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Autore: Nemainn    30/11/2015    12 recensioni
La musica strega l'anima, ottenebra la mente, innalza o inabissa qualunque emozione e guida i sentimenti lungo i suoi binari.
La musica è la più antica e pericolosa delle magie: illude, ammalia, incatena e uccide.
Genere: Horror, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Le note di un'anima spezzata

 

Quella musica gli stava straziando il cuore: era dolce e colma di malinconia, di uno struggente desiderio così potente da farlo piangere nel sonno. Il suono di quel flauto era limpido, cristallino, così puro da elevare ogni nota a sublime sentimento: era quanto di più magico avesse mai sentito. Per quanto avesse cercato di riprodurre quella melodia, quella canzone così struggente e piena di emozioni, non ne era mai stato in grado. Aveva iniziato il conservatorio anche per quello, per quel segreto che popolava i suoi sogni da anni.
Il sogno era arrivato piano piano, quasi timido, durante la sua tarda adolescenza, fino a quando non era diventato un incontro onirico senza il quale le sue notti erano vuote e solitarie.
Lentamente aveva iniziato a provare qualcosa, fino a rendersi conto di amare quel musicista, quel flautista dai capelli d'argento: sapeva che il suo cuore palpitava solo per lui, fedele a lui, in attesa di lui.
Amava un uomo che viveva solo nei suoi sogni, eppure lo attendeva con il sorriso ogni volta che chiudeva gli occhi. Parlavano, in quel mondo fatto di luce lunare, all'ombra di un albero coperto di fiori di brina. In quel luogo fatto di illusioni guardava quella creatura, simile a quanto di più bello e puro potesse esistere. Aveva accarezzato quei lineamenti dolci, la pelle levigata e bianca, perdendosi in quei profondi occhi di un blu luminoso.
Lo amava.
Passava ore con le dita tra quei lunghissimi capelli d'argento lunare, tra i sottili fili di seta brillante che incorniciavano la sua figura, riversandosi come una cascata sulla schiena e confondendosi con il candore di quell'abito, così simile a quelli che vedeva nelle illustrazioni sull'antica Cina e Giappone. Era anacronistico, ma pieno di fascino, con quella veste dalle ampie maniche bordate di nero, così come i lembi che sul davanti si incrociavano, tenuti assieme da un'alta cintura di stoffa avvolta sui fianchi.
Poteva descrivere in ogni particolare l'uomo dei suoi sogni; come teneva il flauto tra le lunghe e snelle dita, la piega delle labbra sottili, le ciglia candide e folte che contornavano quello sguardo gentile. Poteva sentire con precisione ogni nota del flauto nella sua mente ma mai, in tutti quegli anni, era riuscito a eseguire quella melodia. Per quanto si esercitasse, per perfetto che fosse lo strumento che usava, nulla poteva paragonarsi alla purezza del suono dei suoi sogni.
Fosco, nel sonno, attendeva la fine della musica, sentendo il suo cuore consumarsi nel dolore che quelle note evocavano. Come poteva, lui che suonava, essere così triste e al contempo sereno? Era un delicato fiore di luce e cristallo che, in piedi sotto quei rami, lo guardava.
L'ultima nota si disperse nel vento e Fosco gli si avvicinò.
Lo sguardo del flautista perse ogni luce, si appannò, e infine sussurrò con la voce dolce spezzata dall'amarezza poche parole: «Non ci vedremo mai più.»
Fosco si bloccò, incredulo, sgranando gli occhi. «Come...?»
«Sto morendo, mio innamorato del mondo dei sogni, mio amato Fosco. Il sangue lento scivola, gocciola piano, senza posa, togliendomi ogni forza. Questo è il nostro addio.»
Lentamente la figura davanti a lui mutò e una macchia rossa apparve all'altezza dell'addome. Si allargava poco a poco, un bocciolo scarlatto che apriva i suoi petali nutrendosi del sangue del suo amato.
«No!» Fosco fece un passo avanti, sfiorando il braccio del flautista, che scosse appena il capo.
«Il sangue scorre dalla ferita: per me questo non è un sogno, ma il passo che precede la morte. Ho cercato di resistere, arrivare qua per darti il mio addio, mio amato.»
«Dimmi che puoi salvarti! Dimmelo!» la mano di Fosco si strinse sul braccio dell'altro che mestamente scosse il capo.
«Sono solo, nessuno può prestarmi soccorso e sono debole.»
La mente razionale di Fosco, quella parte che aveva sempre negato che quello fosse più di uno strano sogno ricorrente, forse frutto di una qualche forma di pazzia, gli urlava di non fare lo stupido. Era solo una fantasia, gli diceva la parte logica, ma il suo cuore era lacerato. Non era solo un parto della sua immaginazione, un'illusione di anni, no. Quello che il suo istinto gli suggeriva era che nella dimensione onirica lui e Kioku si tendevano attraverso i mondi, sfiorandosi in quel non luogo, amandosi, notte dopo notte, in quel posto avvolto dalla nebbia.
«Non andartene. Non farlo, resisti, io...»
«Ti ho potuto vedere un'ultima volta, mio amato, e ciò mi basta. Ho visto i tuoi occhi pieni d'amore, il tuo sorriso e ora posso andare: la mia anima è in pace.»
Fosco si aggrappò all'amato, il fiato spezzato dal dolore, gli occhi pieni di lacrime. «Dimmi se posso fare qualcosa! Dimmelo, Kioku! Non posso guardarti andare sapendo di non rivederti mai più, io ti amo!»
«Nessuno può, purtroppo. Il mio corpo è abbandonato sotto le rosse fronde di un acero e nessuno può prestarmi soccorso; il mio destino è segnato, mio amato.»
«Non posso, no, non puoi, tu... Kioku, dimmi come, se lo sai dimmi come e verrò io da te!»
L'uomo sorrise dolcemente, accarezzando il volto di Fosco con affetto e posando le sue labbra su quelle dell'amato. «Se vieni da me non tornerai mai più indietro, non posso toglierti dalla tua vita. Se io morissi rimarresti intrappolato nel mio mondo.»
«O potrei vivere con te!» sussurrò pieno d'angoscia e speranza. «Ti prego, non farlo, non scegliere tu per me. Io voglio venire da te, voglio cercare di salvarti!»
«Vuoi? Vuoi davvero? Di tua spontanea volontà? Rinunceresti a tutto, alla tua vita nel tuo mondo, per me?»
«Sì.» Fosco strinse a sé l'amato, affondando il viso nella chioma di seta e sentendo il suo delicato profumo, così simile a quello dei pini montani, invadergli le narici. Era sicuro delle sue parole, nulla aveva senso senza di lui.
Si tese, sentendo che Kioku gli sfuggiva dalle mani.
«Non lasciarmi, Fosco, non lasciare la presa.»
Lui non lo lasciò, facendosi trascinare attraverso la nebbia fino a perdere i sensi, aggrappato alla sua unica ragione di vita.

