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Autore: Flora    30/11/2015    7 recensioni
Dieci anni prima di diventare gladiatore, Massimo Decimo Meridio era soltanto un legionario di stanza in un accampamento sperduto nelle lontane regioni del nord. Ed è proprio in quel luogo così distante da Roma che avviene il suo incontro con Lucilla, cui segue un’infatuazione che non rimane segreta agli occhi gelosi di Commodo. Il principe si troverà ad affrontare la sorella - e anche la bestia crudele che si agita nel suo cuore.
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L'unico volto che ricorda è quello di Lucilla, la sua Lucilla, che l'ha amato dal primo vagito, e che lui ama come la cosa più cara, l'unica per cui sarebbe disposto a morire.
O a uccidere.
Non ha il coraggio di dare un nome a questo sentimento così sacrilego da far rivoltare gli Dèi sui loro troni, ma il sentimento è dentro di lui, ha attecchito radici come una pianta venefica e dolce – nettare e cicuta che gli scorrono nelle vene, troppo in profondità per poter essere eradicati.

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Questo racconto è stato scritto a quattro mani con ValorosaViperaGentile.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Commodo, Lucilla
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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[Premessa: Questo racconto è stato scritto assieme a ValorosaViperaGentile ed è la prima parte di un dittico il cui secondo episodio – “Tu mi amerai, come io ti ho amata” , ambientato dieci anni dopo, nonché complementare a questo – può essere letto qui.]



‘Massacrerei il mondo intero, se solo tu mi amassi’
 
 
 
 
Ira furor brevi est
[Orazio]
 
 
 
 
Castrum Carnuntum[1] – Pannonia superiore – 171 d.c.
 
 
 
