Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Harmony394    28/11/2015    12 recensioni
Sansa, subito dopo aver avuto il primo menarca, è costretta a sposare Joffrey appena tre giorni dopo la sua fine. Nessuna via d’uscita, nessun amico di cui fidarsi, nessuno pronto ad ascoltare i suoi cinguettii pregni di paura. Ma proprio quando la situazione sembra arrivata al capolinea, ecco qualcuno disposto a spezzare le inferriate di una gabbia che di dorato ha solo il colore. Qualcuno che non è né un principe né un cavaliere, ma un mastino. E il suo nome è Sandor Clegane.
«Perché siete sempre così crudele?!» domanda lei, le lacrime appese alla punta delle ciglia. Non mi piace vederla piangere, cazzo, soprattutto se la causa del pianto sono io. Ma non mi importa. Deve capire come funzionano le cose, che questa non è una delle sue fottute ballate ma la vita vera e che nella vita vera non esistono cavalieri ma solo chi muore e chi tenta di non morire. Il resto sono solo cazzate.
«Sarai grata per le cose crudeli che faccio quando sarai Regina e sarò l’unico a frapporsi tra te e il tuo adorato Re».
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: Lime, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
Capitoli:
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 Florian and Jonquil
His eyes upon your face
His hand upon your hand
His lips caress your skin
It's more than I can stand

 
 

 
«Non ci stai nemmeno provando!», la voce del Mastino, alle mie spalle, è piena di scherno. Gli rivolgo un’occhiataccia, ma lui mi ride in faccia. «È tutto qui quello che sai fare?».

Digrigno i denti e tento di nuovo di colpirlo. Prima che la lama del pugnale possa toccarlo, lui si scansa ed io perdo l’equilibrio, rovinando a terra battendo forte il ginocchio. Quando scopro la gamba per vedere il danno, gemo sconsolata: un lungo rivoletto di sangue gocciola giù fino alla caviglia, beffardo. Sembra quasi volermi dire “Lascia perdere, ti rendi solo ridicola”, ma non mi importa. Io non voglio cedere, non dopo tutto quello che ho fatto per convincere il Mastino ad aiutarmi! 

«Sei senza speranza», dice Arya dall’alto del muretto di pietra dove è seduta. «Lascia perdere, Sansa. Sei fatta per tenere in mano un ago da cucito, tu. Non una spada».

Non è stato un ago a salvarmi la vita quando quell’uomo ha tentato di violentarmi, vorrei risponderle, ma mi limito a rimettermi in piedi e scoccarle un’occhiata in tralice. Dacché ci siamo allontanati dal Guado dei Frey, non vi è stata una sola notte in cui quelle sudice mani infide sul mio corpo, quell’alito che sapeva di aglio e di vino, non abbiano tormentato i miei incubi. Ogni volta che ci ripenso un brivido mi percorre la schiena ed è inutile tentare di scacciare via quelle immagini: tornano sempre, proprio come la paura. 

«La mocciosa ha ragione», il Mastino incrocia le braccia al petto e mi guarda con esasperazione. «Smettila con questa stupida idea di diventare ciò che non potrai mai essere. Rinunciaci e falla finita. Uccidere non è roba per una come te».

Mi mordo con forza le labbra, furiosa, e stringo i pugni così forte da farmi male. Ha ragione: non sono fatta per la guerra. Sono solo uno stupido uccelletto dell’estate, incapace di combattere e ribellarsi, utile solo a cinguettare stupide canzoncine. Eppure, quando ripenso al corpo massacrato di mio fratello, alla testa del suo lupo fissata sul suo collo, agli sghignazzi dei soldati che lo trasportavano, io… io sento qualcosa scorrermi nelle vene. Qualcosa che mi fa tremare le dita e le ginocchia e che mi riempie il petto di fuoco scalpitante. Uccidere non è una cosa giusta… e allora perché è stato così semplice?

Cos’hai provato quando lo hai fatto? Rabbia, non è così? E paura e soddisfazione… sì, soprattutto soddisfazione: è sempre soddisfacente uccidere, erano state queste le parole del Mastino quando gli avevo detto di aver ucciso quel pervertito, ma io so che si sbaglia. Uccidere non è mai soddisfacente. È la sensazione di torpore e giustizia che ti avvolge nel vedere chi ti ha fatto del male ai tuoi piedi, agonizzante, ad esserlo; la gioia sfrenata dell’avere la certezza che quella persona non potrà mai più farti nulla. Non c’è alcuna gloria nel togliere la vita a qualcun altro, ma nel vendicarsi… sì, in quello sì. 

