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Autore: ilcircozen    29/11/2015    4 recensioni
Sofia e Serena sono un'accoppiata un po' improbabile: la prima, razionale ed estremamente pratica, la seconda, perennemente allegra e con la testa tra le nuvole, di certo non sono le amiche più comuni al mondo. La loro decisione di trasferirsi a Bologna per frequentare l'università porterà loro un sacco di novità: una nuova città, nuovi studi, nuove abitudini, ma soprattutto due nuovi coinquilini, Lorenzo ed Amedeo, che fin da subito daranno alle due amiche non pochi grattacapi. Con una serie di avventure improbabili, Sofia e Serena si ritroveranno sballottate nella loro nuova vita, tra amori, delusioni, paure, ma soprattutto un sacco di guai. Leggete per scoprire se se la caveranno!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1
I NOSTRI GIORNI INDIMENTICABILI
Ovvero come due ragazze non troppo sveglie e non troppo organizzate cominciano la loro nuova vita
 
(Sofia)
Anche se eravamo già a metà settembre, la stazione di Bologna era calda come un forno a legna. Tutta quell’afa non mi aiutava certo a placare il mio umore già di per se piuttosto iracondo. Ero reduce da tre ore di viaggio in treno, ero arrivata con 45 minuti di ritardo, ero piena d’angoscia per l’università che avrei cominciato di lì a pochi giorni e, come se non bastasse, non avevo la più pallida idea di come raggiungere il mio nuovo appartamento. Sbuffai sonoramente, rigirandomi in mano la cartina geografica che avevo comprato per la bellezza di quattro euro all’ufficio turistico. Serena, accanto a me, canticchiava senza sosta. Cose ci fosse da stare allegri, non mi era dato di saperlo, ma d’altronde Serena era arcinota per il suo buonumore pressoché inesauribile. Ed estremamente snervante, aggiungerei.
«Per amor del cielo, Serena, vuoi chiudere il becco? Qui la gente matura starebbe cercando di concentrarsi!»
Inutile dire che la mia cosiddetta migliore amica non mi degnò di uno sguardo e continuò imperterrita a martoriare una qualche canzone comunista nel suo spagnolo raffazzonato. Era sempre stata una fuori di testa, ma partire per tre mesi alla volta del Perù subito dopo la maturità per un “ritiro spirituale” decisamente non aveva giovato alla sua già di per sé precaria sanità mentale. Anche se c’erano come minimo quaranta gradi all’ombra, non dava nessun segno di volersi togliere il cappello di lana che diceva di aver filato con le sue stesse mani durante una scarpinata sulle Ande. Spesso e volentieri mi chiedevo cosa mi fosse passato per la testa quando avevo deciso di sceglierla come coinquilina.
«Guarda che luce incredibile, Sofia! Sembra quasi che i binari luccichino! Non vorresti scriverci poesie, su questo posto?»
Mio malgrado, nonostante il pessimo umore, mi sfuggì un sorriso. Ecco la risposta alla mia domanda, ecco perché avevo scelto Serena. L’avevo scelta perché lei era la personificazione del lato positivo.
«E’ bellissima», le risposi, cercando di mantenere un tono sarcastico giusto per il gusto di non darla vinta al buonumore.  «Ma al momento abbiamo altro a cui pensare. Dobbiamo trovare l’appartamento.»
Serena si abbassò gli occhiali da sole sul naso (ebbene si, il suo outfit assieme al cappello di lana comprendeva anche quelli) in un’espressione assolutamente ebete.
«Come pensi che possa aiutarti? Lo sai che ho imparato la strada per andare a scuola alla fine della quinta liceo.»
Maledissi il senso dell’orientamento inesistente della mia amica e la pessima idea di affittare un appartamento alla cieca. Anche questa, neanche a dirlo, era stata un’idea di Serena. Al momento della ricerca di una sistemazione a Bologna (che risaliva circa a tre mesi prima, prima che lei partisse e diventasse ancor più folgorata di quanto già non fosse), ci eravamo dilettate a cercare un appartamento su internet e a neanche due minuti dal login avevamo trovato due ragazzi di Bergamo, matricole come noi, che cercavano due coinquilini per un appartamento in centro ad un prezzo ridicolo.