 

 

Aprire gli occhi fu difficile: le palpebre erano pesanti e la sua mente sembrava incapace di svegliarsi del tutto.
«Fosco...?» quella voce era inconfondibile. Cocciuto si impose di svegliarsi per poterlo salvare, soccorrere o, nel peggiore dei casi, stringerlo a sé mentre gli diceva addio.
Lentamente aprì gli occhi e la luce lo accecò. Pur filtrata da un fitto fogliame tinto del rosso e dell'oro dell'autunno, gli occhi feriti dal chiarore si riempirono di lacrime. Sentiva il respiro pesante di Kioku vicino a sé e sbattendo le palpebre lo mise a fuoco. Come nel mondo onirico anche lì la veste candida era zuppa di sangue.
«Cosa posso fare?» chiese, angosciato, sentendo la propria voce tremare.
«Nulla. Mi dispiace, Fosco. Non credevo fosse passato così tanto tempo nel mio mondo, è troppo tardi per me.»
Il gelo scese come un mantello sul ragazzo. Nulla aveva importanza nella sua vita oltre a Kioku e la musica. Nulla, nient'altro. Non aveva nulla che rimpiangeva nel suo mondo di provenienza, ora che poteva davvero stringere a sé il suo flautista. La meravigliosa gioia di poterlo toccare era venata dalla lacerante e dolorosa consapevolezza che sarebbe stato solo per il tempo di dirgli addio.
«Per poco, per così poco...» Fosco deglutì, prendendo tra le braccia il corpo dell'altro delicatamente, per non farlo soffrire. «Non è mai stato solo un sogno.»
Quella consapevolezza si fece rapidamente strada nella sua mente.
«Mai.» il fiato del flautista era sibilante, spezzato, ma il viso era sereno e pieno d'amore. «Ci incontravamo lì, nelle terre oniriche che collegano i mondi, ma non è mai stato solo un sogno, mio amato.» un nuovo respiro doloroso, rotto, e Kioku proseguì. «Ora posso abbandonare la vita con gioia, tra le tue braccia, anche se la mia anima è macchiata dalla colpa di averti voluto con me. Sono stato egoista.»
Fosco scosse il capo, coronato di una fitta e corta chioma scura, in una negazione. «No, l'ho voluto io. Poterti stringere davvero con le mie mani, anche se per un solo istante, per il tempo di pochi respiri. Ti amo, ti amo!»
La mano del flautista salì in una debole carezza che lasciò una liquida scia rossa sul volto di Fosco.
«Lascia che ti dia qualcosa, qualcosa di mio. Un ricordo di me, di ciò che sono. Una parte di me che rimarrà con te per sempre.» Gli occhi blu di Kioku si illuminarono, riflessi di cobalto che parevano inumani nella loro intensità. Lentamente porse il proprio flauto a Fosco con un gesto privo di forze, più che altro accennato. «Tuo, se lo accetterai liberamente.»
Confuso da quell'ultima frase, Fosco fermò la mano a mezz'aria. «Certo che lo accetto liberamente, Kioku.»
«Prendilo, allora, e dimmi addio.»
Ipnotizzato dalle iridi dell'altro, sentendo le lacrime rigargli il viso, annuì. La sua anima urlava di dolore, straziata da quell'imminente e ineluttabile perdita.
Le dita di Fosco si chiusero sul flauto bianco e un lampo di sofferenza lo investì.
Un'ondata di bruciante tormento gli attraversò il corpo, il supplizio delle ossa che si rompevano e della carne che si lacerava lo dilaniava. Urlò, e la sua voce si spezzò contro il cielo indifferente, il corpo pervaso da inumani tormenti.
In preda al dolore e alla paura cercò di aprire le dita, inutilmente: la mano non si staccava dal flauto e Fosco sentì la fredda risata di Kioku.
Attraverso il velo della sofferenza vide la ferita di lui sparire e i suoi lineamenti mutare, diventare trasparenti e indefiniti, nebbiosi. Anche quello era stato falso, un inganno, una trappola? Quella lesione mortale era stata solo un'esca illusoria, come il sentimento che Kioku diceva di provare.
«Stupido, sciocco e credulone. Ho impiegato così tanto tempo a scovare la vittima perfetta, ero quasi alla disperazione quando ti trovai. La maledizione si può passare solo a determinate condizioni e ho cercato così tanto, tormentato dalla fame, chi potesse liberarmi. Mi sono opposto per anni all'anatema per non perdere me stesso, per non cedere. Grazie, Fosco. Ora sono libero grazie a te!» Un sorriso freddo, senza rimpianti, si disegnò su quel volto dai lineamenti mutevoli.
Fosco gridò, il dolore che gli straziava le membra. Non riusciva a staccare la mano dal flauto e, impietosa, la comprensione si fece strada in lui: non era mai stato amato. Aveva rinunciato a tutto per una menzogna, per un inganno, per l'illusione di un amore. Il dolore del corpo si intrecciò a quello dell'anima; il tradimento bruciava quanto il male fisico e un suono d'inumana rabbia e tormento proruppe dalle labbra di Fosco. A fatica ringhiò parole piene di odio verso l'altro: «Non mi hai mai amato, mi hai mentito!»
«Sì, avrei fatto qualunque cosa per liberarmi della maledizione. Non volevo perdere me stesso e venire annullato dalla mente del demone e tu eri perfetto, Fosco. La musica invade la tua anima, ne è il centro, passione e ossessione. Tutto, per te, è musica. Anche l'amore che provavi per me era in realtà per ciò che suonavo, ed è quello che serve per spezzare la catena. Ho atteso cento anni, cercando, patendo la fame e tenendo a bada il demone mentre cercavo. Infine ti ho trovato, ho fatto in modo che in te l'amore per me diventasse l'unica cosa importante e ora sono libero!»
Il dolore scemò di poco e davanti a Fosco non ci fu più Kioku, ma un uomo giovane, dalla chioma rossa e un fisico dinoccolato. Sorrideva soddisfatto, disinteressato al destino dell'altro. «Addio, Fosco. Che il demone abbia pietà di te, ma non credo ne avrà.»
«Maledetto! Che tu sia maledetto!» Fosco urlò negli spasmi della sofferenza, odiando come mai aveva odiato prima, mentre l'altro scoppiava a ridere, allontanandosi lungo un sentiero che si snodava tra gli alberi.
«Oh, quello è già accaduto! La maledizione ora è tutta tua!»
Con un nuovo grido di rabbia e sofferenza Fosco si contorse tra il fogliame autunnale, sentendo come se ogni parte del suo corpo venisse deformata con colpi violenti, le sue ossa triturate da invisibili magli. Infine l'incoscienza calò, salvandolo da ulteriori tormenti.