«Non voglio rinunciare!», esclamo allora, risoluta. Il Mastino rotea gli occhi al cielo ed Arya fa lo stesso. «Mi hai promesso che mi avresti insegnato, non puoi tirarti indietro!».
Lui stira le labbra in un ghigno. «Perché? Non sarebbe cavalleresco da parte mia?».
«Se mi insegnassi a combattere bene almeno la metà di come fai tu, potrei essere in grado di difendermi da sola e tu non dovresti sempre preoccuparti per me!», rispondo. Non so di preciso quando ho iniziato a pormi a lui con tanta confidenza, senza preoccuparmi di dargli del “voi” come una lady dovrebbe sempre fare, ma a lui non sembra dispiacere. Dopotutto, ha sempre fatto in modo di ricordarmi quanto detestasse quei miei modi cortesi e gentili dietro cui mi nascondevo. 
«E chi ti dice che io mi preoccupo per te?» Il tono beffardo con cui mi apostrofa mi infastidisce. Stringo i pugni lungo i fianchi. Che mi aspettavo? Era ovvio che non avrebbe mantenuto la promessa. Potrà anche essere diventato più gentile nei miei riguardi, ma la sua solita attitudine a prendersi gioco di me non è cambiata affatto. 
«Bene!», sbotto allora, stringendo le labbra. Il sangue affluisce alle mie guance impetuoso come Altofuoco, facendomi divenire paonazza. Afferro il pugnale che mi ha dato la scorsa notte e lo rinfodero dentro il corpetto del mio abito, decisa a non perdere il controllo davanti a lui. Potrò anche dargli del tu, parlargli come potrei parlare a mia sorella, ma sono pur sempre la lady di Grande Inverno e ho una dignità a cui non intendo rinunciare. «Credo sia meglio rimetterci in cammino, allora».

Arya ed il Mastino si scambiano un’occhiata dubbiosa ma entrambi concordano nel rimettersi in marcia. È pericoloso soggiornare troppo a lungo nei boschi, dovremo trovare presto un riparo o una locanda dove alloggiare… l’ennesima. Ormai non ricordo quasi più com’è sentirsi a casa. Le memorie della me bambina che dormiva nell’enorme letto di piume a Grande Inverno sembra così lontana, così irraggiungibile. Sospiro. Vorrei solo tornare a casa, che tutto torni com’era prima, che Robb sia ancora vivo e il lord mio padre mi regali quelle meravigliose bambole che era solito darmi, tutte piene di pizzi e merletti proprio come lo era la me del passato. Voglio tornare ad essere una semplice ragazza che vive nell’illusione di vivere una vita bella come le ballate. Voglio tornare ad essere felice. 

«Guarda là», la voce di Arya mi fa rinsavire dai miei pensieri. Guardo il punto da lei indicato: c’è un villaggio, a pochi metri più avanti. Non sembra grande, eppure è abbastanza affollato per permetterci di passare inosservati. Io e Sandor ci scambiamo un’occhiata obliqua, poi lui prende la parola. 

«Bene», dà uno strattone alle redini di Straniero e avanza impettito verso il villaggio in questione. «Perlomeno avremo dove dormire, stanotte». 

Non impieghiamo molto per trovare una locanda. Tuttavia, scopriamo ben presto che il prezzo per soggiornare una notte è troppo elevato e né io né il Mastino abbiamo il denaro necessario. Il locandiere è un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi ancora più scuri, con spalle larghe e mascella squadrata. Non sembra avere più dei miei anni, ma dal timbro di voce troppo profondo è evidente che sia più grande di me. Mi guarda, ma non sembra riconoscermi. In realtà, emaciata e sporca come sono, dubito che qualcuno riuscirebbe mai a farlo. 

«Sono desolato, sir», dice. Sembra sincero. «Ma mio padre è inflessibile su questo…».

Il Mastino grugnisce il suo disappunto. Leggo nel modo in cui corruccia la fronte che vorrebbe uccidere questo ragazzo qui e adesso, ma so già che non lo farà. Attirerebbe troppo l’attenzione, e noi questo non possiamo permettercelo. «Come ti pare», borbotta, la voce simile al raschiare dell’ubriaco, e fa per andarsene. Io ed Arya lo seguiamo ma, prima di poter varcare la soglia dell’uscita, il giovane ci ferma. 

«Ehi, voi!», grida. Il Mastino si arresta e gli scocca un’occhiataccia perplessa. «Io… ecco…», i suoi occhi scuri si posano sui miei, ma li distoglie subito. «Potreste stare qui per un po’. Ci servirebbe qualche mano d’aiuto per tenere lontani i piantagrane, e voi sembrate perfetto per questo compito… cioè, non che voi facciate paura… o perlomeno, non nel senso che—».

Sandor Clegane incrocia le braccia al petto, evidentemente infastidito. «Vieni al punto».

