Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama
Segui la storia  |       
Autore: Pizee_01    30/11/2015    2 recensioni
[Tratto dalla storia]
Mi siedo sulla poltrona. Cigola.
Avvicino a me il fascicolo, lo apro e... no, non può essere...
“Imputato: Duncan Nelson
Accusa: omicidio di secondo grado.”
ATTENZIONE:
In questa storia si tiene in considerazione solo TDI, TDA, e TDWT
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Scott | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La Legge del gioco
Capitolo 20: La Fine
La morte ci ha sempre circondato.
Prima Scott, poi la madre di Courtney... e tutto in poco più di due anni. E una cosa alquanto ironica, no?
Tutto è nato dal fatto che io rischiavo di morire, quindi, in un certo senso, è grazie alla morte che ci siamo rincontrati. Quindi io in teoria sono in qualche modo debitore alla morte.
Me la sono sempre immaginata come la classica oscura figura incappucciata, con un'arrugginita ma tagliente falce in mano.
Ma io mi sono sempre chiesto cosa nascondesse quel cappuccio. Uno scheletro? Uno zombie? Semplicemente l'oscurità?
Una notte, da ragazzino, mi misi a pensarci. Quella notte non avrei dormito, faceva freddo, nonostante fosse appena inizio settembre. Ero coperto fino al mento dal mio piumone, ma avevo comunque freddo.
Non era insostenibile, ma in quel momento mi chiesi fino a quanto io avessi potuto resistere al gelo. E, con un grande volo pindarico, pensai al presunto freddo della morte. E arrivai alla conclusione che la morte non ha una forma propria.
Si adatta alla persona. La prima cosa che pensai fu il ragno. La morte con faccia da ragno.
L'unica cosa che non mi quadrava era che a me i ragni piacevano, li adoravo, soprattutto le tarantole.
Perché il ragno?
Me lo sono sempre chiesto. Ma non ho mai trovato risposta.
Ma ora la morte non mi spaventa.
Perché stiamo andando verso una nuova vita, e non mi voglio più tirare indietro.
Tra le strade di New York, una città che non mi è mai piaciuta, troppo rumorosa, troppo stupida e ignorante. Così io ho sempre considerato i newyorkesi.
Ma questa è la città più... giusta, credo. Ma, in fondo, chi sono io per giudicare 8,406 milioni di persone?
Tra le strade di una città grigia, ma anche rossa, verde e blu.
Camminiamo, senza parlare, con il nostro silenzio colmato soltanto dal frastuono che macchine, persone e artisti di strada provocano.
Vedo che dall'altra parte della strada c'è una ragazzina, non può avere più di quindici anni, che suona il basso elettrico. È quasi ipnotica da quanto è brava. Da ignorante in musica quale sono ho sempre considerato il basso come uno strumento inutile, ma quella ragazzina mi sta facendo cambiare idea.
È solo una ragazzina, ma mi ha fatto cambiare idea, chi l'avrebbe mai detto?
Davanti a sé tiene la custodia del basso aperta, assottiglio lo sguardo e sono contento di vedere che dentro ci sono molte monete e alcune banconote.
Intorno a lei c'è un grande stormo di persone che ascoltano rapite le sue note.
Ecco cosa siamo tutti noi, tutti noi che siamo persone, ci consideriamo adulti, senza mai sentire il bisogno di imparare. Perché noi sappiamo già tutto. Ma non è vero.
Noi siamo eterni bambini per alcune cose. Abbiamo sempre da imparare, ma siamo troppo orgogliosi per ammetterlo. Anch'io ero così, e ora come ora vorrei andare dal me di due anni fa e tirargli uno schiaffo su quella arrogante faccia che si ritrova.
Continuando a camminare, non riesco più a vederla.
Ma mi ha fatto nascere un sorrisetto sul viso.
-Perché sorridi?- il mio sorriso si accentua.
-Niente.- le rispondo senza guardarla ma continuando a sorridere.