«Prendiamoli!», aveva strillato Serena, cliccando duecento volte sul mouse e facendo produrre al computer un inquietante ronzio.
«Ma sei matta? Così, alla cieca? Senza neanche aver visto la casa?»
«E’ in centro, a due passi dall’università, e costa pochissimo! E’ la nostra occasione Sofia, non dobbiamo aspettare un secondo di più!», aveva replicato, scuotendomi ferocemente per le spalle con stampata in viso un’espressione da totale invasata.
«Lo dici solo perché odi usare il computer e vuoi finire il prima possibile! E i coinquilini, scusa? Non pensi che dovremmo quanto meno vederli prima di andare a vivere con loro?»
«E di che ti preoccupi? Avremo un sacco di tempo per conoscerli!»
Avevo tentato di replicare in mille modi, ma per ognuno di essi Serena aveva avuto una replica, che se non era convincente era talmente assurda che non cedere a tanta fantasia sarebbe stato impossibile. Era un’abile sofista ed aveva poteri di persuasione infiniti, questo dovevo concederglielo. Per farla breve, mi ero arresa ed avevamo preso in affitto l’appartamento. Pessima idea, dal momento che a due dall’inizio dell’università non avevo la più pallida idea né di dove fosse, né di come fosse fatto, né di chi ci abitasse.
«Ok, credo di aver capito in che direzione è la piazza. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Ci incamminiamo?»
Serena annuì, carica di entusiasmo, e così prendemmo le nostre valige e ci facemmo strada sgomitando tra la folla. Il mio trolley sembrava pesare due quintali. Rimpiansi di tutto cuore il momento in cui avevo rifiutato il passaggio gentilmente offertomi dai miei genitori. Volevo dimostrarmi pronta a tutto, fare l’emancipata, l’indipendente. Si, indipendente un corno. Improvvisamente, l’idea di mio padre che mi portava la valigia, mi trovava la casa e risolveva i miei problemi non mi sembrava poi così male. Serena, accanto a me, saltellava baldanzosamente sotto gli archi rossi di Bologna, fotografava tutto con lo sguardo, non sudava e sembrava infaticabile. Sentii di odiarla.
«Hai sentito Massimo?», le chiesi, tanto per distrarmi dalla fatica. Massimo era il fratello gemello di Serena ed erano la coppia più affiatata che avessi mai visto. Due terremoti umani con gli stessi capelli rossi, le stesse lentiggini, la stessa risata inesauribile. Assieme erano contemporaneamente uno spettacolo e la peggior disgrazia del mondo. Non c’era occasione in cui non riuscissero a combinare qualche disastro. Anche Massimo avrebbe studiato a Bologna, ma il suo appartamento era fuori città, a Castel Maggiore.
«Lui è sceso già la settimana scorsa. Se la passa alla grande, non c’è che dire. In appartamento sono in cinque e lui è l’unico maschio. Ci verrà presto a trovare, comunque. A proposito, hai più sentito i Bergamaschi?»
«Serena, dobbiamo finirla di chiamarli i Bergamaschi. E’ stato bello, ci siamo divertite, ma è tempo di darci un taglio. Si chiamano Amedeo e Lorenzo.»
Durante l’estate io e Lorenzo ci eravamo scambiati qualche mail, ma si era trattato solo di informazioni strettamente pratiche. Una volta, a luglio, aveva proposto di incontrarci, ma al tempo Serena era ancora a spasso per il Sudamerica e non me l’ero sentita di andarci da sola. Ero decisamente troppo timida per certe cose, così avevo accampato una scusa qualunque ed avevo declinato la proposta. Lorenzo non aveva più accennato alla cosa, quindi presumevo che si fosse accontentato di questo.