 

 

Il freddo che gli penetrava nelle ossa lo svegliò lentamente.
Il gelo che gli appesantiva le membra rigide scatenava continui brividi lungo il suo corpo riportando alla luce frammenti del tormento che aveva patito. Fosco gemette, sentendo il cuore palpitare di rabbia quando i ricordi lo assalirono feroci.
Era stato tradito, usato, manipolato.
Non era mai stato amato.
Ogni parola, ogni bacio e ogni carezza erano stati menzogneri e fasulli. Ogni promessa d'amore, ogni dolce parola, tutto quello che gli aveva detto era stata una bugia. Kioku l'aveva manipolato e ingannato senza nessuna esitazione.
Ringhiò: un suono gutturale che non gli apparteneva gli uscì dalle labbra, cupo e simile a quello di un animale. Si mise carponi, le mani che affondavano nel fitto fogliame umido e si guardò attorno, cercando di mettere a fuoco il luogo dove si trovava.
«Alberi. Solo alberi.» mormorò e sobbalzò. Non era la sua voce quella. Eppure era stato lui a parlare. «Alberi.» ripeté.
Sì, era la sua voce, ma allo stesso tempo non lo era. Da quando era così dolce e musicale? Non era più il suo tono baritonale, ma una modulazione così ambigua da rendere impossibile comprendere se apparteneva a un uomo o a una donna. Un senso d'irrealtà lo pervase: quella non era la sua voce, era quella di Kioku, eppure era stato lui a pronunciare quelle parole.
Si mosse e una lunga ciocca d'argento gli scivolò sul viso. Con un gesto lento l'afferrò, tirò e il dolore gli confermò che erano i suoi capelli. La sua mente gli diede l'unica soluzione logica a quell'enigma, eppure quello che doveva essere accaduto era impossibile.
Doveva essere la maledizione ad averlo mutato.
Rabbrividì, incapace di accettare davvero la magia, quell'accaduto che era altrimenti inspiegabile e impossibile. Si sentì spaventato e furioso, maledicendo con ringhi e parole furibonde Kioku e quello che gli aveva fatto, odiando come mai aveva fatto prima e come pensava fosse impossibile fare.
Era sempre stato una persona tranquilla, pacata, che amava la musica e viveva per essa. Pochi amici, quasi nessun interesse al di fuori del conservatorio, una vita solitaria in molti sensi. A vent'anni era un flautista di un certo successo, un piccola fama iniziava a crearsi attorno al suo nome ma, in tutta onestà, non era per quello che suonava. La purezza delle note, l'inarrivabile perfezione della musica, quello era ciò che agognava e desiderava veramente. Gli strumenti a fiato gli erano tutti conosciuti almeno in parte, era un prodigio, dicevano alcuni. Ma lui non ci badava, la musica era tutto il suo mondo, o almeno lo era stato fin quando nei suoi sogni non era comparso Kioku. Non aveva mai udito nulla di così perfetto e coinvolgente, puro, bello come il suono del suo flauto e si era perdutamente innamorato. Notte dopo notte nei sogni, in quel luogo onirico che univa i mondi e che si raggiungeva nei sogni, si trovavano.
Era stata solo una menzogna: era stato manipolato, usato, Kioku aveva solo voluto passargli quella maledizione.
La rabbia lo riempì, violenta e così forte da farlo gridare. Ancora una volta quel verso simile al ringhio furibondo d'una bestia proruppe da lui.
Il tradimento non causava solo dolore. Erano la furia e desiderio di vendetta, invece, che ora dominavano la sua anima.
Nella sua mente si vide fare a pezzi Kioku, sentì il sangue sulle mani mentre affondavano nella sua carne, e rabbrividì.
Si mise in piedi e guardò il flauto che aveva in mano.
«Te ne sei accorto.»
Fosco sobbalzò, guardandosi attorno, ma era solo. Una leggera bruma autunnale ammantava il terreno e come un fiato misterioso vagava tra il fogliame dorato e rosso, ancora caparbiamente aggrappato alle fronde. «Dove sei?»
«Sicuro sia la domanda giusta? Non dovresti chiedere chi sono, invece?» la voce sembrò deriderlo. Rimbombava nella sua testa con un tono basso, profondo, scaturendo dalle più oscure pieghe della sua mente. «Però, visto che mi chiedi dove sono, risponderò a quella domanda. Sono dentro di te, sono qua con te.»
«No.» sussurrò Fosco. Sentendo il bisogno di appoggiarsi a qualcosa si trovò con la schiena posata contro il bianco tronco di una betulla.
«No? Dici che sto mentendo o stai negando l'evidenza? Rinneghi l'oscurità del tuo cuore, l'egoismo che come veleno ha strisciato nella tua anima durante tutta la tua vita? Togli la maschera, Fosco. Sei un'anima nera, sei come me.»
Immagini spezzate iniziarono a rincorrersi nella mente di Fosco, mentre il tocco solido del tronco contro la propria schiena era l'unica cosa che lo teneva ancorato alla realtà.
C'era sangue, sangue ovunque.
