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Autore: _sonder    28/11/2015    3 recensioni
L'essere umano cade in rovina o crea da sé la propria prigione. Lo sa bene Nathaniel Howe, figlio del defunto Arle di Amaranthine: nato nobile, ha perso onore e possedimenti quando suo padre è stato giustiziato per alto tradimento. Lo sa bene Anders, figlio di grandi contadini, strappato alle sue terre e rinchiuso nel Circolo dei Magi presso il lago Calenhad. Dividono notti stanche come custodi grigi e vedono fiamme ancora alte della loro infanzia; nel petto, soltanto i fumi dell'amarezza, il sapore greve dell'illusione.
| Storia partecipante al contest Trailer di Carta, indetto da Silvar Tales sul forum di EFP. |
[DA:A/DA II] [Nathaniel/Anders] [hints of: Nathaniel/Velanna, Nathaniel/fem!Cousland, Karl/Anders] [Dedicata a Ema che mi ha convertito a questa fantastica serie e che crede in me più di quanto meriti]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Anders, Custode, Nathaniel Howe, Oghren
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La fanfiction si basa su Dragon Age Origins: Awakening, ma contiene una parte finale che modifica gli eventi di Dragon Age II. Gli avvenimenti presentano: un falso "presente - presente storico", flashback, POV alternato dei trascorsi o dell'immediato presente dei protagonisti e una parte finale che è l'effettivo momento presente connesso al lettore.
Nella mia versione Nathaniel e Anders hanno modo di ricongiungersi in privato, con Hawke che resta defilato con il resto del party e non compare (ancora) sulla scena, ma è la persona che Anders sembra cercare fra le ombre. Il tutto, nella chiusura, si svolge dal punto di vista di Nathaniel, per cui egli può solo ipotizzare che ci sia “qualcun altro” nel cuore del mago.
I grifoni bianchi e il design delle spade in fiamme si riferiscono a: i templari ordinati fra i custodi e quelli ancora fra le loro fila. In alcuni frangenti della fanfiction, Anders chiama Nathaniel: “Ser How”. Mi sono basata su un banter fra i due personaggi:
Anders: So you're a Howe?
Nathaniel: Do you have a point, Mage?
Anders: Hey, I'm fond of the Howes! I'm also fond of the Whys, the Whos and the Whats.
Nathaniel: How clever.
Anders: (Laughs) It's shameful how long it took me to come up with that.

NOTE DELL'AUTORE

Grazie a chiunque leggerà sopravvivendo a questo scempio.
Fanart di susiadoobles sul suo artblog di tumblr.





Polvere d'oro nel vento: lingue di fuoco crepitano nelle tenebre e si stracciano, scoppiano, borbottando in seno alla notte; sono frammenti di luce che si disperdono sulle membra stanche dei viandanti e lamentano storie, mutate in incubi. La selva si staglia, muro eretto a celare l'orizzonte, con la sua chioma sciolta e le braccia ritte. Bestie e i loro occhi rapaci parlano in sua vece e non c'è ariete che sappia scuotere il folto della foresta.

Nathaniel siede a gambe incrociate, il mento che oscilla fra il petto e il vuoto, in perenne ricerca di un riparo nel sonno. A inebriarlo di ricordi, è il tepore che scricchiola attorno alle sue ossa e spezza i rami asciutti; un alito che gli sfiora le gote ispide, inselvatichite dal primo pelo di una nuova luna. Nelle palpebre strette, percorse da rughe nervose, vede stralci dell'infanzia.

*

È nel suo letto ad Amaranthine e il focolare illumina gli scuri: ombre guizzano sulle pareti e si mescolano sul soffitto, nutrono mostri deformi. Sulla lingua, Nathaniel ha il nome del nonno e il desiderio di distinguersi sui campi di battaglia.
L'Arlessa Eliane veglia suo figlio, le mani intente a tergerne il sudore, con un'espressione attenta ai minimi movimenti del bambino. Non sta guardando la propria carne: è un paziente che ha contratto un morbo e come tale deve essere seguito. Afferra un polso e depone una sanguisuga sul braccio nudo. Il sudore e i conati non la spaventano e resta vigile, le nocche diafane e una mano che liscia le coltri perché siano ben stese.
— Maneggiavo una spada alla sua età, — le aveva detto Rendon, le labbra sottili indurite dallo sprezzo, — e il nostro primogenito non saprebbe superare la notte?
— Io ho visto chi sei, — era stata la risposta di Eliane. Entrambi avevano sostenuto lo sguardo dell'altro, arroccati nelle loro idee: due torri che si fiancheggiavano, che esistevano senza trovare accordo. Da un capo all'opposto si sfidavano senza venire a capo delle divergenze, condannati ad acuirle.
— Nathaniel ha la scorza dura di un uomo del Ferelden. Non di uno qualunque.
Rivendicò il proprio orgoglio di madre, sola, com'era sempre stata da quando aveva convenuto alle nozze con Howe. Gli occhi si riempirono d'irritazione e si volsero verso le alture. — Non di uno qualunque, — ripeté Rendon, accostando le dita al mento, — dunque, lascia che a occuparsene sia una governante.
— Sarò io a curarlo. Dispongo delle nozioni necessarie. Hai dimenticato chi ti ha tenuto in vita?
Girò il viso e vide il marito impallidire e tornare ai giorni in cui migliaia di uomini erano caduti. Rendon indietreggiò, il fianco morso dal ferro di una lancia e la punta torta nella carne; al mutare delle stagioni, sentiva ancora la cicatrice rodergli la pelle. Il suo destriero lo aveva tradito ed era rovinato a terra, a bocca aperta, incapace di respirare a fondo, diviso fra il bisogno d'aria e la sofferenza del corpo.
Eliane si concesse un sospiro.
— Credo che debba lasciare la fortezza, diventare uno scudiero; questa è la sua strada.

La mano di sua madre era umida e si perdeva nelle ciocche nere, nei lineamenti sgraziati e severi, contratti da una febbre estenuante.
— Madre, desidero cacciare per voi...
Il fuoco crepitava fra un rantolo e lo scroscio della pezzuola strizzata.