Lei non dice nulla, ma mi fissa sconcertata per alcuni secondi, poi anche lei viene influenzata da me e sorride.
Non c'è motivo per essere tristi oggi, non riuscirei a trovarne uno.
C'è tanta gente contro cui ci scontriamo, tutta gente grigia. Gente che ha un obbiettivo nella vita, e non pensa ad altro. Altri invece sono coloro che un obbiettivo non ce l'hanno e non lo vogliono. È una scelta di vita come tante, è superficiale, arrogante e sciocca, ma pur sempre una scelta, una scelta che anch'io avevo intrapreso da giovane ignorante quale ero.
Un obbiettivo ora ce l'ho, e lo sto raggiungendo proprio adesso, in questo momento, camminando per le strade di New York, con lei.
Un tizio alza gli occhi e, dopo un momento di smarrimento, mi saluta, sorridendomi.
Io rispondo al saluto, anche se non ho idea di chi sia.
Ma non importa, forse stava salutando qualcuno dietro di me, ed io ho fatto la figura dell'idiota. Ma, sinceramente, dell'opinione di una persona media, con una vita media e con un'intelligenza media non me ne importa nulla. Niente. Non sono più una persona così stupida da anteporre il pensiero degli altri al mio.
Mi si forma spontaneamente un sorriso sulla faccia. Sono in pace. Ed è la cosa migliore che io potessi anche solo sperare. Anche se io non speravo mai in niente, non ero attaccato a niente, se escludiamo la mia misera esistenza. Quella era l'unica cosa che ero certo di possedere, ero spaventato dal fatto che se ne andasse via da me, lasciandomi in balia di demoni che mi avrebbero trascinato nelle fiamme degli Inferi. Non credendo in niente, non potevo sperare in niente. Ora mi torna alla mente: ero talmente narcisista da reputare Dio come una divinità effimera, che sarebbe intervenuta per me solo per darmi del bene.
Forse perché io non volevo odiare Dio. Ma finii per farlo.
Tutto quello che mi è successo mi ha allontanato anche dalla sola idea di credere, di una qualsiasi idea di fede; come effettivamente può essere comprensibile.
Non mi ci sono più ravvicinato, per una mia scelta.
Mi ricordo che il momento in cui capii che nulla mi avrebbe mai convinto a credere che in cielo ci sia qualcuno che veglia su di noi accadde quando avevo quindici anni. Ero già un punk, o almeno mi vestivo da punk, non ero ancora arrivato al livello di fare proteste o simili, mi limitavo a fare il ribelle con i professori.
Era il 2001. Più precisamente l'11 settembre 2001. Io vivevo con i miei a Toronto.
Era martedì. La scuola non era ancora iniziata, perciò alle otto e mezzo io ero ancora addormentato nel mio letto.
Erano le nove di mattina quando mia madre mi svegliò brutalmente, gridando che dovevo andare in cucina, che era importante. Era spaventata, vedevo che tremava, perciò non feci storie e le dissi che sarei arrivato un minuto dopo, giusto il tempo di mettermi qualcosa di decente addosso. Presi le prime cose che trovai sul pavimento e me le infilai svogliato, imprecando tra me e me, ma in realtà curioso di sapere che diamine fosse successo.
Appena arrivai in cucina vidi che i miei genitori stavano guardando la televisione, quasi ipnotizzati. Era il telegiornale.
Mi avvicinai a loro, per sapere cosa ci fosse di così interessante in un programma che avevo sempre considerato di una noia insostenibile. Vidi due immagini che mi segnarono a vita.
Le riprese della Torre sud in fiamme e la ripresa di una ragazzina, che aveva più o meno la mia età, che piangeva a dirotto, urlando disperata, vicino agli assistenti sociali invocando i genitori.