Vedeva villaggi in fiamme, bambini, donne urlanti, campi di battaglia e, ai margini di tutto quello, c'era lui. Attendeva ai confini delle stragi, dove un cadavere in più non avrebbe destato sospetti, che qualcuno ascoltasse la sua musica e s'avvicinasse, incauto.
Lui? Era lui, quello?
No, non era lui, non erano ricordi suoi.
Quel demone dalla bellezza indescrivibile che pareva fatto di luce lunare era Kioku, ma non solo. Era chiunque nel tempo avesse accettato il flauto maledetto, cadendo preda di ciò che in esso si nascondeva.
La musica era la più potente delle magie: spezzava le menti, i cuori, poteva innalzare o affondare anima e sentimenti. Era capace di obliare qualunque emozione, di consolare e ferire, di donare gioia come dolore.
Al limitare delle tragedie, delle sciagure e del dolore, il suono del flauto s'innalzava e, trasportato dal vento, diveniva un amo a cui nessuno poteva resistere. Come pallido riflesso di luce si muoveva tra le ombre della foresta, nelle strade e nelle città, suonando la sua melodia come un girovago.
Attratta dall'illusione della bellezza, dall'incanto del dolce suono, da quelle note struggenti, un'anima si perdeva e un cuore palpitante veniva strappato dal petto di una creatura vivente.
Ma era lui, che eseguiva la musica?
Fosco, confuso da quei ricordi che non erano suoi, ma che invadevano la sua mente, trovava sempre più difficile mantenere la consapevolezza di sé.
«Tu, io, siamo noi, Fosco. Non senti la fame?»
Il ragazzo sentì le lacrime scorrergli lungo il viso, cadere e perdersi, terrorizzato da quelle visioni e da se stesso. Dentro di sé c'era un mostro che agognava la carne, il calore che avrebbe avvolto la sua mano mentre affondava in un corpo vivente, il sapore ferroso che esplodeva sul palato in un orgasmo di piacere. Sognava di afferrare il cuore palpitante di Kioku, strapparlo dal petto e divorarlo mentre ancora gli spasmi muovevano quel muscolo. Affondare i denti, lacerare, deglutire, mentre chi lo aveva tradito guardava. Gli ultimi istanti di vita di Kioku sarebbero stati spesi vedendolo mentre si nutriva di lui.
Ed era lui, quella brama era parte di lui, non era solo il demone a desiderare quello.
La paura, come tentacoli di ghiaccio, si mescolò al fuoco della rabbia: un connubio ardente che gli infiammò le membra e l'anima. Fosco si drizzò, gli occhi blu, profondi e luminosi, si erano accesi di folle odio.
Era stato tradito, maledetto.
Kioku aveva giocato con il suo cuore, con i suoi sentimenti. L'aveva ingannato con l'illusione dell'amore intrappolandolo in quel mondo e in un anatema.
«Non senti la collera? Ti ha usato, manipolato, hai perso tutto, Fosco. Non sei nulla, ormai. Hai perduto ogni cosa: la tua famiglia, il tuo mondo il tuoi studi; hai anche smarrito il tuo aspetto. Ora sei come era lui; una creatura dall'apparenza magnifica, dall'ingannevole bellezza tentatrice. Ti ha fatto lui tutto questo, Fosco, è stato lui. Lo ha fatto mentendoti, dicendoti che ti amava. Te lo ricordi come ti guardava, come ti toccava? Erano tutte menzogne. Quando nei sogni ti abbracciava parlandoti d'amore, quando le sue labbra ti sussurravano all'orecchio e la sua voce era miele. Tu gli hai ceduto, fiducioso. Lui voleva essere creduto per portarti qua, tradirti e maledirti, liberarsi addossando il maleficio su di te.»
Fosco rabbrividì, ma non era più il freddo la causa di quel tremore: era la furia che ora scorreva come lava in lui, incandescente e bruciante.
«Tu chi sei?»
La risata che riverberò nella mente di Fosco era graffiante, divertita. Un suono che poteva spezzare il coraggio di un guerriero tanta era la malvagità che da essa trasudava.
«Davvero non lo sai?» come veleno, dolce e mortale, la comprensione accompagnata dalla conoscenza si fece strada in Fosco. Era vero, in realtà lui lo sapeva.
«Sei il flauto,» si bloccò «no, non proprio.»
«Affermazione sia vera che falsa, sono il flauto, in effetti. È fatto con un mio osso, tutto quello che rimane dalle ceneri del mio corpo.» la voce si fece bassa, mentre un refolo di vento prendeva a soffiare tra i rami, un basso gemito simile al verso di dolore di un'anima perduta. «Pensavano di poter usare il mio potere, così, di vincermi.»
Tra le delicate e snelle mani di Fosco, bianche e fini, il lungo flauto d'osso sembrò quasi vibrare. Un oggetto squisitamente lavorato, sottile eppure pesante, lucidato dall'uso e non solo. Non poteva ricondurlo a nessun osso umano e capì: era una parte di un'ala. «Eri un uccello. Un demone uccello e cantavi, di te è rimasto solo questo.» deglutì, sentendo qualcosa muoversi nel suo ventre, come un primo inizio di fame, la prima avvisaglia di un appetito che nulla aveva di umano.