Di nuovo, lo sguardo del ragazzo si posa su di me. Questa volta sono sicura di averlo visto arrossire. «Potete restare qui tutto il tempo che volete, a patto che ci aiutiate a tenere lontani i ladri o… o coloro che recano disturbo alla locanda, ecco. Non abbiamo molto da offrirvi, ma un pasto caldo e un letto sono garantiti se accetterete, sir».

«Non sono un sir», la risposta del Mastino è secca. I suoi occhi sembrano persino più feroci del solito, anche se non riesco a spiegarmi il motivo. «Ed io ci piscio sopra alla tua offerta. Non sono il tuo merdoso cane da guardia. Andiamo».

«No!», la voce trillante di Arya mi fa sobbalzare. «Ci sta offrendo un posto dove stare, del cibo e un letto. Non abbiamo alcun luogo dove andare, perché non restiamo almeno per questa notte?!».

Ha ragione. Andarcene adesso sarebbe una follia. Nessuno qui sembra conoscerci: siamo troppo lontani sia dal Guado che dai Lannister, qui nessuno potrebbe trovarci o riconoscerci. E poi questo ragazzo sembra sincero. «Arya ha ragione. Potremmo restare».

Lo sguardo nebuloso di Sandor Clegane saetta ora verso di me e ora verso il ragazzo. È più alto di lui di diverse spanne, i suoi capelli sono più lunghi, e di certo gli basterebbe un solo spintone per metterlo fuori gioco, eppure lo guarda come se si trattasse di un nemico di guerra che non riesce proprio a soffrire. Dal canto suo, il giovane in questione sembra profondamente preoccupato per noi e sembra volerci davvero aiutare. Non mi fido di lui, ma voglio comunque approfittare della sua offerta. Dopotutto, cosa abbiamo da perdere?

«Per favore…», lo supplico allora, speranzosa all’idea di poter di nuovo dormire in un letto vero e non solo in giacigli di paglia in mezzo al gelo della notte. «Solo per questa notte!».

Lui serra le labbra in una linea tanto sottile da non riuscire più a vederle. Sembra frustrato e irritato, seppur non riesca a capirne il motivo. Alla fine, dopo quella che mi sembra un’eternità, si decide a rilasciare la presa che fino a quel momento aveva esercitato sul pomello della sua spada. I suoi occhi si puntano sul ragazzo, colmi di rabbia. Lo prende per il colletto, sollevandolo da terra. 

«Se provi a prendermi in giro, ragazzetto, giuro che ti ficco la mia spada su per il culo. Sono stato chiaro?» sussurra. Non faccio in tempo a dirgli di lasciarlo stare che lui lo molla, quasi fosse stato un pupazzo di stoffa. Afferra la prima chiave che trova sul bancone e si dirige al piano di sopra, dove di solito stanno le stanze da letto. Non passano che pochi istanti che il clangore metallico della serratura che si sblocca ci raggiunge, subito seguito da quello di una porta che sbatte. Io, Arya ed il ragazzo rimaniamo in silenzio, senza sapere davvero cosa dire. 

«Mi dispiace…», dico ad un tratto, chinandomi per aiutare il ragazzo a rimettersi in piedi. Arya mi dà una mano. «Nostro padre… ecco… lui è un po’ irascibile», cerco l’appoggio di mia sorella con lo sguardo. Lei annuisce con convinzione. Il giovane non pare molto convinto. 
«Quell’uomo è vostro padre?». 

Annuisco, sperando che la bugia risulti credibile. Non sono mai stata brava a mentire. «Sì, e mi dispiace davvero per come ti ha trattato. Tu invece sei stato molto gentile. Io e mia sorella ti siamo grate… purtroppo la nostra casa è stata bruciata in un saccheggio; fu in quella situazione che mio padre si procurò quella cicatrice. Nostra madre morì nell’incendio e da quel momento lui non è stato più lo stesso».

«Oh», sul volto glabro del ragazzo si dipinge una smorfia dispiaciuta. «Oh, ehm… mi dispiace molto per la vostra perdita. Anch’io ho perso mia madre, capisco il vostro dolore. Se avrete bisogno di qualcosa, non avete che da chiedere», mi sorride. È un sorriso gentile, il suo. Quasi dolce. D’istinto gli sorrido di rimando. «Come vi chiamate?».

A quella domanda, io ed Arya ci lanciamo un’occhiata nervosa. «Ehm... mi chiamo Jonquil», è stato il primo nome che mi è venuto in mente. Forse non uno dei più comuni. Il ragazzo alza un sopracciglio e fa un mezzo sorriso. 

«Jonquil? Come la lady della ballata?».
«Nostra madre amava molto quella ballata…», come scusa non è un granché, ma sembra convincente. «Lei invece è…».
«Nymeria», sul viso scarno di Arya si dipinge un sorrisetto soddisfatto. «Mi chiamo Nymeria».