Nathaniel spalancò gli occhi e vide il chiarore rovente invadere le orbite, imponendogli di chiuderle di nuovo. Portò le dita a sfregare la pelle lambita da qualche lacrima.
Un brivido sulla schiena gli drizzò le spalle e avvertì un peso sul fianco.
— Bentornato fra i vivi... si fa per dire. La vita da custode grigio è un mortorio.
Anders tese il collo e lo guardò scoprendo i denti in un sorriso canzonatorio. Dalla pelliccia sbucava il muso di Ser Pelosotto e le orecchie abbassate dalla più lieve carezza.
Nathaniel tornò a osservare il bivacco e corrugò la fronte. Non era dell'umore adatto per conversare e allungò altra sterpaglia da bruciare per mantenere vivo il bruire del falò.
— Brutto sogno? — insistette Anders, accavallando una gamba sull'altra. Ricevette un cenno del capo e sollevò gli occhi al cielo, le dita solleticate piacevolmente dalla peluria del gatto. Una scia di fumo velava la notte e annebbiava il bagliore delle stelle.
— Sembrava arrivata l'alba, così, d'un tratto, — proseguì, come parlando a se stesso, col piede che teneva il tempo delle parole.
Nathaniel abbassò gli occhi e incontrò la chioma bionda, rinvigorita dalla luce e il profilo deciso della mascella di Anders.
— Avevo soltanto dodici anni e da queste mani ho evocato le fiamme. Il fienile è rimasto illuminato per tutta la notte da una gola di fuoco... è stata divorata ogni cosa. I muggiti erano così tristi. Tremavo e piangevo senza più vedere.
Nathaniel trattenne il respiro, i palmi portati sulle ginocchia.
— Chi chiamò i templari?
— Mio padre. Gli dovevo un risarcimento, in fondo. Quale miglior prezzo della giovinezza, della bellezza del mio naso e della libertà? Avrei dovuto essere più caro.
— Eri ancora un bambino, Anders.
Scosse il capo e si ostinò a immergere gli occhi nella fiamma che divampava. Essere traditi dal proprio padre: gli parve di tracannare gli intrugli medicamentosi di sua madre, al pensiero.
— Vorresti tornare dalla tua famiglia?
— Per essere denunciato alle autorità in cambio di denaro? Amico, no.
Nathaniel annuì debolmente. Fra le fiamme scorgeva se stesso, ancora bambino, correre dietro ad Anders e scoprire cosa significasse vivere dove il grano s'indora e il grecale sferza con durezza le imposte, spaventando le pecore. Vide la propria esistenza miserabile di primogenito decaduto agli occhi del genitore e le parole che sancivano il suo allontanamento da Amaranthine.
— Mi ha salvato la vita.
— Che cosa? — chiese Anders.
Perdere ogni cosa.
Tirò le labbra e masticò le parole che avrebbe desiderato rivolgere all'Arle suo padre. I capelli ricaddero sulle spalle, tracciarono una linea di confine oltre la quale Anders non doveva spingersi.
— Trascorrevo tutto il tempo possibile nella sala dei trofei. Sentivo lo sguardo degli antenati misurare la mia stazza e aspettarsi il massimo come loro erede. Sono cresciuto all'ombra della gloria, delle battaglie dei ribelli di Re Maric, delle gesta dei custodi grigi... e mi hanno lasciato alle cure di uno chevalier: un orlesiano.
— Un grande salto di qualità, direttamente nella reggia di un nemico del Ferelden.
Nathaniel emise un sospiro: — Ser Rodolphe Verley è un cugino di mia madre.
— Un traditore in famiglia... manca qualche filatterio nascosto per essere una buona storia da presentare nel Circolo.
Anders trattenne Nathaniel per un gambale, mentre questo si ribellava e palesava il proprio malumore.
— È stato il mio maestro. Ho giostrato in un torneo grazie a lui.
— E hai conosciuto nuovi vizi degli uomini, direi.
Nathaniel si schiarì la gola.
— I motivi per cui ti tenevano rinchiuso in gabbia... credo di capirli, mago.
— Avevano paura di perdermi, immagino.



Il sentiero è confuso, cancellato dalla pioggia, che scroscia e gonfia i torrenti, si adatta alla terra e ne stravolge i lineamenti.
— Ricordami perché non possiamo fermarci in una locanda, cambiarci d'abito e asciugarci davanti a un bel focolare, sorseggiando del vino...
Nathaniel posa il piede sulla radice di un pino. Dosa il fiato e socchiude le palpebre per contemplare il paesaggio tra il fitto del rovescio. Il ticchettio dell'acqua lo investe: è accaldato dal cammino e le vesti molli lo appesantiscono; la sua naturale agilità ne risente.
— Anders, non siamo in viaggio di piacere.
— Credevo che fra noi le cose andassero meglio.
— Figurarsi, — sbuffa, ma ammorbidisce le labbra e continua a indagare fra i profili dei tronchi. Avverte nelle ossa un presentimento: è l'istinto da arciere a suggerirgli di tendere l'arco e affinare la vista.
— Quella Velanna ti distrae parecchio.
Nathaniel strofina la guancia sulla spalla ed esita, poi sibila a denti stretti: — Che mi dici di Karl?
L'andatura goffa di Anders rimane sospesa e la sterpaglia non si sgranchisce sotto le suole consunte dei suoi stivali.
— A qualcuno piace vegliarmi mentre dormo. E non si tratta di Ser Pelosotto, a quanto pare.
— Sei tu che mi hai preso per un giaciglio, mago.
Usa quel titolo per respingerlo, per acuire le loro naturali differenze e nascondere le somiglianze.
L'acquazzone s'intensifica, gravando sulle loro voci.
— Sussurri quel nome ogni notte, Anders. Credo che...
Un grido femminile piomba sul fogliame e sguazza nelle pozze limacciose: una sassata che scuote i fuscelli più smilzi.
Nathaniel scatta in avanti, adoperando i fusti dei tronchi come riparo. Al primo crocicchio, sotto due cadaveri, una donna invoca aiuto, la voce incerta e spossata: l'acqua le giunge alla bocca e annaspa, fra uno sputo e un singhiozzo.
— Anders! — urla Nathaniel e si precipita a spostare le carcasse armate. Una cotta argentea si palesa, sporcata dal sangue.
— Non puoi chiedermelo: è una templare.
Si studiano: Anders ha uno sguardo diverso dai soliti, crudele, e non si piega alla ragionevolezza che spinge Nathaniel a soccorrere la sconosciuta. Prova più volte a chiamare il compagno, a spronarlo per mezzo di quella strana attrazione che li lega e li allontana.
— Resta qui e non fare nulla.
Anders si china, i passi di Nathaniel si attutiscono, sono soltanto salti di un bambino senza peso nelle pozzanghere. Gli concede di obbedire, ma esamina la donna con crescente interesse, come di fronte a una bestia rara; e forse comprende cosa provino carcerieri come lei nel tenere in pugno le sorti di una vita...
In tralice, gli occhi valutano la carnagione cerea, le iridi su cui troneggia qualche ciocca ramata.
— Perché sei qui?
È una domanda che cade al suolo e scivola nel fango, si corrompe e resta sommersa, fissa nel ventre della terra; lì ribolle.
— Che cosa cercavi? Altri maghi da torturare, confinare in una torre?
Osserva la ferita che le trapassa un braccio: è grave ma non mortale.
— Sei... quel ricercato...
Anders le sorride assente, la mano che preme su naso e bocca; scivola con lo sguardo alle gambe che si dibattono nella ferraglia.
— Ha ragione Giustizia: occorre agire per ogni mago oppresso dalle vostre catene.