«Comunque, Lorenzo mi ha mandato una mail la settimana scorsa. Loro sono già arrivati da qualche giorno. A quanto pare ci sono quattro camere da letto, così grazie al cielo non dovrò condividerla con te.»
Per quanto volessi bene a Serena, dormire nella sua stessa stanza era un autentico inferno. Era inspiegabile come riuscisse a sopravvivere, fatto sta che dormiva circa due ore a notte e passava le restanti o a parlare a vanvera, o a fare ginnastica, o facendo ogni sorta di attività tutt’altro che silenziose. Come se non bastasse, nei sacrosanti momenti in cui si addormentava, spesso e volentieri scoppiava a ridere nel sonno. Ma, attenzione, non si trattava affatto di una risatina tenera da grasso angioletto coi boccoli addormentato. Era un autentico ghigno folle, che la faceva somigliare ad una iena ridens assatanata.
«Oh, finiscila, solo perché sono un po’ insonne.»
«No, Serena, essere “un po’ insonni” è un’altra cosa. Tu non sei un essere umano. E’ diverso. E adesso chiudi il becco per cinque secondi. Penso che a questo punto dobbiamo svoltare a sinistra.»
Piazza Maggiore si spalancava davanti a noi. Nonostante il caldo e la mia palese irritazione, non potei fare a meno di notare quanto fosse bella Bologna. La luce del pomeriggio faceva brillare il profilo della chiesa di San Petronio di un luccichio magico, che sembrava quasi opera di fate. Mi ritrovai a sorprendermi davanti all’immensità di quella basilica, che, bianca ed imponente, sembrava volermi dare il benvenuto in quella che da lì in poi sarebbe stata la mia nuova città.
«Wow», commentai, a mezza voce.
«Poteva andarci peggio», convenne Serena, che subiva la fascinazione di quello spettacolo incredibile almeno quanto me. Tirò fuori dallo zaino un taccuino e senza mai staccare gli occhi dalla basilica, scrisse qualche appunto. Serena ci sapeva fare, con le parole. Non avrebbe potuto scegliere facoltà più azzeccata di lettere moderne. Era talmente ovvio, che aveva scelto la strada giusta. Ed io, invece? Avevo deciso di prendere psicologia, perché sapevo di essere introspettiva, intuitiva e brava a capire gli stati d’animo delle persone, ma sarebbe bastato?
«Ci aspettano grandi cose, Sofia. Stiamo per cominciare a vivere i nostri giorni incredibili.»
Annuii. Quel giorno come non mai, Serena aveva ragione.
Dopo aver rimirato la piazza per una quantità di tempo che ritenemmo sufficiente, svoltammo a sinistra, dietro a Palazzo dei Banchi, alla ricerca di via Pigarelli 7, che di lì a poco sarebbe diventato il nostro nuovo indirizzo. Man mano che ci addentravamo per la città, mi accorgevo che le strade non erano poi così belle come quelle del centro. Anzi, per meglio dire, erano lo squallore più assoluto. Quando, dopo circa mezz’ora di futili scarpinate sotto archi tutti uguali che stavo già iniziando decisamente a detestare, trovammo il nostro numero civico nella via più sporca, più imboscata e più orrenda che avessimo visto fino a quel momento, ero tentata di mettermi ad urlare.
«Oh, stai scherzando! Mi stai dicendo che andiamo a vivere qui?!», esclamai con tono leggermente isterico, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
«Che c’è di male? Io lo trovo pittoresco!»
Lanciai uno sguardo assassino a Serena, che aveva un evidente bisogno di rivalutare la sua concezione della parola “pittoresco”.
«Vedi un po’ te quanto sarà pittoresco essere accoltellata se solo ti azzardi ad uscire la sera dopo le otto e mezza!»
«Sei la solita esagerata. Neanche fossimo nel bronx. E’ solo una stradina un po’ difficile da trovare.»