Il ragazzo scopre i denti in quello che ha tutta l’aria di essere un sorriso un po’ tirato. I riccioli bruni e le piccole efelidi sul viso lo fanno sembrare molto più giovane di quanto non sia in realtà. Ha un bel sorriso. 

«Nomi belli quanto inusuali, se posso permettermi», dice. Le sue labbra si schiudono nuovamente, ma Arya lo interrompe prima che possa parlare, mi prende per un braccio e mi trascina di sopra con il pretesto del “Scusaci tanto, ma nostro padre si arrabbierà tantissimo se non andiamo subito in camera!”. Prima che possa salire gli scalini, però, dita forti mi afferrano per un gomito. Gli occhi scuri del ragazzo di prima incrociano i miei, caldi come il sole d’estate. 

«Aryl», sussurra, la voce bassa e roca. «Il mio nome è Aryl. Ma, se vuoi, potrai chiamarmi Florian, mia signora».

Per un momento non so davvero cosa dire. Florian è il nome dell’amante di Jonquil, ed io ho appena detto di chiamarmi così. Sento le guance andarmi in fiamme, il cuore salirmi in gola. Solo adesso mi rendo conto di quanto calde siano le sue mani e di quanto profondo sia il nero dei suoi occhi. 

«Jonquil!» La voce di Arya mi fa sussultare. Mi districo dalla stretta di Aryl in fretta e furia, biascicando uno stentato “Devo andare…”, e corro su per i gradini della scala. Trovo mia sorella ad aspettarmi proprio davanti l’uscio della porta, un sorrisetto beffardo dipinto sul volto mentre abbassa la maniglia ed entra nella stanza. La seguo. Appena entrata, il mio sguardo incrocia quello del Mastino: è sdraiato su quella che pare una brandina malridotta, dalle lenzuola gialline e consumate, la fiasca di vino in mano e un’espressione arcigna in viso. Una parte di me si chiede come mai sia così piccato, ma ben presto finisco col dimenticarmene. Ora come ora, nella mia mente vi è solo il pensiero di Aryl e dei suoi bellissimi occhi. 

«”Ma, se vuoi, potrai chiamarmi Florian, mia signora!”», la risata di Arya mi rimbomba fastidiosa nelle orecchie. Non so perché, ma il mio sguardo corre istintivamente verso quello di Sandor Clegane. Non mi guarda… anzi, sembra quasi che mi stia volutamente evitando. «Avresti dovuto vedere la tua faccia! Eri tutta rossa… lo sei anche adesso!».
«N-Non è vero! Smettila subito!».
«Magari ora vi sposerete e avrete dieci figli… ti ci vedo proprio a fare la contadina. Oh, sì! Una contadinella con la pancia gonfia e le tette mosc—», il mio cuscino le arriva dritto sul naso, scompigliandole tutti i capelli. «… Ehi!».
«Smettila! Non succederà niente del genere!».
«Sì, certo. Sono sicura che fra un paio di giorni vi troveranno nel fienile a darci dentro proprio come due c—».
«Un’altra parola, cagnetta, e giuro su tutti e Sette gli dèi che quella lingua te la faccio ingoiare».

Entrambe ci voltiamo verso Sandor. Mi ero dimenticata che fosse qui, e adesso per chissà quale ragione mi sento terribilmente in imbarazzo. Ha udito quello che ha detto Arya, e non sembra molto felice della cosa. Mi torna in mente il momento in cui mi baciò, il sapore forte delle sue labbra che si imprimeva sulle mie, e il mio cuore sobbalza. Mi chiedo cosa pensi di Aryl, se ne è geloso, se a me tiene almeno un po’, e mi sorprende scoprire che mi piacerebbe che fosse così. Scuoto la testa. No. Basta, questi deliri sono durati fin troppo. Devo dormire… oh, sì. Dormire è la scelta migliore. 

Mi tolgo la vestaglia e le scarpe, poi lego i capelli in una treccia e mi infilo sotto le coperte, facendo segno ad Arya di raggiungermi. Ci sono solo due letti, qui dentro, quindi dovremo dormire insieme, io e lei. Meglio così: la notte fa freddo, e stando vicine potremmo riscaldarci un po’ di più. Lei arriva, si infila sotto le coperte e si sdraia accanto a me. Mi concedo un momento per osservarla, come se non potessi evitarlo. Dacché ci siamo ricongiunte l’idea di perderla di nuovo mi terrorizza ed ogni secondo che passo con lei, per quanto detestabile e irritante sia, è prezioso. I suoi capelli sono pieni di nodi, le sue guance scavate e scarne, gli occhi sembrano quelli di un gufo, tanto sono incavati, ma il suo viso è ancora quello di una bambina di dieci anni. È così piccola… ancora così piccola…

«Sansa», la sua voce è appena un sussurro. 
«Sì?».
«Pensi che nostra madre… insomma, lei non sappiamo che fine abbia fatto. Forse è ancora viva, e se è così dovremmo tornare a salvarla».