 
Una  bufera di neve ha infuriato per tutto il giorno, placando le sue urla solo in tarda sera; le strade dell'accampamento sono ridotte a una poltiglia di fango e acqua disciolta, ma nei quartieri privati del praetorium[2] i bracieri sono accesi e l'aria è tiepida e umida dei vapori del bagno.
Commodo è disteso nella grande tinozza di legno, immerso nell'acqua profumata di essenze di rosa e gelsomino, la testa reclinata all'indietro a fissare il soffitto.
Chiude gli occhi, intento ad ascoltare gli scricchiolii delle assi, il vento che sibila nelle fessure tra le pietre, le grida dei soldati all'esterno, che ripuliscono le strade e riparano le tende divelte dal tempo inclemente del nord. Percepisce i movimenti di Marcia[3], indaffarata a preparare la cena e a riordinare i suoi abiti, ma non le presta attenzione. La mente è troppo presa a rivivere la scena a cui ha assistito quella mattina, e che gli si è marchiata nella memoria.
Riapre gli occhi e si fissa le mani: i palmi sono segnati da ferite ancora fresche, là dove si è piantato le unghie fino a farseli sanguinare; serra di nuovo i pugni, riaprendo le croste, e storce la bocca per il fastidio.
In un angolo della stanza giacciono ancora i cocci del vaso che ha gettato per terra in un impeto di rabbia; Marcia ha urlato quando lui l'ha scaraventato via, facendolo volare contro il muro – si è messa a gridare, quella stupida, ma non ha avuto il coraggio di chiedergli cosa l'avesse fatto adirare così. Probabilmente ha creduto che fosse colpa sua, pensa con un ghigno, ma il sorriso gli muore sulle labbra quando ricorda le vere ragioni della sua ira.
Si volta verso Marcia, che si è avvicinata con una coppa tra le mani; i suoi capelli scuri sono sciolti sul pesante mantello che si è gettata addosso quando lui ha finito di scoparla – assomiglia a una lupa troppo piccola e pavida per essere presa sul serio.
Le sfila il recipiente dalle mani per prendere un sorso di vino speziato, e storce la bocca al sapore aspro che gli scende giù per la gola riarsa.
"Ti avevo detto di non annacquare il vino[4]," protesta, e sbatte la coppa sul tavolino accanto alla vasca, spargendo il liquido tutt'attorno. “Quante volte devo ripeterti che questa piscia di cavallo mi ripugna?”
La schiava non risponde, si limita a sollevare il calice e a pulire il piano con un panno.
Commodo l’osserva con una smorfia di disgusto, poi esce dall’acqua e allarga le braccia, in attesa che la ragazza lo avvolga nei teli di lino asciutti.
Mentre lei lo friziona e gli spalma addosso il primo strato di unguento, chiude di nuovo gli occhi e rivede la radura nascosta dagli abeti, subito dietro la Porta Decumana, vicino alle caserme – rivede la luce bianca del mattino filtrare tra i rami e riflettersi sui capelli fulvi di sua sorella, le mani strette in quelle dell'uomo davanti a lei, il viso abbassato, come una pudica vergine. Si morde le labbra fino a scavarsele: sembrava una cagna in calore, non certo l’immacolato fiore che tutti la credono.
Allontana Marcia con una spinta e si infila da solo la pesante tunica di lana che lei gli ha preparato. La schiava si riavvicina con il mantello bordato di pelliccia, ma lui la ferma con un gesto brusco della mano.
“Basta così. Lasciami solo,” le ordina. “Pulisci questo porcile e vattene.”
Marcia annuisce; sposta la tinozza in un angolo, asciuga veloce il pavimento, poi – a testa bassa – retrocede fino alla tenda che separa la camera interna dai quartieri diurni, sparendo alla sua vista.
Commodo si passa una mano sul viso e si mette a sedere sul letto, portandosi i palmi alla testa. L'emicrania gli ha martellato le tempie tutto il giorno; sperava che il bagno servisse finalmente a dargli un po' di pace, ma ha solo peggiorato le cose. Fa per sdraiarsi ma sente dei colpi ovattati al di là della tenda, poi un borbottare leggero e infine la voce di Marcia – che gli chiede il permesso di rientrare.
“Che cosa c'è, ora?” abbaia, le dita ancora premute sugli occhi. La ragazza discosta appena le tende e, senza mostrarsi, annuncia: “Tua sorella è qui, mio signore. Chiede di parlarti.”
Commodo si raddrizza di scatto, la testa che pulsa come un tamburo di guerra. Non si aspettava una sua visita, dato che Lucilla è stata impegnata a ignorarlo sin da quando sono arrivati da Roma in quell'accampamento dimenticato dagli Dèi; è stata presa da ben altre faccende, pensa con una smorfia, troppo occupata a far la puttana per avere tempo per suo fratello. “Falla entrare,” risponde, mentre si rimette in piedi.
Lucilla fa il suo ingresso, abbassando il cappuccio del byrrus[5]. Appare intirizzita dal freddo, ha il corpo avvolto interamente nel mantello di lana, che la copre sino alle ginocchia. Dal modo in cui se lo stringe addosso sembra sentire il gelo fin dentro le ossa; si porta una mano alla nuca scoperta, massaggiandosi il collo reso livido dalla temperatura.