— Cos'è successo?
Nathaniel soppesa i lineamenti di Anders con diffidenza, un tratto comune agli uomini del Ferelden. Punta gli occhi sui graffi al polso, che il mago copre.
— Ser Pelosotto ha bisogno di una limata alle unghie.
Si sfiorano appena con una spallata, come due estranei che sanno soltanto ferirsi, incapaci di avere riguardo per l'altro. Nathaniel ripensa ai baci nelle notti senza luna, ognuno ombra del compagno, avanzo della morte che cammina fra i vivi. Capisce che hanno perso, non soltanto bevendo sangue corrotto dalla coppa, durante l'Unione. Una parte di loro giace già coi cadaveri: erba calpestata da un conato d'acqua piovana.



Di ritorno al campo, Vera Cousland li accoglie, le mani poggiate sui fianchi e i gomiti larghi; gli spallacci di cuoio grondano acqua e le gote brune appaiono più scure ora che la pioggia le sottolinea. Oghren e Sigrun discutono accanto al falò, sotto la sporgenza di una roccia, dandosi pugni sordi contro le armature naniche. Il Custode va loro incontro e infilza i conigli da arrostire sul fuoco, chiudendo qualsiasi improperio sulle "femmine che credono di mettere un nug sul naso di un fottuto guerriero e fregarlo".
Oghren si ritira a piedi scalzi: il tanfo delle sue calzature, gonfie come uno stagno, affloscia i fiori qualche metro più in là, con grande disappunto di Velanna. A ben guardare, la dalish è piantonata da Giustizia e dal suo corpo marcescente preso in prestito, che cade a pezzi e appare sempre più in linea con la sua natura di cadavere impossessato. Da lontano, ammette Nathaniel, anche lei pare una bambina in castigo per diretto volere di un padre integro.
Mentre scorre la sua nuova famiglia e il volto si adombra di cupe memorie e mancate opportunità, cerca Anders.
— Novità, Howe?
Vera vuole risposte: è il suo tono inquisitorio a esplicitare la richiesta, il modo in cui attende, sgranchendo le gambe di continuo, come una bestia indomita col bisogno di correre sui prati, che ignora etichette e formalità. Di zaffiro ben tagliato è il suo sguardo, non meno letale per un malfattore o un ladro di cuori.
Nathaniel si domanda, dal giorno in cui gli è stata risparmiata una morte senza onore, quale espressione Vera ha riservato a suo padre, prima di giustiziarlo. Eppure cova il dubbio di non volerlo sapere, perché un nodo alla gola lo soffoca quando richiama la scena di fronte.
Sostiene l'atteggiamento irrequieto del Comandante e apre bocca, senza battere ciglio. Accanto a sé, avverte Anders irrigidirsi, torcere le mani e posarle sul dorso di Ser Pelosotto.
— Cadaveri: tre templari... gli stessi che cercava Bann Roderick. L'unica sopravvissuta è spirata prima che riuscissimo a scortarla qui.

Nathaniel tace. È asciutto al solito, ma ha coperto un omicidio; questo non è da lui. Anders alza il mento e dirige il volto verso la schiena del compagno, ancora incredulo. Macera un "perché" fra i denti e trova pretesti per punzecchiare i due nani e districare le proprie incertezze. Più spesso torna a disegnare le spalle curve dell'arciere, accomodate in un angolo discreto. Ha preso in simpatia questa sua riservatezza cocciuta, che è genuino desiderio di vegliare sugli altri da una posizione defilata. Quasi si sente male al pensiero di aver dubitato di lui: se la prende con il passato, con la lontananza da Karl, con i momenti critici della sua vita...
Nathaniel trascorre il pomeriggio a preparare frecce, ricavate da qualche ramoscello ancora flessibile e giovane ma non troppo; perché c'è il rischio che si riveli eccessivamente tenero al momento del tiro.
Sa di essere osservato da Anders: con la coda di un occhio intercetta in più occasioni le passeggiate nervose dei piedi, l'improvvisa battuta di arresto e i silenzi in cui si immerge. Sputa fra le selci e riprende a lisciare il legno, a seghettare il capo su cui sistemare i triangoli in ferro.
Le dita formicolano per la stizza: ha agito d'impulso e la lingua si è mossa a briglia sciolta e adesso deve fare i conti con i sensi di colpa e la responsabilità di aver mentito.

*


— Cosa credi che importi? — tuonò Rendon — il potere è tutto. Una menzogna può aprire un regno vicino: alleanze, scorte alimentari, uomini!
Nathaniel massaggiò la guancia velata di rosso: bruciava come il moto di ribellione nel petto.
— Padre, non è nobile, — si azzardò a replicare, gli occhi illuminati dalla tenacia, finché scorse il disappunto del genitore.
— Chiama tuo fratello.
Convocare Thomas divenne la sua occupazione principale e il tempo che divideva in compagnia dell'Arle si ridusse alle cene, ai ricevimenti: "versami il vino", "vi ho presentato mio figlio Nathaniel?". Gli era chiaro che intendesse: — Non so che farmene di lui, interessatevi alla sua sorte. E le ore nella sala dei trofei si allungarono, persino quando il ritratto del nonno fu spostato, nascosto alla vista come un'onta. Nathaniel, i pugni che sostenevano le gote, assicurava agli avi la sua fedeltà al casato; la cenere poteva credere in lui.