Il viso di mia madre mi si para dinanzi agli occhi, affettuoso e severo come sempre. La rivedo mentre mi pettinava i capelli, mentre passava una coperta di lana sul viso mio e di Arya per scaldarci, quando mi sorrideva con fierezza dopo aver visto i miei progressi col cucito. Mi tasto il corpetto d’istinto: il pugnale che mi ha dato il Mastino è ancora stretto fra le mie dita, appuntito proprio come un ago. Adesso non cucio più. Adesso è un altro il tipo di ago che reggo fra le dita, e questo non serve a tessere centrini o fazzoletti. 

«Dormi, adesso», premo le mie labbra sulla sua fronte, delicata. Assurdo quanto le sue spalle siano piccole in confronto alle mie. «Ci penseremo domani».

Ma io non riesco a dormire bene. Sogno di essere un lupo; un lupo dolorante, stanco, che non riesce nemmeno a camminare. Invece che ululare, pigolo, e sulla mia schiena vi sono un paio di piccole ali scure come quelle di un corvo. Le parole della vecchia Nan mi tornano alla mente, “Ali oscure, oscure parole”. Davanti a me vi è un fiume; le sue acque sono scure, rosse, e puzzano. Digrigno le zanne nonostante mi venga difficile persino respirare, finché non la vedo: una carpa, dai colori del sangue e del cielo notturno, si dimena frenetica sul terreno. Le manca l’aria, non riesce a respirare; la sua testa è quasi del tutto recisa dal corpo.

Sta morendo. Devo fare qualcosa, ma muovermi è difficile o addirittura impossibile. Eppure quella carpa è importante per me ed io devo salvarla… devo farlo prima che sia troppo tardi. I miei occhi si riempiono di lacrime di frustrazione, uggiolo di tristezza e commiserazione.

Qualcosa sbuca fuori dal terreno: sono due torri. Due enormi, imponenti torri della stessa altezza e larghezza, paurose e piene di crepe. Dal loro interno fuoriesce un uomo scuoiato, senza un briciolo di pelle sul volto e sulle dita. Si avvicina alla carpa, poi mi guarda. Io ricambio lo sguardo, terrorizzata e col cuore in gola. Ha un coltello in mano.

Ti prego, un guaito che suona più come un cinguettio che un latrato. Ti prego, non ucciderla…. Io le voglio bene. Tanto, troppo bene. Ti prego, ti supplico: risparmiala.

L’uomo scuoiato mi osserva con quei suoi terribili occhi vuoti, il suo volto senza labbra si tira e scopre i denti in quello che dovrebbe essere la parvenza di un sorriso. «I Lannister portano i loro saluti», e il coltello cala giù sulla testa della carpa. 
 
 
«… No!» Mi tiro a sedere di scatto. Tutto attorno a me vortica senza ritegno, la mia vista è appannata dagli ultimi rimasugli del sonno. Impiego un po’ prima di capire che si trattava di un sogno e che io non sono un lupo, non più di quanto non sia un uccellino. L’incubo mi assale come una faina e mi stringe a sé, imponendomi quelle terribili immagini davanti agli occhi. Mi passo una mano sul cuore. Fuori è ancora buio.

Accanto a me, Arya dorme ignara di tutto e lo stesso fa il Mastino, pochi metri più in là. Mi sdraio sulla schiena, chiudo gli occhi ma il senso d’inquietudine resta in agguato tutta la notte come una malattia. Non riesco più a prendere sonno e per tutto il tempo ho una terribile voglia di piangere. Solo quando le prime luci del mattino iniziano a filtrare dalle persiane inizio a realizzare, ed è come se un secchio d’acqua gelida mi piombi addosso. Una certezza assoluta, come quella di dover morire, mi investe in pieno. Il dolore è così accecante, così insopportabile, che per un attimo non riesco più a respirare. Mi premo una mano sulla bocca e ne mordo forte la carne, il sapore ferroso del mio stesso sangue mi solletica la lingua. 

Pensi che nostra madre… cioè, lei non sappiamo che fine abbia fatto. Forse è ancora viva, e se è così dovremmo tornare a salvarla. 

Stringo i denti, l’odio e la rabbia e l’angoscia che mi stritolano lo stomaco. Gli occhi di mia madre, azzurri proprio come i miei, mi tornano alla mente. All’improvviso, realizzo che non li vedrò mai più, che non sentirò più alcuna carezza sul mio capo, la sua mano gentile che mi sistema i capelli dietro l’orecchio. Un singhiozzo mi si spezza in gola, le lacrime scorrono umide lungo il mio viso. 

Non torneremo a salvarla. Non possiamo. È troppo tardi.