Un ringhio di rabbia pervase la mente di Fosco.
Il demone sembrò ruggire iracondo al ricordo di ciò che gli uomini gli avevano fatto. Strappato dal cielo, fatto a pezzi, bruciato, vincolato, ridotto a un oggetto.
«Moriranno. Chi ci ha fatto del male. Gli uomini moriranno. Tra le urla atroci, nella sofferenza e nella paura, traditi e mutilati gli spergiuri periranno, le anime si consumeranno e noi ci nutriremo, Fosco. Noi mangeremo e ci sazieremo al banchetto di corpi.»
«Moriranno.» Gli occhi blu di Fosco divennero distanti, mentre qualcosa che non era umano emergeva, tenebroso e affamato. «Il sangue.»
«Sì, non lo senti? Così caldo, salato, che gocciola piano in gola, che ti riempie la bocca. La carne...» la voce si fece suadente, melliflua, tentatrice. «Non hai fame? Non senti il tuo stomaco vuoto stringesi e chiedere cibo?»
«Fame. Sì, ho fame.»
La voce di Fosco era diventata sognante, mentre con passo lento si avviava lungo quel sentiero di terra, stretto e mal segnato. Sapeva dov'era, poteva attingere a ogni conoscenza del demone che albergava in lui. Ogni cosa conosciuta all'uno lo era all'altro, senza inganni, un'unica mente e due anime., non c'erano segreti, a patto di abbandonarsi completamente e perdersi. Camminò, affondando i piedi nudi nel suolo scuro e umido, morbido, senza lasciare alcuna impronta visibile a occhio umano. Gli occhi erano famelici mentre quella fame che occupava ogni suo pensiero corrodeva ogni traccia di volontà dell'uomo.
Fosco camminò, uscendo dal sentiero, e i suoi passi calcavano ora erba e foglie. Erano fredde e umide, un tappeto che rendeva ogni suo movimento silenzioso. Attorno a lui non c'erano rumori, oltre al sospiro del vento tutto taceva. La presenza del demone faceva tremare ogni vita, tra quei rami, riducendo il tutto alla spaventata quiete di chi voleva celarsi agli occhi di un predatore. La chioma d'argento era l'unico vestiario di quel corpo sottile e definito, di quella promessa oscura a cui lui stesso aveva abboccato. Lentamente, tra betulle e aceri, tra faggi e querce, la foresta si diradò e poco lontano vide una strada sterrata che si snodava lungo il pendio della collina; una cicatrice di terra scura e smossa che portava a un villaggio poco oltre le pendici. Un sorriso sognante e crudele si disegnò sul volto di Fosco mentre si portava alle labbra il flauto.
Le note si levarono nell'aria, fluttuando sulla spinta del vento, disperdendosi come un richiamo pieno di struggente malinconia. Era la voce di un cuore spezzato e tradito, ferito. Era la voce ammaliante e irresistibile che avrebbe attratto un cuore sensibile, un'anima pura che non avrebbe saputo resistere a quel dolore.
Una sottile bruma si raccolse attorno al corpo pallido, mentre le ombre del tramonto giocavano con l'ultima luce, tracciando scie purpuree nel cielo e livide sulla terra; celando i segreti nelle tenebre sempre più cupe e i dettagli delle forme agli occhi. Mentre lo spicchio di luna si levava all'orizzonte la bruma sembrò riempirsi di quella luce, tesserla e avvolgere il corpo di Fosco che ben presto ebbe addosso abiti che aveva visto fin troppo spesso.
Non se ne curò, non era importante, in quel momento una brama gli divorava il ventre, cancellando ogni altro pensiero.
Fame, un cratere che gli scavava lo stomaco, famelico.
Suonò senza pensare, senza pause, fino a quando non vide giungere con passo lento, incerto, un giovane. Una corta chioma scura che circondava un viso semplice, rozzo: un contadino con le mani ancora sporche di terra e abiti di stoffa grossolana, macchiati dal lavoro.
Continuò a suonare fin quando non fu vicino, fin quando quei grandi occhi pieni di commozione e compassione non furono a un soffio da lui.
«Mi hai sentito.» la voce di Fosco era dolce, appena udibile, mentre piegava le labbra in un esitante e mite sorriso.
«Sì, io non ho potuto evitare di venire qua; spero di non averti disturbato, ma sembravi così triste.»
«Mi spiace, ti ho forse allontanato dai tuoi doveri?» mesto, l'ombra del dolore sul viso, Fosco distolse gli occhi.
«Ingannalo, Fosco. Chiudilo nella tua rete, avvicinati. Bacialo, fallo cedere e a quel punto sarà tuo, sarà nostro. Non ci sarà più fame o freddo, non ci sarà più il dolore.»
Qualcosa si mosse dentro il ragazzo, una scintilla di lucidità fece la sua comparsa e bloccò la mano che stava portando al volto del giovane contadino.
Lo guardava come lui aveva guardato Kioku, ne era certo. Compassione, amore, dispiacere e tenerezza balenavo in quelle iridi. Ammaliato dal suo aspetto, illuso dalle note menzognere del flauto, si era offerto a lui pieno di candore. Puro, immacolato, un'anima che fremeva dal desiderio di poterlo consolare.