Quando Marcia si scosta, per farla passare, le riserva un'occhiata indifferente, come fosse un cane addetto alla guardia; prosegue a testa alta, fino a fermarsi davanti a lui. L’osserva in silenzio – e pare si sia fatto inverno anche sul suo viso, perché la tenerezza primaverile che di solito gli riserva sembra esser volata via, spazzata da una folata di vento germanico.
“Fratello,” esordisce, con un contegno degno di lei – quasi non avesse motivo per trovarsi nelle sue stanze a quest'ora, con il gelo che invita a stare a letto, sotterrarti dalle pellicce. Come fosse svestita di ogni sospetto. “Stavi per andare a dormire?” gli domanda.
Commodo la squadra per qualche istante, senza dire nulla. Guarda il modo in cui si stringe addosso il mantello, con le dita sbiancate dalla tensione, il volto arrossato, e sente il cuore accelerare i battiti, il disagio rendergli le gambe molli.
“Stavo per coricarmi, sì,” risponde, cercando di sembrare convincente. “Che cosa vuoi a quest'ora, sorella?”
Lucilla sembra indecisa per un breve istante, l'aria di chi valuta pro e contro di una grande impresa.
Resta con gli occhi puntati su di lui, mentre muove un poco le labbra, celando a malapena un guizzo inquieto, e poi se le lecca con la punta della lingua, veloce e nervosa. “Non ti ruberò troppo tempo, te lo prometto,” gli dice infine, escludendo così ogni possibile rifiuto. Lo fissa ancora e inspira col naso, riempiendosi il petto d'aria fredda.  “Hai parlato con nostro padre, oggi?”
Commodo si stringe nelle spalle. “Che intendi?” risponde, solo per prendere tempo, poi si volta e si avvicina al tavolo su cui la cena è rimasta a freddare. “È ovvio che ho parlato con nostro padre, Lucilla. Gli parlo tutti i giorni.” Si sente i suoi occhi puntati alla schiena, quasi volesse trafiggerlo per una tale, sfacciata dissimulazione.
“Sai bene che non intendevo questo, Commodo,” replica lei, il ferro nella voce;  la sente avvicinarsi a passi rapidi e decisi con le sue scarpe di feltro inzuppate, finché non gli è affianco. Indaga senza remora il suo viso, alla ricerca di menzogne. “Sai di cosa parlo, non negarlo.”
Commodo afferra la caraffa di vino posata sul tavolo e riempie due coppe. Lo fa lentamente, senza guardarla – sa che questo la farà arrabbiare, ma non si sente in colpa. Se solo lei sapesse quanto è profonda la ferita che gli ha inferto, ci penserebbe bene prima di presentarsi lì con il sussiego di una matrona ferita nell'onore.
Le porge una coppa e, nel farlo, la guarda finalmente negli occhi. “Bevi, sorella. Il freddo deve averti appannato la ragione, perché davvero non capisco a cosa tu ti riferisca.” In realtà, pare che sia il caldo a farla agitare, perché riesce ad avvertire il gorgoglio della lava sotto la sua faccia di ghiaccio.
Lucilla afferra il calice, stringendolo fino a sbiancarsi le nocche. Resta così per un istante, poi lo getta a terra in un gesto sdegnoso.
Commodo sussulta al rumore del metallo che urta il pavimento; abbassa lo sguardo a osservare il vino che si sparge in una chiazza rossa e poi lo solleva di nuovo su di lei. La calma che ha tentato di mantenere ora se la sente ribollire in gola, come veleno.
“Come ti permetti?” ringhia a bassa voce, mentre il volto adirato di Lucilla si sovrappone all’espressione serena che ha spiato quella mattina – così diversa, così inconciliabile con la furia che ora le legge negli occhi. “Come ti permetti di venire qui a domandare spiegazioni, quando dovrei essere io a chiederti conto del tuo comportamento?”
“È a nostro padre che devo rendere conto delle mie azioni, Commodo. Tu non sei ancora il capofamiglia,” gli ricorda lei, perché in fondo è solamente un principe, che l'imperatore non ha ancora designato come suo successore. “Come hai potuto tradirmi, io che ti amo e sono sangue del tuo sangue?” prosegue fremendo, con gli occhi increduli. Si allontana di qualche passo e si libera del mantello, restando in stola, col cingulum borchiato incrociato attorno ai seni e sul ventre. “Speravo che il tuo continuo seguirmi, sorvegliarmi, fosse solo una dimostrazione di affetto nei miei confronti. Speravo che qualcun altro...” sospira amareggiata, senza neppure terminare la frase. “E invece, tu...” Un verso sofferente. Poi si morde le labbra, affondando i denti nella carne morbida. “Sono stati i tuoi occhi a credere di assistere a qualcosa di tanto grave da spingerti a parlare del mio comportamento a nostro padre? O hai creduto alle parole di uno schiavo mandato a pedinare ogni mia mossa, più costante persino dell'ombra che mi appartiene? Cosa, Commodo? Temi un'imprudenza di tua sorella, o solo la rudezza propria dei soldati?”