 
 

 
 
Lo voglio morto.    

Da quando siamo arrivati in questo schifo di posto, quel dannato ragazzino non ha smesso di stare alle calcagna di Sansa. Siamo qui da nemmeno due giorni – alla fine Sansa e la cagnetta hanno insistito a tal punto di rimanere che combatterle sarebbe stato inutile – e lui non le ha staccato gli occhi di dosso un secondo... e la cosa peggiore è che neanche Sansa sembra riuscirci. Questa mattina, quando mi sono svegliato, lei era già in piedi accanto alla finestra, silenziosa e con il sole negli occhi. Era bella come un sogno, e allo stesso tempo nel suo sguardo c’era qualcosa di terribile come un incubo. Aveva pianto, la scorsa notte. Lo si vedeva dai suoi occhi rossi, dalla smorfia malinconica delle sue labbra, dalle occhiaie che le incupivano il viso. Una parte di me, chissà quale, mi aveva urlato di andare da lei e baciarle via quelle lacrime, cancellare ogni residuo di dolore, ma non lo feci. Rimasi lì, in silenzio, a fingere di non vederla. Alla fine, fu lei a spezzare il silenzio.

«Scendo di sotto, forse ci sarà qualcosa da fare. Non svegliare mia sorella, scenderà da sé».

Mi passò vicino. D’istinto, l’afferrai per il braccio e la tirai verso di me. La scia che avevano lasciato le lacrime sul suo volto era ancora visibile. Senza davvero pensare a ciò che stavo facendo, senza riuscire a fermarmi, passai le mie dita sulle sue guance e sotto i suoi occhi, portandomi via le lacrime. Lei non disse niente, ma i suoi occhi divennero lucidi. Chinò lo sguardo.

«Perdonami», sussurrò.

Quando uscì dalla stanza, le mie dita erano ancora umide.

Ero poggiato contro lo stipite della porta dell’ingresso della locanda, ben attento che nessuno di losco entrasse, quando udii la sua risata due ore più tardi. Mi voltai e la vidi: era con quel ragazzo, il figlio del locandiere, e sorrideva mentre lui le porgeva una margherita improvvisando un inchino. 

 «Nessun fiore potrà mai essere bello quanto te» le disse. Sansa arrossì vistosamente, io sentii il sangue schizzarmi al cervello.  
«Aryl... cioè, Florian, io… io non so davvero cosa dire. Sei così gentile…».

Florian. Adesso lo chiama pure come quell’idiota di quella fottuta ballata!

Lui si avvicinò al suo viso, poi le scostò una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. Sussurrò al suo orecchio qualcosa che non riuscii ad udire e Sansa gli sorrise timidamente. All’improvviso, respirare divenne impossibile. 

Devo andarmene da qui… devo andarmene!

Non ce la facevo più. Era assurdo, tutte quelle emozioni lo erano. Quel… male, terribile come se qualcosa mi stesse consumando dall’interno, che mi aveva stretto lo stomaco, il mio cuore che non la smetteva più di battere troppo forte. Potevo sentirne il rimbombo nella testa, simile ad una marcia di guerra. TuTum… TuTum… TuTum. Lo odiavo, ma ancora di più odiavo lei. Perché… perché, cazzo, non lo aveva respinto? Perché era così stupida… così ingenua… così… così… bella? E quelle labbra! Quelle sue dannatissime labbra! Il solo pensiero che quel moccioso avesse solo potuto sfiorarle mi riempiva di veleno. No. No, no, no… erano mie, solo mie. Le sue labbra, i suoi occhi, le sue mani, lei era mia. Il mio uccellino, la mia donna o bambina o quello che era. Lui doveva starle lontano… doveva starle lontano!

«Clegane», ritorno alla realtà con violenza. Il volto scarno del locandiere mi si para davanti, gli occhi scuri come quelli del figlio mi osservano pieni d’incertezza. «Ti senti bene? La tua fiasca…», seguo il suo sguardo. Per terra vi è la mia fiasca di vino, ormai ridotta in frantumi, che ho gettato sul pavimento in un attacco di collera. Non me ne ero neanche accorto, dannato me. 

«’Fanculo la fiasca», la mia voce è strascicata, quasi un ringhio. È sera, ormai. Il sole è calato e la locanda è piena di gente e menestrelli che cantano e suonano ballate rumorose e volgari. Il mio turno di guardia si è concluso da un pezzo, eppure sono ancora qui in attesa di qualche coglione in cerca di guai e di botte. Dèi... muoio dalla voglia di fare a pezzi qualcuno, di vedere la mia spada che si macchia di sangue. «Torna pure a riempire calici di vino, vecchio».