«Proprio tu, parli?! Non ti orienti nemmeno dalla cucina al bagno, come pensi che farai ad imparare la strada per arrivare fin qui?!»
«Amo l’avventura!»
Senza nemmeno volerlo (ok, forse un po’ lo volevo), emisi un ringhio gutturale. Serena sarebbe stata in grado di condurre chiunque all’esasperazione.
«Adesso, Serena, fammi il piacere di chiudere il becco. Stiamo per conoscere i nostri futuri coinquilini, con cui con tutta probabilità condivideremo cinque anni della nostra vita. Cinque anni sono tanti, e noi non vogliamo sembrare due psicopatiche fin dal primo istante, non è vero?»
«Tu mi dici continuamente che sono una psicopatica e il nostro rapporto funziona alla grande.»
Le scoccai l’ennesima occhiataccia.
«Facciamo così. Tu non parlare, limitati a sorridere, annuire ed emettere qualche “oh” ed “ah” di tanto in tanto.»
«Non funzionerebbe. Sei troppo timida per fare tutto da sola. Hai bisogno che io sia la solita vecchia stramba, perché essere messa a confronto con una persona tanto bizzarra ti fa sentire più sicura di te.»
Si abbassò gli occhiali da sole sul naso e nei suoi occhi verdognoli lessi la classica espressione di chi la sa lunga. Ecco un’altra cosa che odiavo di Serena: aveva sempre regione.
«D’accordo, allora sii semplicemente te stessa, ma cerca di moderarti, di non parlare a sproposito e soprattutto di non menzionare il Perù ed il tuo allevamento di alpaca. Va bene?»
«Cosa c’è che non va nei miei alpaca? Sono adorabili!», esclamò, risentita.
«Non mi interessa. Non nominarli. Neanche per sogno.»
«Neanche Dandolina? Non posso nemmeno far vedere le fotografie dei ponchos che ho fatto io? Non posso nemmeno raccontare la storia di quando Giselle ha fatto i cuccioli? E’ stato un momento magico, così surreale, un vero…»
«Ecco, vedi? E’ esattamente per questo che non puoi parlare dei tuoi alpaca.»
«E allora tu non puoi parlare dei tuoi gatti!»
«Cosa? I gatti sono belli, e soprattutto sono normali animali domestici!»
«Anche gli alpaca!»
«Non è vero!»
«Si che è…»
«Hey, voi due!»
Sobbalzammo ed alzammo la testa di scatto, in direzione di quella voce inaspettata. Affacciato dalla finestra dell’ultimo piano c’era un ragazzo dai capelli scuri, che ci guardava con uno sguardo tutt’altro che velatamente ironico.
«Siete per caso Sofia e Serena?»
«Si, perché?»
«Che ne dite di venire di sopra invece che continuare ad urlare al ritmo di ottocento parole al minuto? Potete continuare il discorso sugli alpaca, se volete!»
Fu in quel momento che realizzai che la persona alla finestra non poteva essere nientemeno che uno dei nostri due coinquilini. Mi sentii arrossire fino alla punta dei capelli. Mentre armeggiavo con la chiave nella serratura, tirai un calcio negli stinchi a Serena.
«E’ tutta colpa tua!», le sibilai tra i denti.
«Mia?! Ma se sei stata tu a tirare fuori gli alpaca!»
Questo le costò un altro calcio.
«Ahia! E va bene, va bene, ho capito. Chiudo la bocca.»
Salimmo le scale in religioso silenzio, io davanti, ancora paonazza dall’imbarazzo, e Serena dietro, già dimentica dell’accaduto e spensierata come sempre. Quando finalmente arrivammo al quarto piano (naturalmente vivere al pianterreno sarebbe stato chiedere troppo) trovammo sulla porta dell’appartamento 7F due ragazzi che ci aspettavano. Erano entrambi piuttosto carini, bisognava ammetterlo, uno biondo, con tante lentiggini e due occhi verdi dall’espressione gelida, e l’altro, quello che ci aveva chiamate dalla finestra, dai capelli castani, gli occhi azzurri ed un grande sorriso coinvolgente. Fu lui il primo a parlare.