Lui la fissa senza rispondere ma ogni parola è una sferzata, se le sente vibrare dentro, scuoterlo talmente forte che teme che lei lo veda tremare. Appoggia la coppa sul tavolo e chiude gli occhi, li stringe così forte da farsi male. “Se ti ho seguita è perché mi preoccupo per te,” ammette, e intanto ripensa a quel maledetto soldato, al modo in cui la guardava – all'impulso di strappargli gli occhi dalle orbite, per una tale impudenza. “Ho a cuore la tua virtù e veglio su di te, come un bravo fratello dovrebbe fare.” Tenta ancora di mantenere un tono ragionevole, ma l'ira cieca che l'ha avvelenato per tutto il giorno sta tornando, la sente risalire dalle viscere, ne sente il sapore acido in gola, mischiato al fiele della menzogna che tanto abilmente le sta offrendo.
“Un misero decurione[6] dell'esercito di nostro padre,” sibila, riaprendo gli occhi – e stavolta la voce è più alta, così vicina a rompersi in un grido, “un ispanico figlio di contadini i cui avi non erano neanche romani, che si permette di toccare la figlia di un imperatore...” una pausa, mentre fa un passo avanti, coprendo la distanza che li separa. “A cui tu lo permetti!” E ora grida, con tutta l'aria che ha nei polmoni; grida e si sente gli occhi bruciare, sull'orlo del pianto. “Che altro gli hai permesso, Lucilla? Che altro ha avuto, da te, Massimo Decimo Meridio?”
Lei sgrana gli occhi e apre la bocca. Battuta dalle sue grida, indietreggia di qualche passo, senza guardare altro che i suoi occhi lucidi, andando a sbattere contro il letto. Ci finisce seduta sopra e subito artiglia le coperte, mentre lo fissa in volto. “Solamente qualche bacio innocente, fratello...” ansima, la voce ridotta a un soffio. “E il mio cuore,” confessa.
Commodo avanza verso di lei, come in una marcia di guerra. Si inginocchia e l'afferra per le braccia – sente le dita affondare nella sua carne delicata ma non ci dà peso – lui, che l'ha sempre sfiorata come fosse un fragile fiore.
“Il tuo cuore?” domanda, il tono basso, come quello che userebbe con un bambino, “sei ancora giovane, sorella, e sai così poco delle cose degli uomini. Credi che a quel soldato interessi il tuo cuore?” La scuote appena, sente di nuovo gli occhi inumidirsi, ma ricaccia indietro le lacrime con uno sforzo di volontà. “Devo ricordarti che sei promessa a nostro zio[7], e che lo sposerai non appena rientreremo a Roma?” La scuote ancora, stavolta più forte. Odia ricordare a se stesso che presto andrà in sposa, aveva sepolto quel pensiero da qualche parte, come un osso marcio da lasciare agli avvoltoi. Ha sempre saputo che Lucilla si sarebbe maritata e ha finito per accettarlo come un male inevitabile. Sua sorella non ha scelto di amare Lucio Vero, le è stato imposto dall'alto, e in questo ha trovato una pallida consolazione. Con quel soldato è diverso: è un suo libero arbitrio, un desiderio dettato dal suo cuore – per quanto fatuo come possono esserlo i sentimenti di una donna – e questo lui non può accettarlo. “Credevi che potessi tacere una cosa del genere a nostro padre? Che lui non l'avrebbe saputo?”
“Mi fai male, Commodo...” protesta Lucilla, sentendo i polpastrelli affondare e le unghie graffiare la pelle. “Credi che l'abbia dimenticato?” gli chiede, la voce vibrante d'incredulità, “che sia pronta a disonorare me stessa e mio padre? A infrangere una promessa simile? Ho a cuore il destino di Roma e la forza della nostra famiglia, tanto quanto te.” Tace un attimo, il petto che si alza e si abbassa affannoso. “Andrò a Lucio Vero illibata e ubbidiente, come è giusto che sia.”
E allora, perché?” grida lui, mentre la stringe più forte, “perché mettere a repentaglio la tua reputazione con un legionario, uno che non è degno neanche di leccare la terra su cui cammini?” Si chiede cosa possa averle detto, loro padre, per farla adirare così; quando è andato da lui, quella mattina, l'imperatore si è limitato ad ascoltarlo e poi congedarlo con la promessa di risolvere la questione.
Sei sempre molto occupato a seguire ogni passo di tua sorella, gli ha detto Marco Aurelio, e nei suoi occhi ha colto un'ombra di rimprovero; non ha saputo dire se fosse rivolto a lui o alla condotta di sua figlia – e può solo immaginare cosa si siano detti, nel privato delle sue stanze, ma non dev’essere stato facile per lei. Non si pente di averlo fatto, ma il rancore che legge sul viso di Lucilla è un artiglio straziante come quello delle Arpie.
Abbassa la voce, fino a ridurla a un sussurro: “Dimmi il perché.”
“È più facile controllare le proprie azioni, che non il cuore...” risponde lei piano, mentre l'aria combattiva pare rarefarsi. Il tono si fa più lieve e lo sguardo più infelice. “Forse un giorno lo capirai, quando cercherai qualcosa di più del calore di una schiava...”
Commodo abbassa la testa, si morde le labbra fin quando non le sente diventare insensibili. “Credi che io non sappia cosa significhi l'amore?” mormora, la voce un ringhio cupo che gli sale dal petto. E, assieme al ringhio, sente affacciarsi parole vecchie di anni, discorsi taciuti anche a se stesso, sentimenti insabbiati come esseri deformi, soffocati ancor prima che possano aver visto la luce.