L’uomo aggrotta la fronte, le labbra strette in una linea sospettosa e stranita, ma fa come gli ho detto e torna a servire ai tavoli. Ad aiutarlo, vi è il ragazzetto suo figlio. I suoi lineamenti sono giovani, affascinanti. Non è il Cavaliere di Fiori, ma persino io che sono un uomo capisco che ad un occhio femminile possa apparire piacente. Anche Sansa sembra esserne rimasta ammaliata. È seduta a pochi tavoli da me, vicino a sua sorella, i lunghi capelli rossi le ricadono morbidi sul seno e i suoi occhi sono fissi sul figlio del locandiere.

È da stamattina, fottuti gli dèi, che non fa altro che guardarlo, guardarlo e guardarlo, ed io sono stufo. Sembra essersi dimenticata di me e del fatto che sono stato io lo stronzo che l’ha salvata da Joffrey, che le ha asciugato le lacrime quando piangeva e che l’ha protetta da qualsiasi pericolo; io, che ho rinunciato a tutto per lei, per riportarla a casa e vederla al sicuro; io, ad amarla fino a morire.

Ma che mi aspettavo? È solo una stupida ragazzina. Nel suo cuore non c’è posto per la bruttezza della mia cazzo di faccia, per un mastino ringhiante. No, non c’è mai stata e mai – mai! – ci sarà. 

«Canta l’orso e la fanciulla bionda, menestrello!» Una voce si solleva in cielo, altre mille la seguono inneggiando alla ballata in questione. Il menestrello, un ometto con lunghi capelli brizzolati legati in una crocchia e una casacca a righe bianche ed azzurre, sorride gioviale al pubblico e inizia strimpellare le prime note della ballata con il liuto. Dai vari tavoli si alzano alcune donne e i loro uomini e tutti prendono a danzare a casaccio, senza una vera coordinazione o logica. Sansa li guarda con sorpresa e desiderio, le mani congiunte al petto e gli occhi pieni di nostalgia. Vuole danzare, capisco subito, e sono quasi tentato di andare da lei e chiederle di farlo assieme – se solo non fossi un impedito cronico. 

Oh dolce era lei, pura e con gli occhi belli,
la fanciulla con il miele nei capelli. 
I capelli, i capelli. La fanciulla con il miele nei capelli.
Annusò essenze profumate, nell'aria dell'estate
Annusò e ruggì e lo sentì il dolce profumo del miele, nell'aria della sera.
 
Un uomo scivola a terra, la folla ride sguaiatamente. Anche l’uccellino ride, insieme alla sorella, e all’improvviso mi dimentico di ogni cosa: della rabbia nei suoi confronti, del ragazzetto, della locanda e di tutto il mondo. C’è solo lei, ora. Lei ed il suo sorriso. Da quanto tempo non sorrideva? E come fa una sola persona ad avere tutte queste bellezze, ad essere così meravigliosa? Senza neppure accorgermene, mi avvicino verso di lei. Non mi importa se non so danzare, se sono brutto o bestiale. Voglio stringerla, baciarle le labbra, farla ridere ancora e ancora e ancora. Le note della canzone continuano a riempire la stanza, il mio cuore sembra battere al ritmo di musica.
 
Un cavaliere armato avevo chiamato.
Ma tu sei un orso, un orso,
tutto marrone e nero, tutto coperto di pelo…
Scalciò e urlò la fanciulla dagli occhi belli,
ma lui le leccò il miele dai capelli!

Dai capelli! L'orso le leccò il miele dai capelli!
 
I miei occhi si scontrano con quelli della mocciosa-lupo, che inarca un sopracciglio. Che si fotta anche lei, non mi può fregare di meno di come mi guarda. La mia testa gira, gira, gira… il vino che ho bevuto prima inizia a fare effetto. Forse è per questo che sto andando da lei, che mi sento così leggero e pesante allo stesso tempo, con lo stomaco che mi si stringe al desiderio – no, la necessità – di baciarla di nuovo. 

«Uccellin—».

Qualcuno mi si para davanti. È il ragazzetto di prima, il figlio del locandiere. Sansa lo guarda, lui le porge una mano in un chiaro invito a danzare. Nella sala iniziano a levarsi grida d’incitamento, d’ilarità, che inneggiano alla danza. Con un breve sorriso, lei accetta. Non si è nemmeno accorta della mia presenza.
 
Poi lei sospirò e berciò e scalciò
su nell'aria della sera!
Mio orso, così splendido e forte.
E andarono via, di villaggio in villaggio,
la fanciulla dal profumo di miele e l'orso vestito da paggio!