L'imbrunire li coglie di sorpresa: il fogliame è umido e la terra morbida occulta zolle talmente soffici che le ginocchia potrebbero essere inghiottite.
Sono una strana comitiva di reietti e individui traditi e usati; il più pulito ha qualche recriminazione e un paio di morti ammazzati da giustificare e, nonostante tutto, Nathaniel si sente a casa fra queste persone dirette e rozze, che affogano nella colpa e tentano di ripulirsi. Poi guarda Oghren e le sue dita nel naso, che finiscono per grattare una natica e rettifica: preferisce gli individui spontanei, purché non siano barbari.
Intirizziti dall'umidità, si stringono attorno al fuoco e alla legna ancora asciutta nel piccolo carro, coperta da pesanti teli di stoffa ruvida. L'un l'altro fissano i segni vergati dal viaggio sull'incarnato, la fame patita e le impressioni della gente comune.
Portano addosso il razzismo dedicato ai diversi, ai defunti che ancora calpestano la terra dei vivi; alcuni anziani hanno sulle guance il rossore del vino annacquato alla buona e le storie alticce su Re Maric e sugli eroi dei Flagelli. C'è chi vede del potenziale in questo ordine di uomini e donne che giurano di morire per salvare altri che mai conosceranno le loro pene.
Così, tanto differenti fra loro, se ne stanno di fronte alle fiamme e di sottecchi indugiano sull'ospite d'onore: l'uomo che uomo non è, la carcassa di uno di loro, che cammina grazie a uno spirito, un ideale di giustizia. D'un tratto, si scoprono fragili e appesi all'esistenza al pari di un vascello contro i flutti: i loro corpi tesi come le palanche sofferenti all'azione del vento, gli occhi appesantiti dal sonno e i denti che battono di fronte alla loro meta comune.
Nathaniel poggia il mento sulle braccia e lo struscia contro il manto di scarsa qualità; gli ricorda i modi rustici della gente dei Liberi Confini. Le riflessioni si alternano ai rutti di Oghren, all'orrore di Velanna per il nano, alla replica di Sigrun, che sa essere competitiva. La vita scoppia tra le fiamme e il calore della sbronza li raggiunge tutti, eccetto Giustizia. Anders sguscia via dalla festa e guizza verso la foresta bagnata. Riluttante, Nathaniel lo segue e molleggia le gambe di passo in passo.
— Ehi, dove credi di andare?
— Dove non ci sono persone che recitano il ruolo da templare. Sei il mio nuovo sorvegliante, Nate?
— Sono l'uomo a cui devi una spiegazione, — ribatte, il fruscio delle foglie che annuncia la propria vicinanza. Anders stringe i pugni e solleva e scuote il capo.
— Quella donna non è morta da sola. Respirava quando ti ho lasciato e i suoi occhi si aggrappavano alla vita come facciamo tutti qui, — comincia, alzando un dito per volta, — perciò dimmi com'è andata.
— Cosa può capirne l'erede dell'Arle?
C'è una smorfia amara che sporca le sue labbra. Nathaniel si risente, afferra un braccio di Anders e lo guarda in cagnesco.
— Parla!
— Vuoi sapere come l'ho uccisa? Ho fermato un'assassina! Mi ha costretto... — alza la voce ed esplode, spingendo Nathaniel.
— Avevi una scelta. È questa la tua idea di libertà per i maghi? Uccidere chiunque? Era una donna indifesa!
— Ser Howe è tornato nella sua fortezza, in sella al proprio destriero, — grida Anders, — e con un'armatura scintillante. Sì, era inerme. Vogliamo parlare delle donne elfo che vi spartite voi nobili alla vigilia delle loro nozze? Delle maghe stuprate o messe a tacere nel Circolo? Dei briganti che assaltano le carovane o dei soldati che aggrediscono le vergini?
Si avvicina, la saliva tra i denti ormai ridotta a schiuma di rabbia, a disperazione di uno spirito piegato alla reclusione.
— Tu non hai la minima idea di ciò che vivono quelli come me. Non abbiamo chiesto di avere questi poteri...
Nathaniel lo fissa, livido in volto, le labbra appiattite dalla morsa della dentatura.
— Dillo alle madri, alle mogli, alle sorelle di quelli che sono scomparsi a causa di un abominio.
È a pochi centimetri dalla bocca del mago e le fronde si tendono verso le altre in un tetto di foglie e gocce d'acqua. Il vento le avvicina, alza un ululato che li sferza entrambi.
— È quello che faresti a Vera, se solo potessi. Vuoi che paghi per Rendon Howe, perché quel mostro era pur sempre tuo padre.
Le mani di Nathaniel lo afferrano e tirano la tunica all'altezza del petto; lo scagliano a terra, lo voltano, piegano un braccio: è una belva impegnata a sbranarne un'altra.
— Smettila... mago, — gli intima, con il petto che si gonfia e abbassa, le iridi iniettate di sangue.
— Vorresti trapassarle il petto con una delle tue frecce, come lei lo ha squarciato a te...

Nathaniel è lontano: la presa ferrea delle dita, le unghie nella carne... e il fuoco, i cantieri di manovali, visi sconosciuti che invadono la sua dimora e la popolano. Dinanzi a lui la terra trema: ad Amaranthine c'è altra vita e quanto sopravvive degli Howe si limita alle stanze nude, spogliate dei loro averi, agli arazzi trafugati, ai dipinti dati alle fiamme e non ancora bruciati. Accarezza i luoghi della sua infanzia e realizza che niente è destinato a durare: la speranza di tornare vittorioso, di essere accolto come un eroe, è il sogno di un fanciullo vergine del mondo e dei suoi meccanismi.
Gli monta addosso la rabbia, quando i nuovi abitanti della fortezza lo chiamano ladro: lui che conosce a menadito i passaggi fra un piano e l'altro, trattato come un pulcioso borsaiolo!
— Neanche tu hai un posto dove tornare e sai di essere solo.
Anders, in ginocchio, singhiozza.

*

— Mi hanno destinato a Kirkwall.
La voce di Karl è sommessa e ciò che lo sorprende è proprio quanto sia esile se paragonata al volto pieno di vita e agli occhi fermi. Oggi Karl non è nulla: erra con il volto, si guarda attorno con circospezione, sospira ed espira ogni pena.
— Anders, non voglio lasciarti.
— Fuggiamo assieme...
È la prima volta che lo chiede e ha timore di alzare le iridi e incontrare il rifiuto del compagno, ma si arrende alla curiosità e al bisogno di conferme.
Karl sfoggia un sorriso da guancia a guancia e poggia la fronte contro la sua; Anders socchiude le palpebre sino a lasciarsi andare, le labbra pronte ad accoglierlo. Il bacio arriva, carico di disperazione, in cerca della pienezza che fa gola ai prigionieri, ai calpestati, agli umili. Svelano la crudeltà di un'esistenza che nega le loro identità e mescolano saliva, piacere sottratto alle torture, gemiti che sotterrano il pianto delle notti in cui erano separati, per il divertimento dei carcerieri. Le vesti frusciano come foglie ed entrambi vorrebbero mostrarsi in tutta la loro blasfemia di eretici e imporre ad Andraste di arrossire, mentre consumano e saziano l'impaziente urgenza di appartenersi.
La barba di Karl è inchiostro sulla carnagione nivea, chiazzata da pozze rosee.
— Non posso... hanno bisogno di me, Anders.
— Anch'io, — mormora d'un fiato e travolge la bocca per metterlo a tacere, per dare spazio alla resa, all'abbandono del corpo.
Lo pensa ancora, quando vede Karl allontanarsi. Segue la sua schiena, che diventa un saio circondato da silverite argentea e, in seguito, un portone che assorda, coi battenti chiusi d'un colpo.
E il rumore, che torna a martellare la sua solitudine, la prova di essere distinto e non più un unico col corpo di Karl, lo strazia, lo tormenta, lo annienta. Anders invoca il sonno nella monotonia, nel grigio ripetersi di nottate insonni, che tagliano le grida degli ustionati, dei maghi dalle dita amputate e dalle lingue mozze e le risa dei templari. Prova disgusto per tutti, diffida di ognuno di loro: portano spade avvolte dalle fiamme, grifoni bianchi, ma di candido hanno indosso esclusivamente i peli che imbrattano corpi innocenti; e fra loro esistono codardia e silenzio.