Alza la testa e si solleva in piedi, le mani ancora affondate nelle sue braccia. “Credi che anch'io non sia stato dilaniato dalle frecce di Eros, e non abbia dovuto bendarmi da solo le mie ferite?” urla, e la spinge sul letto, chinandosi sopra di lei e tenendola ferma con il suo peso. Osserva il suo viso confuso e la rivede da bambina, mentre lo cullava e lo carezzava prima di addormentarsi, o quando gli spalmava un unguento odoroso sugli sbucci che si procurava sempre, in conseguenza delle sue bravate. Non ricorda il volto di sua madre, e neanche quello delle balie che si sono avvicendate negli anni – pallide ombre inconsistenti, gentili solo per dovere e per paura. L'unico volto che ricorda è quello di Lucilla, la sua Lucilla, che l'ha amato dal primo vagito, e che lui ama come la cosa più cara, l'unica per cui sarebbe disposto a morire.
O a uccidere.
Non ha il coraggio di dare un nome a questo sentimento così sacrilego da far rivoltare gli Dèi sui loro troni, ma il sentimento è dentro di lui, ha attecchito radici come una pianta venefica e dolce – nettare e cicuta che gli scorrono nelle vene, troppo in profondità per poter essere eradicati.
Lucilla non risponde. Ha gli occhi spalancati che fissano in alto – immobile, come se una paura sottile e disgustosa le strisciasse accanto, pronto a ghermirla nelle sue spire, prima di affondare i denti avvelenati nella sua carne. Sbatte piano le palpebre, in silenzio. Sembra lasciare che il tempo scorra fra loro, si insinui fra gli spazi troppo miseri dei corpi, uno disteso sull'altro.
Solo dopo muove un braccio, ribellandosi delicatamente alla sua stretta, e lui la lascia libera, senza dire una parola. Emette un lieve guaito di sofferenza e solleva una mano, per posarla sul suo capo ancora umido, inanellandosi le dita coi suoi ricci. “Allora soffriremo insieme, mio amato...” sussurra infine.
Commodo sussulta quando sente la mano di lei posarglisi sulla testa – vorrebbe strapparsela di dosso e al contempo consumarla di baci, come fosse la mano di una Dea a cui votarsi. Invece rimane immobile, sull'orlo di una voragine pronta a inghiottirlo, a inghiottirli entrambi.
“Nessuno è degno di te,” sussurra, mentre china la testa sul suo petto, affondandola nella lana morbida della sua tunica. “Io solo sono degno di te!” grida, rialzando il capo di scatto, gli occhi pieni di lacrime. Non è mai stato bravo a nascondere i suoi sentimenti – a controllare i suoi impulsi – suo padre l'ha sempre redarguito per questo, ricordandogli che un imperatore deve imparare il valore della temperanza, in ogni cosa – ma per quanto abbia tentato non c'è mai riuscito.
Neanche ora – soprattutto ora. E teme di aver fatto un passo di troppo, oltre l'orlo del precipizio.
Lucilla lo guarda dritto negli occhi. Pare a un soffio dallo sconvolgimento, col viso congelato in un'espressione così frastornata da non sembrare più lei. “Non angosciarti,” sussurra però, semplicemente, e abbassa lo sguardo, come se non volesse più sostenere il suo. “Ho intenzione di seguire il volere di nostro padre, ponendo fine a questa sciocca, sterile fantasia.” Solleva di nuovo gli occhi. “Lasciami alzare, ora,” gli comanda, ferma ma non priva della gentilezza di una sorella devota.
E Commodo fa come gli dice – la lascia andare, troppo spaventato da ciò che le sue labbra non hanno saputo celare, per opporre resistenza. Si alza in piedi e si asciuga le lacrime con la manica della tunica, sentendosi simile a uno schiavo che si è appena preso una cinghiata dal suo padrone. Si aspettava grida di disgusto dopo la sua confessione, non questa strana indifferenza, come avesse liquidato i suoi sentimenti come il capriccio irragionevole di un bambino geloso.
Sei così infantile, Commodo, gli ha ripetuto lei così tante volte, a seguito delle sue molte sfuriate – quando crescerai un poco? Nessun altro potrebbe mai permettersi di parlargli così, e lui l'ha sempre lasciata fare, perché in fin dei conti è ciò che gli ha permesso di tenersela vicina, la sua premura una rassicurazione del suo affetto verso di lui. Ma ora si chiede se questa tenerezza non sia la maledizione che ha attirato su di sé, rendendolo incapace di apparire ai suoi occhi come un uomo, e non come un inconcludente fratello da consolare e accudire.
“So di avere esagerato,” ammette a denti stretti, confermando contro ogni volere le sue parole. “La mia preoccupazione per te mi ha fatto dire cose...” si interrompe, le mani strette a pugno lungo i fianchi “... voglio solo il meglio, per la mia amata sorella.” E la menzogna non ha mai avuto un sapore più amaro.