«Non posso.» sussurrò, così piano che nessuno avrebbe potuto udirlo, se non il demone in lui.
«No?» disse con una nota divertita quell'oscura voce, emergendo dalle pieghe ombrose della sua mente. «Non puoi cosa? Guardalo, osservalo bene. Annusalo.»
Le narici di Fosco fremettero e l'odore della pelle del ragazzo, l'odore di cibo, lo fecero vacillare. Profumo di carne, sangue, il suono ritmico del muscolo che nel petto batteva con forza. Deglutì, sentendo la fame tornare come un'onda di marea a coprire tutto. Gli ottenebrava la mente e attorcigliava le viscere, faceva male. La mano che stringeva il flauto tremò: Fosco lottò desiderando di lasciarlo, di abbandonare quello strumento, ma le sue dita non si mossero, la presa rimase salda.
«Senti il sapore del sangue, Fosco? Lo senti?»
«No!» gemette, e il ragazzo davanti a lui sbatté le palpebre, confuso. Lo guardò e inclinò il capo, un sospetto che iniziava a prendere forma in quelle iridi scure.
«No? Cosa...?»
La mano dell'uomo, la mano del demone, scattarono e si chiusero sulla gola del contadino.
«Zitto! Taci! Tu mi hai tradito, tu mi hai ingannato, Kioku!»
Una luce folle balenò nello sguardo di Fosco mentre all'immagine del giovane si sovrapponeva quella dell'uomo amato, di colui che lo aveva ammaliato, ingannato e stregato, di colui che l'aveva usato e abbandonato a un destino maledetto.
«Affonda i denti in quel collo, stringi la presa, saziati!»
«No!» gemette in preda al dolore. L'anima tormentata, dilaniata, il corpo scavato da una fame inumana. «Non posso ucciderlo, non posso!»
Fosco aveva compreso, in un lampo, la verità che Kioku stesso gli aveva detto tra le righe. Nutrirsi, cedere alla fame, voleva dire perdere se stessi.
«Sì, che puoi. Non hai fame, Fosco? Non senti il suo cuore battere, il suo sangue scorrere, il profumo della sua carne? È lui che ti costringe a questo, è colpa di Kioku, non tua. È lui che ti ha ingannato e tradito, è lui che ti ha maledetto!»
Veleno denso e dolce, miele che avvolgeva lame che gli torturavano l'anima.
«No!» il grido era angosciato, sofferente. «Non lo farò!»
Fu una lotta ardua, tremenda, la sua volontà vacillò più volte mentre una a una le dita si allentavano dal collo del contadino terrorizzato. Sentiva il ringhio del demone dentro di lui, la fame che gli divorava le viscere e la bocca arida per la sete che sapeva solo il sangue avrebbe dissipato.
Finalmente riuscì a mollare la presa e il contadino cadde a terra, immobilizzato dalla paura, fissando Fosco con gli occhi spalancati di una preda. Respirava a fatica e si portò la mano alla gola segnata dai lividi che già emergevano sulla pelle.
«Vattene! Scappa, stupido! Adesso!» Fosco gli urlò disperato.
Guardò il ragazzo strisciare all'indietro per qualche metro, poi alzarsi e muoversi inizialmente vacillando, per poi lanciarsi in una corsa sgraziata lungo il fianco della collina.
«Dobbiamo andarcene, arriveranno a cercarci per ucciderci. Sei uno stupido, uno sciocco sentimentale quanto Kioku!»
«Sentimentale, lui?» Fosco artigliò un ramo dell'albero che aveva accanto, cercando di controllare la nausea data dalla fame. Sentiva una stanchezza immensa negli arti, ma almeno tutta la confusione sembrava svanita. Aveva quasi ucciso quell'uomo per mangiarlo. Voleva farlo, voleva strappargli il cuore e morderlo. Voleva affondare con le mani tra quelle viscere e tirare fuori l'intestino, il fegato, ogni organo e nutrirsi di essi. Aveva pregustato il sapore del midollo, pieno di aspettativa aveva sentito la bocca riempirsi di saliva. Kioku aveva resistito a quello per cento anni, come aveva fatto?
Il suono di grida e alcune luci in lontananza attrassero l'attenzione di Fosco.
«Muoviti, o ci bruceranno. Non è un'esperienza piacevole e tra i due moriresti veramente solo te. Qualcuno raccoglie sempre il flauto: in quell'osso c'è tutta la mia forza.» la voce del demone era piatta, venata d'irritazione. «Nessuno può distruggerlo.»
«Cosa...?» Fosco si guardò attorno, la luce lunare dava una sfumatura argentea al paesaggio. Vedeva bene, fin troppo bene per essere notte. Ma non era quello il momento per perdersi in riflessioni, sapeva che il demone aveva ragione. Se l'avessero preso l'unico a morire davvero sarebbe stato lui, al demone bastava che qualcun altro prendesse in mano il flauto.
Diede le spalle al villaggio oltre le pendici della collina e si incamminò nel folto della boscaglia.
Sentiva gli occhi del demone dentro di sé: lo guardavano, freddi, aspettando il momento in cui lui avrebbe ceduto alla fame.