*


Nathaniel lo scuote. Anders spalanca le palpebre e avverte dei singhiozzi: abbassa lo sguardo sul torace che si espande e svuota a ritmo veloce, senza capire di emettere lui stesso quei singulti. Sente le braccia di Nathaniel che gli cingono la schiena e la sua voce da un'altra frontiera, che gli sussurra: — Mi dispiace.
Si avvinghia a lui, cede all'istinto di saggiare la sua carne, di trovare riparo in questo scudo di pelle e ossa severe.

— Al Comandante piace vederci assieme. Mi sento lusingato da tutto questo voyeurismo: sesso e vino, sesso e sangue.
— Al Comandante piace vederti faticare, — lo corregge Nathaniel, il viso intento a calare in picchiata sulle valli coltivate, — che significa obbligare me a sgobbare, perché tu non rimanga in panciolle ad accarezzare il gatto.
— Ser Pelosotto, Nate.
— Il gatto. Non costringermi a chiamarlo con quel nome.
Tendono le orecchie e odono uno scroscio provenire a pochi passi dalla loro posizione. Si fanno largo fra ceppi di arbusti. Oghren scrolla il membro ed emette un verso sguaiato e soddisfatto.
— Hanno ragione quei dannati damerini tutti fiocchetti e spade larghe quanto uno spillo, — afferma, maneggiando la merce e rivoltandola nei pantaloni, — il Ferelden puzza di piscio e pelo di cane. O era cagna? Non fa differenza.
Dà una pacca all'addome di Howe, prima di tornare in formazione, e Nathaniel serra la mascella e fissa il cuoio adornato di qualche pelo pubico rossiccio. Alle spalle gli arriva lo schiaffo di un risolino soffocato. Diventa legnoso e alza il mento.
— Non una parola, Anders.



Tra le famiglie di fattori e la lana delle pecore, ha la sensazione di udire il pianto di sua madre nel giorno in cui i templari lo condussero al Circolo. Ciondola con il capo, picchietta la tunica per sbarazzarsi dei ciuffi d'erba, ma percepisce di essere sporco.
— Non vogliamo maghi qui.
È la faccia bruciata di un contadino, coi denti anneriti e gli incisivi mancanti. Aspira le parole quando le pronuncia e Anders ha l'impressione spiacevole di essere risucchiato fra le labbra umettate.
Alla porta della locanda sostano curiosi e uomini armati di forcone: i loro sussurri si rincorrono come le creste di un greto e fanno rumore, un acciottolio di sassi gettati contro interi massi.
— Rimarrò fuori dal villaggio.
Nathaniel si volta e spalanca la bocca, trattiene il pugno, diviso fra la povera gente e l'amico. Fa cenno agli altri di proseguire e s'incammina verso il cascinale in rovina.
— Hai proprio un senso del dovere invidiabile, Nate.
— Vado dove voglio. Non si tratta di dovere.
— Nate, la cosa divertente di te è che abbocchi a qualsiasi provocazione.
Anders incassa una gomitata e sorride, di fronte allo stupore di Nathaniel.
— Mi guardi come se fossi uno spettro.
— Sembri diverso.
— Uhm?
— Non ti stai sforzando di sorridere: lo fai e basta.
Anders si gratta la nuca e adagia il capo sulla spalla di Nathaniel. È il suo turno di sbalordirsi: l'arciere non si scosta e rilassa i muscoli. Il desiderio di dirgli grazie gioca con le viscere; tuttavia desiste e annusa le patate che bollono, il sedano messo nell'acqua e l'odore di paglia bagnata.
Quando si sveglia, Nathaniel non è accanto a lui e si sente truffato. Calpesta il terreno con l'indignazione di chi ha scoperto il fianco e gustato il sapore di aver donato troppo.


— Sono preoccupato per Anders.
Shem, non credo che mi riguardi.
— Non hai notato i suoi sguardi assenti?
— Il tuo problema è che ti curi degli affari altrui e non sai risolvere le tue faccende, — sbraita Velanna, agitando le mani e battendo un pugno sul palmo aperto, — e pensi di curare i mali del mondo con qualche parola? Dimenticavo: neanche sai dire ciò che provi. Cosa mi aspetto da un umano?
— Velanna... — la interrompe, due dita che massaggiano la fronte e cercano un modo per iniziare il discorso.
— No, non cominciare, — punta l'indice con fare accusatorio e si sporge a puntellare il petto, — e trova piuttosto il modo di dichiararti. Fa' qualcosa, ma non immischiarmi.
Nathaniel la osserva: minuta, traboccante di risentimento per la razza umana e in esilio per cercare sua sorella. "Il mio unico pregio è che la amo", gli aveva confidato un giorno e lui aveva ricordato la scontrosità di sua madre, ribelle tra i sudditi, padrona e schiava in seno alla famiglia. Non si sarebbe mai arresa al dominio del marito, ma avrebbe combattuto al suo fianco nella guerra per il potere, dominata dalla medesima ambizione che muoveva il capofamiglia degli Howe.

Quel giorno in cui Velanna si era svelata, come un petalo si china alla carezza sincera della rugiada, Nathaniel le aveva teso una grazia di Andraste. Velanna, colta di sprovvista, ne aveva interrogato gli occhi e le sue ciglia si erano curvate sulla corolla bianca, sullo stelo odoroso, strappato alla vita incolta e selvaggia. Sulle pupille balenò una lacrima, mentre annusava il fiore tanto da sfiorarlo e rabbrividire al contatto. Le sue labbra lo carezzarono per caso, avvertendo la pelle vellutata dei petali. Nelle sue iridi guizzò l'ira per le lusinghe umane e la loro vanità d'intenti; allora, alzatasi, respinse Nathaniel e vibrò un colpo col suo bastone.
— Siete tutti uguali! Brandite la spada e vi attaccate all'esistenza dei più deboli... li consumate come parassiti!
Anders si era fatto gioco di quel tentativo d'ingraziarsela e aveva porto un fiore di campo a "Ser How, patrono delle maghe folli". Gli aveva lambito il profilo della mascella e sfiorato le labbra, scostando il dono all'ultimo momento, per rimpiazzarlo con la sua bocca. Dopo erano stati un groviglio di lacci tra le dita e fiori premuti contro i capezzoli, sotto la schiena.