Lei è ancora sul letto, immobile. È rimasta seduta mentre lui si asciugava le lacrime e farfugliava. Ora si solleva in piedi, lentamente, e lo fissa. “Io credo che Massimo potesse essere il meglio, per il mio cuore,” dice. È contegnosa, ma non gli sfugge il velo di asprezza che avvolge le sue parole. “Ti ringrazio per le tue premure, caro fratello,” continua dopo un istante, come se stesse ingoiando una medicina amara. “Per vegliare sul mio debole animo femmineo, per essere il mio impavido guardiano.” Sembra che stia per tirare su col naso, sebbene gli occhi siano asciutti. Allunga una mano verso di lui, mostrando il palmo chiaro, le dita lunghe e sottili. “Dammi la tua mano, così che possiamo dimostrarci a vicenda che non esiste alcun rancore fra noi.”
E lui si avvicina, lentamente, sentendosi sempre più simile a un cane che è stato punito, e che ora va a mangiare dalla mano che l'ha battuto. Vorrebbe gridare, protestare – urlarle che non ha agito come un fratello, ma come un uomo – tuttavia il rancore che le legge sul viso, così incongruo rispetto alle sue parole piene di ragionevolezza, lo frenano, e lo fanno sentire un miserabile.
Poggia la mano sulla sua, lieve, anche se vorrebbe stringerla fino a strapparle un grido. “Un giorno mi ringrazierai per questo, sorella,” le dice, e la sua voce suona estranea persino a se stesso. “Nessun rancore tra noi, mai.”
“Ecco...” sussurra lei, con l'aria di chi vuole convincersi di qualcosa. Stringe le sue dita mentre esibisce un sorriso tirato, con gli angoli della bocca incurvati verso l'alto e le labbra chiuse, senza gioia negli occhi. “Adesso è tutto passato.” Porta la sua mano alle labbra, baciandola più e più volte, e dopo sorride ancora. “Ma non parliamo più di Massimo,” suggerisce, sciogliendo la faccia tesa. “È solamente un decurione, con sangue straniero nelle vene, proprio come tu hai detto. E da domani capirà bene qual è il suo posto.” Sbatte piano le palpebre. “Promettimelo, Commodo. Vuoi?” La sua voce ha la morbidezza del miele mentre gli carezza il viso col dorso della mano sinistra, quella che all'anulare indossa l'anello datole da Lucio Vero per il loro fidanzamento.
Commodo porta la mano alla sua, e ricambia la carezza – poi la stringe e si china in avanti, poggiandole un bacio su una guancia, poi sull'altra: un gesto di pace, che tuttavia sulle labbra brucia come un tradimento.
“Te lo prometto,” sussurra, mentre la prende per le spalle e la allontana, senza lasciarla andare – non ancora. “Non parleremo mai più di quell’uomo.” E non sa se quel che prova è sollievo, o la vergogna di aver seppellito un innocente.
Un altro sorriso, di nuovo ben poco lieto e un po' troppo breve per nascere dal cuore – Lucilla annuisce nel mentre, e sbatte le palpebre. “Mi prendi il mantello, mio caro?” gli chiede, strofinandosi i palmi delle mani. “Ho il corpo gelato...” Sorride di nuovo, e ora sembra quasi sincera. “Penso che farò un lungo bagno bollente, prima di coricarmi,” aggiunge, mentre gli occhi, per un breve istante, scivolano alle braccia, dove prima lui l'ha stretta con tanta forza.
Commodo segue il suo sguardo e serra le labbra, osservando i segni rossi che, domani, avranno il colore dei lividi. Si china a raccogliere il mantello e glielo drappeggia sulle spalle, indugiando un attimo di troppo. Credeva che non l'avrebbe perdonato per quel tradimento – che l'avrebbe maledetto, disconosciuto come fratello – e forse, nel profondo, l'aveva sperato. Sa di essere come fiele, per lei. Sa che l'unico modo per salvaguardarla dal suo veleno è allontanarla da sé, farsi detestare. E forse, il suo, era un estremo tentativo per salvarla – l'ultimo rigurgito di nobiltà che ha da offrirle. Il suo perdono è ancora più amaro, perché sa che non avrà un'altra occasione. Suo padre, l'imperatore, ha ragione quando lo rimprovera per la sua mancanza di moralità, ma è troppo tardi per essere diverso. Vi sono creature che cambiano pelle, per diventare più forti; altre che, nude, sono solo destinate a morire.
“Ti auguro una buonanotte, sorella,” dice, aggiustandole il mantello sulle spalle. “Che il tuo sonno sia sereno.”
Lucilla annuisce e poi si volta, dirigendosi verso la tenda. Lui la guarda mentre sposta i lembi di stoffa e sparisce dall'altra parte. Si lascia cadere sul letto e si prende di nuovo la testa tra le mani; ingoia un respiro ma sembra che l'aria gli sia stata strappata via, lasciandolo a boccheggiare come un pesce sul bagnasciuga.
È appena consapevole dei passi di Marcia – rientrata nella stanza – che si avvicinano leggeri. Si è fermata davanti a lui, in silenzio – per un istante prova un impulso di gratitudine verso quella creatura silenziosa che gli rimane al fianco nonostante il suo carattere, i suoi scatti d'ira, l'angoscia che lo divora dentro, continuamente, come l'aquila tortura Prometeo, nei secoli dei secoli. Soffoca quel moto di tenerezza, affinché non lo renda debole, ma intanto la cinge con le braccia, affondando la bocca nel suo ventre e fingendo che il suo odore sia di qualcun altro, le sue mani tra i capelli quelle di qualcun altro e inghiotte di nuovo sorsate di quel dolore amaro per il quale non ha nome.
 