Kioku aveva patito tutto quello, aveva sentito la spossatezza, la pesantezza degli atri, quei dolori al ventre che sembrava annodarsi su se stesso? Per cent'anni aveva retto quel tormento, cercando qualcun altro per liberarsi dalla maledizione. Come aveva resistito?
«Non era umano.»
Fosco strinse i denti, entrando sempre più in profondità in quella distesa di alberi, lanciando occhiate al cielo punteggiato di piccole stelle. Non riconosceva nessuna di esse, non vedeva nessuna delle costellazioni a lui conosciute, in quella volta scura.
«Cos'era?» mormorò, cercando di distrarsi.
«Aveva sangue d'elfo nelle vene. Conosceva la magia, pensava di potermi usare; era stato sciocco come molti prima di lui, ma decisamente più cocciuto.»
«Ammirevole...» sbottò, invelenito.
«Quando ha capito di non potermi vincere ha trovato il modo di passare la maledizione.»
«A me.»
«A te.»
Fosco non disse più nulla, continuando a muoversi lentamente senza lasciare nessuna traccia sul terreno. La sua mente tornava a perdere lucidità a tratti, quando il vento gli portava l'odore degli inseguitori non era certo la paura che l'attanagliava, ma il desiderio brutale di carne. In quegli attimi tremava, pieno di una brama mostruosa e spaventosa, tanto che doveva fermarsi e aggrapparsi a qualcosa, qualunque cosa, per non cedere.
Si avvinghiava ai tronchi e alle pietre, lottando contro se stesso, diviso dal desiderio di appagare quella fame che gli scavava lo stomaco e ottenebrava la mente e la repulsione verso la stessa. Si morse il labbro, sentendo i denti aguzzi affondare dolorosamente nella carne morbida.
Era così stanco, debole, si sentiva pesante come piombo e ogni passo era sempre più difficile.
«Così ti prenderanno, sai? Ti bruceranno vivo, ti legheranno a un palo e ti daranno fuoco. Sentirai l'odore della la tua stessa carne divorata dalle fiamme e urlerai. Pensi di aver sofferto, quando il tuo corpo è mutato?» una risata malvagia pervase la mente di Fosco, che si lasciò cadere in ginocchio su uno strato di muschio, gli occhi appannati che a malapena vedevano il pigro scorrere di un piccolo ruscello davanti a lui, tra le pietre. «Non sai ancora nulla del dolore, Fosco.»
«Kioku...» nonostante il tradimento, quel nome gli salì alle labbra in un'invocazione appassionata.
«Sei solo, solo con me, Fosco. Solo noi due.» suadente, il demone parlò in tono quasi dolce, oscuro. «Non vuoi smettere di soffrire? Dimenticare Kioku?»
Suoni di passi e di sottobosco smosso, voci di uomini e il latrare confuso di cani. Fosco non si mosse, sentendo la sua mente nuovamente vacillare, in preda al tormento. Il suo cuore spezzato urlava il nome di colui che l'aveva frantumato, facendo sbocciare fiori d'odio nel suo petto. L'aveva sedotto, usato e lasciato a quel destino. Come poteva lui fare quello che l'altro gli aveva fatto? Resistere a quella fame, trovare qualcuno a cui passare quella maledizione, incurante di ogni cosa?
Era così terribile, in fondo, quello che doveva fare?
Perdersi, non soffrire più, era così sbagliato?
Fosco gemette piano, sdraiato all'ombra di quelle felci, guardando con occhi vacui la luna ora alta, quello spicchio d'argento che sembrava deriderlo. Sentiva il peso del flauto d'osso tra le dita, la superficie liscia e fredda.
«No.» mormorò, ma era una negazione vuota di significato, meccanica. «Non posso.»
Oppure poteva?
Deglutì, sentendo l'odore di un umano così vicino da poterlo vedere tra le fronde. Era un uomo adulto, mani grandi segnate dal lavoro, abiti semplici. Un altro contadino.
«La fame non passerà mai, Fosco. Tu non hai il sangue del popolo eterno nelle vene, quanto potrai resistere ancora? E per cosa? Per Kioku? Speri di poterlo vedere, che ti dica che di te in realtà gli importava?» la voce prese una piega crudele. «No, non gli interessava nulla di te, nulla! Servivi, eri solo un essere inferiore da poter sfruttare, ti disprezzava e lo sai. Ogni creatura che condivide il sangue degli elfi è volubile, leggera e frivola.»
Gli occhi di Fosco si chiusero, mentre le lacrime scorrevano sul suo volto.
Non era mai stato amato, mai.
«Non hai fame, Fosco?» melliflua, la voce l'incatenò mentre nuovamente l'odore di carne umana gli riempiva le narici. Quel contadino era a un passo da lui. Era vivo, caldo, e il suono del battito di quel cuore era una musica meravigliosa, per lui. Era vita, cibo, calore.
Perché lottare e soffrire? Per quale motivo?
Non era una creatura magica, immortale, era solo un uomo.