Nathaniel osserva Velanna e vede una creatura ferita, imbevuta di orgoglio, incapace di tendere la mano oltre i suoi modi bruschi.
— Ti ringrazio, milady.

Anders li guarda: sono lontani da tutti e da tutto ed è sufficiente questa intimità a trafiggergli il cuore; le dita trastullano una corolla, la spiumano con la violenza riservata al pollame e l'abbandonano a terra.
Ha chiuso con le ferite e l'animo spezzato da una fiducia mal riposta; ed è vento freddo a penetrare le carni, a distendere le sue falcate, quando s'imbatte in un cadavere.

— Hai pensato a ciò che ti ho chiesto, Anders? — Giustizia si annuncia alla guisa di una spada sul capo di un condannato a morte, — non mi è rimasto molto tempo... e devo consegnare i resti di Kristoff a sua moglie. Mantengo sempre la parola data.
Le iridi di Giustizia mostrano il velo della morte o dell'Oblio?
Anders ha gli occhi gonfi di lacrime e li indirizza all'orizzonte. Crede di vedere il Mare del Risveglio, di sentire le guance pizzicare per gli spruzzi di salsedine e acqua vivace; crede di trovare la pace nei mulinelli della corrente, che torturano le navi mercantili e le stive in cui sono stipati schiavi da vendere. Sotto il suo sguardo ci sono ondate d'erba battute dai refoli: di ciuffo in ciuffo, la natura ammonisce i figli della prossima tempesta. Agli uomini serve una rivoluzione, non la pace di chi svia il volto per aver salva la vita.
Si stringe nelle spalle e abbraccia ciò che resta del vecchio se stesso, dell'illusione di avere accanto Nathaniel, del sogno di essere libero. È consapevole di dover scegliere e di essere alla mercé delle conseguenze.
Il viso di Nathaniel assomiglia alla terra ai propri piedi, angustiata dagli incendi, ai conflitti tra i popoli, che si traducono in una trincea di rughe sulla sua fronte, strette quanto i filari dei terreni coltivati.
— Dopo la battaglia, Giustizia, sarò il tuo nuovo corpo, — stabilisce con una singola sentenza.

*


Un'ugola di stalattiti vibra nella caverna all'urlo di guerra di un genlock. Nathaniel incocca una freccia e chiede alla punta avvelenata di divenire il suo occhio, la sua mano per abbattere il nemico; gli risponde il sibilo che diventa gemito e fiotto di sangue sul corpo piantato, intento ad agitare una mazza. Ondeggia e fende pulviscolo; al volto dell'arciere giunge una folata, seguita dall'onda d'urto della testa arrugginita: sulle punte grezze ancora segni incrostati di carne umana.
Nathaniel salta all'indietro, evitando il colpo, la caviglia che cede sull'appoggio e il corpo sbilanciato contro la fiancata: frammenti di roccia rotolano nel precipizio a un passo dalla sua schiena, come grani di sale su un'ultima cena, e gli occhi grigi trovano soltanto oscurità, flutti di pece solcati dal riso rauco della creatura.
La pietra muta racconta della storia nanica e nasconde carcasse fra tele di ragno e bozzoli bianchi come tombe monumentali: dentro, i corpi giacciono immobili e assomigliano a statue levigate dal terrore. Della loro esistenza avanzano i denti, in un bieco sorriso che accoglie i nuovi arrivati.
Nel buio gorgoglia lo stomaco dell'anfratto: otto zampe ticchettano contro le pareti e sale l'eco stridente di una donna atterrita; se solo non conoscesse il trucco, pensa Nathaniel, sarebbe già fra le fauci di un ragno, spinto dai suoi ideali di cavalleria. Avvinto dal fetore della carne corrotta, ode suo padre schioccare la lingua e sentenziare: — Coi principi si finisce dritti fra le braccia di Andraste, su una pira accompagnata dal canto delle sorelle.

È in un angolo a deglutire e a portare alle labbra le poche gocce d'acqua rimastegli, quando scaccia l'immagine brizzolata del genitore e la necessità di sopravvivere corre più delle sue gambe. Getta lontano da sé pure la sacca vuota, sperando che il rumore si riveli un diversivo efficace il tanto che basta per crearsi un varco e fuggire.
Il genlock avanza e scaglia l'arma al suono di un tonfo ripetuto: è la condanna o forse il cuore dei sotterranei; e il suolo danza, traballa annunciando morte e cibo fresco, dal sangue caldo, per ciascun ospite. Nelle Vie Profonde, fra l'aria satura di prole oscura e l'olezzo di zolfo, si è vittima della nostalgia e s'invidia la brezza che scorre sulle guance, i moniti sbraitati ai mabari che portano doni insulsi, il cielo incerto e complice dei banditi. Dagli spiragli naturali la vita si mostra quale fessura: una palpebra socchiusa, accecata dalla luce di territori tanto distanti da apparire irraggiungibili a chi è seppellito nei thaig.