 
 
 
Note:
 
[1] Carnuntum era una fortezza legionaria costruita vicino al limes danubiano, nell’odierna Austria. Marco Aurelio vi soggiornò dal 171 al 173 d.c. durante le guerre marcomanniche, e le fonti ricordano che la stessa Lucilla gli fece visita lì, sebbene accompagnata dal marito, e non dal fratello.

[2] I Praetorium sono i quartieri vitali dei comandanti di un castrum, a differenza dei Principia, che sono i quartieri strategici.

[3] Marcia è il nome di una schiava – poi liberta – concubina di Commodo, che presumibilmente prese parte alla congiura che portò alla sua morte.

[4] I romani erano soliti bere il vino allungato con acqua.
 
[5] Pesante mantello di lana, dotato di cappuccio.

[6] Il decurione era il comandante di una decuria di cavalieri dell’esercito romano – equivalente del centurione per i reparti di fanteria. Si sa poco o nulla del passato di Massimo prima della sua carica di generale, ma è logico pensare che abbia avuto una regolare gavetta nell’esercito, e che – a un certo punto della sua carriera – possa aver rivestito questa carica. Date le sue radici straniere, è naturale dedurre che suo padre possa essere stato un ausiliare dell’esercito romano, ricompensato per il suo servizio con la cittadinanza – e con un pezzo di terra in Hispania, la stessa terra sulle colline di Trujillo ereditata poi da Massimo.

[7] Lucio Vero – fratello adottivo di Marco Aurelio, e co-imperatore assieme a lui. Lucilla gli venne data in sposa quando aveva solo tredici anni, ma il film ha cambiato questo dato, facendola sposare molto più in là negli anni.
 

  
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