Le sue labbra si posarono sul flauto e iniziò a suonare, immediatamente l'uomo si bloccò, spalancando gli occhi e Fosco li vide riempirsi di lacrime, mentre la malia faceva presa sulla sua anima che, commossa, lo spingeva a vedere ciò che la musica gli suggeriva.
Era solo un uomo, e la fame stava divorando il suo ventre, torturandolo.
Il volto di Kioku, mentre la melodia s'intrecciava alla lieve brezza che sembrava tessere una trama attorno a lui e all'uomo, gli balenò in mente.
Dolce, bellissimo, innamorato.
Menzognero.
Completamente in balia dell'incanto il contadino si chinò su di lui e Fosco si mise seduto. Continuò a suonare, mentre le immagini di chi gli aveva spezzato il cuore gli avvelenavano l'anima.
Posò il flauto tra i giri della propria cintura, allungando una mano sul volto commosso del contadino.
«Mi ami?» gli chiese, una visione di bellezza e purezza a cui l'uomo non poté che annuire.
Il sorriso di Fosco si spense, ogni luce abbandonò il suo volto. Altre menzogne.
«Ti ha tradito, non ti ama, ricordi come ti ha voltato le spalle?» la voce del demone sussurrò e il volto davanti a Fosco mutò. Vide i lineamenti di Kioku, la curva dolce della bocca e gli occhi di quel blu impossibile, profondo e stupendo.
«Mi hai abbandonato.»
«Sì, ti ha maledetto, guardalo! Sorride, ride di te! Non vedi, Fosco, quello che ti ha fatto?»
La mano del flautista fremette, poi scattò stringendo la gola di chi incauto gli stava davanti. La sua mente, confusa dal demone, vedeva in lui Kioku.
La rabbia esplose e Fosco ringhiò, mentre la desolazione furibonda di un cuore ferito e spezzato, il tradimento di un amore mai esistito, uscivano in un mostruoso suono dalle sue labbra.
Strinse, amando la paura di quegli occhi, come l'altro si dibatteva inutilmente nella sua presa.
Accecato dalla collera e dal dolore continuò a serrare le dita.
Inutilmente l'uomo lottava: la forza di un demone era immensa, paragonata alla sua. La trachea veniva schiacciata sempre di più e il fiato mancava, come la voce. L'altra mano di Fosco si posò sul petto dell'altro, sentendo il cuore fremere di terrore, premere contro la gabba toracica come a volerne fuggire. Le unghie divennero nere, si allungarono e affilarono, e lui premette sulla stoffa, sulla pelle.
Una lacrima scese dagli occhi del demone, un'ultima vestigia di umanità, mentre le dita artigliate carezzavano il petto del contadino che respirava a stento.
Una negazione silenziosa, inascoltata, prese forma nell'anima di Fosco, ormai perduta in quell'illusione. Davanti ai suoi occhi c'era Kioku, il traditore. Eppure una parte di lui sapeva, un frammento di umanità cercò ancora disperatamente di opporsi, inutilmente.
Sorridendo tra le lacrime gli artigli neri misero a nudo carne e muscoli, sfondarono il torace e le dita affusolate sfiorarono il cuore che fremeva impazzito con delicatezza, osservandolo per un lungo istante. Fosco guardò quel volto, vedendo Kioku e il contadino fusi assieme, ma ormai non se ne curava più.
Quello sguardo colmo di terrore non destava nulla di umano, in lui.
Poi strinse le dita, sentendo il muscolo palpitare contro il suo palmo e tirò. Con uno zampillo di liquido, nero nell'oscurità, il cuore venne via con fin troppa facilità e Fosco se lo portò alle labbra.
Dagli occhi stille salate continuavano a scendere, rigandogli il volto, scavando sentieri chiari nel sangue che gli imbrattava la faccia mentre, morso dopo morso, affondava i denti aguzzi nelle fibre saporite.
Sangue ferroso, salato, scivolava lungo il palato fino in gola nutrendolo e saziandolo.
Il calore gli riempì il ventre mentre nel suo petto il battito del suo stesso cuore si affievoliva.
I tratti dalla bellezza ineguagliabile di quel volto si mossero fino a formare un dolce sorriso, mentre guardava il corpo straziato che giaceva ai suoi piedi.
Con la mano ora priva di artigli si portò alle labbra il flauto d'osso che aveva infilato nella cintura e iniziò a suonare una nuova melodia struggente, una malia per l'ascoltatore incauto.
Il battito di Fosco si indebolì.
Era un battere mortale, umano, che divenne sempre più flebile, fino a scomparire.
Nel petto del demone ora non c'erano più due anime, non c'era più il suono di due volontà in lotta: c'era solo il silenzio.

 



 



Storia partecipante al contest:
"L'inizio e la fine di ogni cosa" di ManuFury

Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, se vi piace fatemelo sapere, fa bene alla mia autostima!
Storia scritta per i contest "Malia: il canto delle sirene" e "L'inizio e la fine di ogni cosa".

Se volete saperne di più c’è sia il mio gruppo che la mia pagina!

Se volete venite a trovarmi!
Le Storie di Nemainn
Nemainn EFP



 

 

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