«E così, le ragazze degli alpaca sono proprio le nostre Sofia e Serena!», esclamò. La sua solarità pareva inesauribile. Con una sola occhiata a Serena, capì che le era piaciuto fin da subito: amava le persone allegre. Al contrario, il ragazzo biondo alzò gli occhi al cielo e parlò con un tono profondamente sarcastico, a tratti quasi maligno.
«Per favore. Coesisto con questo folle dalla prima elementare, speravo che almeno le nuove coinquiline fossero due persone sane di mente. Comunque piacere, io sono Lorenzo e lui è il mio amico Amedeo.»
Mi porse la mano per stringermela, alzando appena l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso a metà tra lo strafottente ed il terribilmente affascinante. Mi sentii arrossire leggermente. Quel ragazzo dallo sguardo cupo appena conosciuto mi attraeva in maniera singolare.
«Sofia», mormorai. «Ed anche io coesisto con una pazza da una vita.»
Lui si girò verso Serena, che in quel momento era intenta a cercare (senza successo e senza nessuna eleganza) di disincastrare il manico del suo trolley dalla ringhiera delle scale. Lo sguardo di Lorenzo era a metà tra il perplesso ed il vagamente disgustato, ma era incredibile come le emozioni negative donassero al suo viso lentigginoso.
«Perché ha un cappello di lana?», chiese, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Lei in un battibaleno lasciò perdere il suo trolley per rispondere.
«L’ho fatto io, quest’estate, sulle Ande.»
«Ecco spiegato come mai è così brutto.»
Non riuscii a trattenere un risolino. Serena (che se la prendeva parecchio difficilmente) mi scoccò il suo sorriso di chi aveva previsto tutto: per l’ennesima volta, il suo bizzarro carattere mi era tornato utile per catalizzare su di me le simpatie del bel Lorenzo. Infatti lui mi sorrise, e mi parve che in quel sorriso ci fossero le basi di una complicità che iniziava a costruirsi.
«E’ un piacere, Sofia. Lascia che ti dia una mano con le valige.»
Mentre mi aiutava a trascinare le mia cose nell’appartamento, scoccai un’occhiata entusiasta a Serena, che stava chiacchierando fitto fitto con Amedeo di un qualche argomento che aveva tutta l’aria di essere completamente privo di senso. Mi rispose con il suo luccicante sorriso a trentadue denti di quando sta andando fin troppo bene. Per l’ennesima volta dovetti a malincuore dare ragione a Serena: stava andando tutto fin troppo bene.
 
 
 
NdA:
Buona domenica a tutti! Sono approdata qui su EFP in cerca di nuove esperienze, anche se a dirla tutta non so bene come riuscirò a gestire la cosa (conoscendomi, piuttosto male). Ma comunque. Dicono che nella vita bisogna buttarsi, carpare il diem e tutto il resto, quindi mi sembra il caso di provarci. No?
Giusto per darvi qualche informazione tecnica:
1: l’idea è quella di aggiornare ogni domenica (buon proposito che sicuramente fallirà ma io ci provo), scuola e tempo permettendo. Nel frattempo avete tutto il tempo di tempestarmi di recensioni (fiducia in sé stessi is the way) e di farmi sapere cosa ne pensate di ogni capitolo. Che ne pensate dei personaggi?
2: non tutta la storia è vista dal punto di vista di Sofia: circa la metà dei capitoli vedranno come narratore Serena e ce ne saranno anche alcuni raccontati dal punto di vista di altri personaggi. Spero che la cosa non vi crei troppa confusione.
3: non c’è due senza tre quindi il punto tre andava messo per forza.
Non ho assolutamente nient’altro da dirvi. Grazie a chi leggerà e recensirà la storia e ci vediamo domenica prossima!
Il Circo Zen
   
 
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