La mazza piccona i licheni intrecciati, barba di nano su un viso scavato da un macigno. Gli spuntoni si arrendono e rovinano sugli addomi degli aracnidi. Il cuore pulsa e pompa adrenalina, la sparge sino a percorrere ambedue le braccia di brividi: Nathaniel piomba sul genlock ferito, i piedi in equilibrio sulla calotta storta e incassata nel collo. — Muori, — ordina, con la veemenza che gli hanno sempre rimproverato di non avere. Dovrebbero vederlo ora, armato di coraggio, solo e fiero. Solleva ambedue i pugnali, dà lo slancio alle gambe e capriola, affondando nell'aria e tracciando i punti scoperti del dorso con la lingua appuntita delle lame.
Sdrucciola a terra, mentre la torre di membra putride crolla e piega le ginocchia in un richiamo disperato.
Nathaniel scorre la protezione in cuoio sulla fronte: coi capelli che gli cadono accanto agli zigomi sporgenti, sembra un nido di occhiaie orlate di altro nero. Si rialza a fatica, lo sguardo impolverato dalla stanchezza e il febbricitante bisogno di resistere, di vivere un'altra notte eterna entro i recessi di queste caverne.
Ruota i pugnali dalla coda serpentina e arriva alle spalle del genlock. Il sottile fiato di vento ulula da un costone all'altro, col suo messaggio di morte: è il riflesso argenteo del filo a guizzare sulla gola dello sconfitto. Rigagnoli scuri gli colano addosso.
— Questa, se non ti spiace, la riprendo io.
Nathaniel estrae la freccia dalla carcassa e la suola degli stivali spinge a fatica il genlock nel vuoto.
Scrolla le spalle, agghiacciato dai primi sudori freddi per lo sforzo.
— Un mortorio, eh. Maledetto Anders.
Pronunciare il suo nome in solitudine, sotto una cupola nanica, lo spinge a considerare la propria piccolezza e la vastità degli eventi. Le labbra si distaccano a stento l'una dall'altra, trattenute dall'arsura: bruciano, ma i pensieri si offuscano e tornano al mago. Le polveri calano e le travi in legno, che reggono i cunicoli, si lamentano. Col fiato corto, Nathaniel fatica a distinguere i suoni. Sui pugnali c'è una scia scura che si unisce al ferro: ha un odore ripugnante. Esita, la mente rivolta al giorno in cui subirà la Chiamata e morirà per non condividere la sorte della prole; il suo sangue è già marchiato e un giorno avrà lo stesso olezzo.
Straccia un lembo della casacca e lo lega attorno alla caviglia dolorante, le tempie che battono per ricordargli di rimanere pronto e cauto.
Anders riderebbe del suo modo goffo di annodare il cencio alla pelle; grugnisce e si guarda attorno, aspettandosi di udire la voce carica di malizia. Lascia andare le dita con rassegnazione e controlla le unghie nere, i calli per cui dovrebbe ringraziare Ser Rodolphe. Sul dorso delle mani ha una striscia di carne indurita, che non avverte più il calore. Teme di essere diventato anche lui un mostro che non conosce la pietà, che sguaina il ferro vinto dal desiderio di uccidere.

Dove non giunge la luce, c'è un velo di predatori che attendono un pasto.
Nathaniel si solleva e percorre a ritroso il sentiero: il sangue gli suggerisce che la prole oscura si è spostata. Il nugolo di mosche tace e i pipistrelli scivolano dai massi alle assi di legno, distendendo le ali notturne.
Sulla spalla porta l'arco di suo nonno: solido e agile nell'azione. Le venature indicano gli anni trascorsi a Nathaniel: differenze nello stile di vita e nel pensiero, ma morale intatta. Si sente smarrito e una guancia prude per il morso di una zanzara.
Zoppica e a ogni passo prova dolore, sente di trascinare la propria vita alla stregua di uno shriek, che striscia le carni vive contro la nuda pietra.
Ha un moto di orrore quando sulla spalla avverte un peso e la mano s'impiglia in una collinetta vischiosa.
Nathaniel alza gli occhi e incrocia il corpo gigantesco di un ragno: il ventre tremola e palpita; si è reso cuore pronto a esplodere una tela per imprigionarlo.
Si tuffa in avanti, grattando i piccoli massi che si affiancano sul sentiero. La pelle si apre e permette al sangue di baciarne i tratti; la mano che tende l'arco perde il guanto.
Il ragno si gira su se stesso e balza a terra, mentre Nathaniel striscia e procede verso la fine del cunicolo. Colpisce la terra con il palmo e tenta di rialzarsi, ma un piede è strattonato, appesantito. Gira gli occhi e fissa il bozzolo che lo lega alla creatura. Prima che gli cada addosso, tira la gamba e tenta di tagliare il filo spesso. Il ragno flette l'addome e lo gonfia; le setole sulle zampe aggiungono una nota sinistra alle sue strida. Senza alternative, Nathaniel sfila lo stivale e rotola su un fianco.
Non è uno soltanto: il passaggio ospita una colonia di ragni, richiamati dal genlock: assieme sono sussurri di streghe, preghiere eretiche, abomini.
Le labbra di Anders gli baciano le ciglia, si frappongono al sentore di morte che si allunga a tormentarlo. Se morirò qui, si dice, non sarà arrendendomi.
Le iridi di Nathaniel saettano e valutano dove muoversi. Nota un filo teso ai piedi di un varco e allunga le falcate, i denti stretti che scavano le gote: si slancia e nega le proprie pene, con un urlo che rimbomba nella gabbia toracica del cunicolo. Scaglia un sasso contro la corda sottile e ascolta la trappola scattare.
Ha appena il tempo di appiattirsi sul terreno polveroso, di roccia ridotta a sabbia, su cui strisciano protei e scarafaggi, prima che una palla di fuoco si scaraventi contro i ragni. Le fiamme fratturano le loro zampe e si levano gridi scaraventati quanto una tempesta di frecce. Il rogo ingurgita e mastica le sue vittime e Nathaniel si abbandona alla luce vigorosa che emette.
Un ragno impazzito corre verso di lui, le prime zampe sollevate e il dorso lambito dal fuoco.
Preso alla sprovvista, porta un braccio sul volto e stringe le palpebre. Le tenebre non gli regalano la pace che vorrebbe e si dà dello stupido per non essere riuscito ad allontanarsi. Resta immobile quando annusa il fetore nauseabondo di un liquido che gli è colato addosso, dopo gli acuti dell'essere.
— Finirai per prenderti un malanno se resti lì; anche se non mi spiace guardarti ai miei piedi, a mangiare polvere.
Nathaniel sbarra le palpebre, si sgranano come uscite da un guscio. Muove il peso sull'arco usato come una leva e, frattanto, chiede a suo nonno di perdonarlo. Si issa, sentendo nel corpo il peso di più anni rispetto a quelli che dimostra.
— Anders? - mormora.
— Sei così incredulo... mi aspettavo un'accoglienza diversa.
Nathaniel si avvicina di un passo, convinto di essere impazzito e fissa il ragno dietro di sé, trafitto da una lancia di ghiaccio.
— Dove... — balbetta e sviene, barcollando sino al petto del mago.

