fosse stata lasciata aperta e l’uomo fosse uscito.
-È la mia occasione!- pensò mentre il panico si trasformò in quella risoluzione che solo nei momenti più estremi si riusciva a trovare.
Cercò di mettersi in piedi, ma un dolore atroce alle gambe glielo impedì.
Urlò alla sensazione di una violenta scarica elettrica che risalì dalla punta dei piedi fino alla testa, poi la stessa violenta scarica ripartì, ma questa volta dalle mani e urlò ancora.
Sentì i passi dell’uomo ritornare e poco dopo una musica simile a quella di un parco giochi, ma molto più sgranata e meccanica.
I dolori divennero sempre più intensi e la portarono a urlare ancora, a chiedere pietà, mentre aveva anche iniziato a piangere, sperando di suscitare pietà e per il dolore sempre più intenso.
Sentiva sempre più male alle mani e alle gambe, come se la stessero pungendo con degli spilli.
Faceva sempre più caldo.
La gola era irritata e secca per tutte le urla.
Anche le orecchie iniziarono a dolerle, come se stessero per esplodere.
Intanto nessuno la stava cercando di aiutare a liberarsi e non poteva fare altro che continuare a urlare e a chiedere che tutto questo finisse.
  
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