 
 
Rimango giusto il tempo di vedere i suoi occhi persi in quelli di lui, le loro mani che si intrecciano, il sorriso timido che si forma sul viso di Sansa, finché tutto diventa troppo. Troppo da sopportare, da guardare, da tollerare. Mi sento soffocare dai miei stessi sentimenti e all’improvviso non riesco più a respirare, a pensare. Tutto gira… gira… gira troppo. Sbatto contro qualcuno, ne urto un altro. Non mi importa. Non mi importa più di niente. Solo quando l’aria fredda della notte mi sferza il volto, capisco di essere uscito dalla locanda. Mi appoggio allo stipite di una colonna, stremato come se avessi corso per secoli. La testa è un vortice di immagini, suoni ed emozioni confuse.

Rivedo il sorriso di Sansa, le dita di quel bastardo che si intrecciano alle sue, gli occhi grigi della mocciosa-lupo che mi fissano come se fossi stato un fantasma. Detesto tutto questo… tutti questi sentimenti. Li odio. Odio sentirmi così… debole, indifeso come una fichetta. Le mani mi tremano di rabbia, il mostro dentro il mio stomaco si rivolta come impazzito. Tiro un pugno al muro. 

È colpa sua. È tutta colpa di Sansa, di quelle sue fottute labbra, del suo modo di guardarmi, del suo odore di donna e di pulito. Che si fotta… che si fottano lei e quel fottuto bastardo succhia latte. Che se la scopi pure, per quanto mi riguarda. Non mi importa. Non mi importa. Non mi importa niente!

«Giornata pesante, tesoro?», una voce alle mie spalle mi fa trasalire. Mi volto ed incontro due grandi occhi blu assottigliati in due fessure sensuali. È una puttana, realizzo subito, una di quelle che sta nelle locande e fa compagnia agli uomini per guadagnare qualche spicciolo e attirare clienti. I suoi capelli sono d’un rosso più scuro di quello di Sansa, la sua pelle è più pallida e piena di lentiggini, le sue labbra più rosse e voluttuose ed il suo naso più lungo ma, tutto sommato, è bella. Non sembra impressionata dalla mia cicatrice, quanto più dalla mia mole. I suoi occhi mi squadrano dalla testa ai piedi, soffermandosi sul cavallo dei miei pantaloni. «Se lì sotto sei grande e grosso come all’esterno, sarei felice di rendertela un po’ più lieta…».

No, è il mio primo pensiero. No, non voglio farlo

Ma all’improvviso le mie mani sono sul suo seno, la mia bocca sulla sua gola, il suo ginocchio fra le mie cosce. Il suo seno è grande, pesante, diverso da quello piccolo e delicato di Sansa Stark, la sua pelle sa di tabacco e vino e non di fiori e di pulito, le sue labbra sono troppo piene per essere quelle del mio uccelletto… ma non mi importa. No, no, non mi importa. Non mi importa. 

Un rumore alle mie spalle, simile a quello di un singhiozzo, mi paralizza. D’istinto mi stacco dalla puttana che stavo baciando e il sangue mi si gela nelle vene quando incontro gli occhi pieni di confusione di Sansa. Lei non dice niente, sembra quasi imbambolata, ma non c’è bisogno di parole. I suoi occhi parlano per lei. 

E ciò che stanno dicendo è che ha visto ogni cosa. 


 
 

– Note dell’Autrice.

Io. Sono. Una. Pessima. Persona.
Non ci credo nemmeno io, ma sì, sono tornata. Ad un orario indecente, dopo mesi e mesi, ma sì, eccomi qui.  Assurdo, vero? Eppure finalmente (?) è successo.

Sono senza giustificazioni. Non aggiorno da marzo. Ho continuato a rimandare sempre in seguito, campando una scusa sopra l’altra, quando al verità era una sola: non mi andava di farlo. Non mi andava di scrivere, di impegnarmi, di fare qualsiasi cosa. Era un periodo brutto, buio e schifoso, e quindi anche tutto quello che scrivevo lo era. Mi ero fatta contagiare dal morbo fatale per uno scrittore: l’apatia. Tutt’ora non credo di esserne guarita del tutto, ma diciamo che ci sto lavorando.

Ma voi… voi siete stati meravigliosi. Tutti voi. Grazie, grazie e grazie mille ancora per tutti i messaggi che avete mandato, tutti i sollecitamenti, tutti i complimenti… grazie. Grazie per non aver abbandonato la storia, grazie per non aver abbandonato me come scrittrice. Vi ringrazio davvero di cuore. Siete preziosi ed io non mi merito davvero tutto questo.

Il capitolo in sé, comunque, è un capitolo di transizione. Il vero boom sarà nel successivo, che ho già scritto e dovrei solo far betare. Spero di riuscirci presto, o perlomeno entro la fine dell’anno. lol

Vi mando a tutti un enorme, sentitissimo bacione. Davvero, grazie mille di cuore a tutti voi ancora una volta. Se oggi sto postando, è solo grazie a voi ed al vostro sostegno.

A presto! (si spera :P)
 
 
 

 
   
 
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