*

Eliane incrocia le braccia e lo bacia sulla fronte: neanche avverte il tocco delle labbra. Nathaniel guarda il ronzino che gli è stato destinato: denutrito, i fianchi costeggiati da pelle scorticata e pelo rado. Probabilmente morirà prima di giungere a destinazione. Aveva immaginato un addio commosso e di promesse solenni, quelle riservate agli uomini di valore. Sua madre ha poche parole di congedo; la più inconsolabile è la sorella minore, utile ai disegni paterni, già pesata come merce di scambio politico. Lo abbraccia con forza inaudita: è disperazione e insieme preghiera. Non lasciarmi sola, sembra rinfacciargli, salvami!
Nathaniel le sfiora i capelli, segue il contorno dolce del viso ancora acerbo e mormora: — Tornerò a prenderti.
Parole al vento che accompagnano la giovinetta in lacrime nelle sue stanze.
L'Arle è intento a scrivere missive: la piuma, imbevuta d'inchiostro, è vergata sulle pergamene con uno scatto isterico e il timbro del casato in ceralacca. Piega il viso e analizza brevemente cosa accade in cortile. Apre bocca e chiama un servo: — Di' loro di partire.
Eliane osserva il figlio a occhi rimpiccioliti: è uno sguardo avido, che conserva e accumula dettagli. Non s'illude di vedere come diverrà il suo primogenito e così deve accontentarsi di un'ultima occasione.
— Fa' del tuo meglio: che non si dica che un Howe si è rammollito e non sa servire chiunque sia meritevole dei nostri servigi.
È altera e risoluta, il mento appuntito e l'aspetto austero, d'improvviso secco e magro. Penetra l'orizzonte, come una macchia scura, e fissa la schiena di suo figlio diventare un miraggio dettato dal sole, sottile quanto il ricordo del suo primo vagito.
Lo lascia andare come l'ha perso, quando lo aveva dato alla luce: sgonfiato il grembo, ritratte le braccia amorevoli e il seno vuoto di latte; anziché assistere all'infamia del suo sangue, Eliane ha preferito bandire il primogenito da Amaranthine e proporre un destino diverso per lui, perché nessun altro osasse disonorare il proprio orgoglio.
Guarda lontano, Eliane; e talvolta il primo frutto del suo ventre ascolta il richiamo silente che lo evoca; Nathaniel le rivolge di nuovo un cenno di saluto, sbracciando la mano d'ombra. Se ne va, senza sapere di sottrarle le poche once di felicità, di orgoglio che custodiva gelosamente.
Se ne va: soltanto allora, con il sole che le infuoca la pelle, Eliane permette agli occhi di inumidirsi.

*


Nathaniel sussulta e uno spasmo lo obbliga a trarre un profondo respiro, che raschia la gola e si riversa nell'aria, diventando un colpo di tosse.
Realizza di essere un uomo e di non tenere più le redini di un cavallo. Negli occhi, cerchiati di sfumature violacee, si delineano le curve rotonde delle profondità della terra. La mano che si occupa delle sue ferite e le allevia, per mezzo di uno strano bagliore, non è quella di sua madre.
— Anders, — sussurra piano, le dita che premono sul fianco sofferente, — non si scampa alle tue entrate in scena...
— Anche per me è un piacere rivederti, — replica, sorridendogli, ma tentenna e si sottrae allo sguardo, concentrandosi sul mana. Si china sulle escoriazioni e passa un unguento per cicatrizzare quelle infette.

Nathaniel distoglie l'attenzione dalle dita che lo toccano e si sofferma sul viso pallido e consumato dal tormento, sul codino biondo e sui peli che segnano la mascella.
— Che ti è accaduto?
Trattiene un polso e accosta le labbra alla pelle chiara, la sfiora e un fremito gli percorre i lombi. Le pupille non vogliono saperne di abbandonare la sua immagine, non ora che è tanto vicina da consentirgli di accarezzarla. I loro respiri s'incontrano: è un tuffo nel passato, una caduta in preda alle vertigini e alle allucinazioni. Nathaniel scorge le iridi calde, la sofferenza trattenuta tra le pagliuzze che accendono le occhiate di Anders; è fuoco che logora e si distrugge.
Anders lo vede e abbassa le sopracciglia, combattuto sul da farsi. Cerca un punto di riferimento dietro di sé, sondando le ombre.
— Sono soltanto andato avanti, — dice, infine.
Nathaniel ne osserva i movimenti, studia la postura e i gesti e arretra, il capo che cerca la terra e il conforto delle alture aguzze.
— È stato così anche per te, Ser How, — soggiunge, nel tentativo di stemperare l'atmosfera.
— Ti avrei appeso alla forca, quando hai usato quella battuta per la prima volta, — sussurra, la voce arrochita dal rimpianto.
Anders non sfila la mano dalla sua; trema appena come le lingue di fuoco che arroventano l'aria e fiaccano i supporti in legno.
— Usi le stesse frasi di un tempo; presto saranno più vecchie della tua tunica. Stai perdendo di mordente?
Nathaniel sente la risata giungere come acqua di sorgente alle orecchie. Chiude gli occhi e la stanchezza gli scivola addosso; gli anni, in cui si angustiava a vedere le loro braccia intrecciate, sono remoti e irriconoscibili... quanto il cielo del mondo di sopra, come lo chiamano i nani.
— Come sta il nostro Eroe del Ferelden?
— Ah, meglio di me, — lamenta Nathaniel, — ma guida gli uomini con il coraggio di un esercito. È una vera Cousland.
— Sei cambiato, Nate.
— La vita ci trasforma. Qui sotto... le cose che ho visto...
Anders gli carezza il dorso della mano con il palmo libero. Non osa di più, nella tregua offerta dalla pietra.
— Qualcuno attende il tuo ritorno?
La domanda di Nathaniel spezza il silenzio.
— È complicato, ma... sì.
Il pomo d'Adamo di Nathaniel sale e scende, si pronuncia come un piccolo promontorio che lotta contro le onde del tempo.
— Sei felice, Anders?
Le mani si stringono e cercano di confortarsi tra loro. Mesi addietro si sarebbero rincorsi, alla ricerca di un prato, dove fingere di essere padroni delle loro vite, votati interamente alla causa della loro felicità: "Sugli uomini piovono obblighi e battaglie che disintegrano l'amore", affermava Anders. E dirsi addio senza mai salutarsi li aveva salvati dal dolore di ritrovarsi e provare un desiderio colpevole. Ora che altri sono loro compagni, si sentono beffati.
— Sì... — geme il mago, con i pensieri rivolti a Giustizia: l'anima scissa in due e la mente arresa, dominata da Vendetta.
Nathaniel lo attira a sé, incurante del dolore che gli mozza il respiro e della carne che soffre. Sa cosa vorrebbe urlare; come Anders gli ha ravvivato lo spirito; e conosce bene i propri desideri, le memorie fluttuanti nelle lunghe veglie dei morti. La chioma di una torcia versa fiele sul ricordo della fuga del mago, sui lunghi giorni occupati a tentare di raggiungerlo, di scovarlo prima fra le gallerie e poi in superficie: andato, come la sala dei trofei, l'infanzia e le giostre in compagnia di Ser Rodolphe. Una spada, una punizione, un lutto non avevano dissanguato Nathaniel allo stesso modo.
Desidera trattenerlo, ma ciò significherebbe ingabbiarlo in una vita che Anders non ha auspicato per se stesso, di nuovo separato dalla persona amata.
Ingolla il boccone, lo guarda con la certezza di vederlo scivolare via dalle proprie dita e dice, in un soffio di voce, incrinata dall'emozione: — Meriti questo e altro.

  
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