In queste immagini vidi che tutto quello che migliaia di uomini si sono impegnati a costruire può crollare. Tutto ciò che noi riteniamo più che normale è sempre a rischio. Che gli esseri umani sono costretti a vivere nel terrore eterno.
Questi furono i miei primi pensieri.
Dopo mezz'ora che fissavo la televisione, pugnalato da quelle immagini, me ne andai in camera mia senza dire niente, in religioso silenzio, tanto che i miei non si accorsero nemmeno che me ne ero andato.
Dopo, quando crebbi, metabolizzai i miei pensieri infantili, e capii che noi sì viviamo in un mondo che è a rischio, ma che di sicuro non è così che potremo mai curare il tumore che è andato espandendosi in tutto il mondo dopo l'11 settembre.
Per questo io ho scelto questo obbiettivo, perché voglio dimostrare a loro che io posso vivere una vita più che felice, che anche se loro mi puntassero una pistola alla tempia io continuerei a sorridere.
Tutto questo mi ha portato qui. Mi ha fatto diventare un uomo. Perché se si è adulti non vuol dire né che si è maturi né che si è uomini. Ci sono vecchi di ottant'anni che non si possono definire uomini, ma ragazzini.
Almeno New York ha un pregio: è una città in cui c'è vita. Persone che fanno cose, vanno in luoghi, incontrano altre persone. Questo è il bello di New York: potresti trovarti morto per mani di un tizio con una pistola preso da un atto di follia, ma potresti anche raccogliere da terra un biglietto della lotteria vincente che ti fa diventare milionario. È il Destino.
Mi ha sempre incuriosito pensare che, un semplice sguardo, un semplice incontro ci può portare dove siamo ora. Se i miei bis nonni non si fossero mai incontrati io non sarei qui, e molto probabilmente le persone che ho incontrato durante la mia vita non sarebbero le stesse. Non sono narcisista, forse se io non avessi rubato quel minuto a qual ragazzo per chiedergli quell'accendino, lui sarebbe stato investito da una macchina. Così come se lì lui non ci fosse stato, forse io non avrei mai fumato quella canna. Tutti siamo collegati, non si può credere il contrario.
New York... la città del Destino.
Tutte queste persone che camminano qui, vicino a me, su questo marciapiede, pensano si essere indipendenti dal mondo, da tutto. Se qualcuno nel mondo muore, loro non ne risentono, a loro non cambia nulla, continuano a vivere la loro vita, da egoisti.
Io sono orgoglioso di credere che io dipendo da tutti questi sconosciuti.
E, grazie a questo, ho il diritto di essere orgoglioso del fatto che tutte queste persone dipendono da me.
-Cos'hai? Se silenzioso.- lei interrompe delicatamente i miei filosofici pensieri.
-Non ho niente.- le rispondo tranquillo. Ci sono pensieri che non hanno il bisogno di essere condivisi.
-Sei emozionato?- ipotizza, intelligentemente. È una teoria plausibile.
-Probabile.- le dico, ridendo.
-Ti capisco. Io sto tremando.- non riesce a trattenere un meraviglioso sorriso che va formandosi sul suo viso. E riesco a intravedere delle felici lacrime che si sono formate nei suoi occhi. Sorrido anch'io. La amo troppo.
Prendo una sua mano nella mia. Lei mi guarda negli occhi sorridendomi. Ci fissiamo per due secondi, poi lei riporta lo sguardo davanti a sé, e il suo sorriso scompare. Si ferma. Immediatamente anche il mio si spegne. Guardo nella stessa direzione e la capisco.
Lì c'è Gwen.
Ecco quello di cui parlavo. Il Destino a volte sa essere proprio un gran bastardo. Sorrido ironicamente divertito. Avevo ragione, per una volta.
Courtney cerca di cambiare rotta, per far sì di poter far finta di non averla vista, ma ormai il danno è fatto: anche Gwen ci ha visto. Anche lei si ferma.
Si fissano per alcuni secondi. Ora noto che Gwen sta tenendo la mano ad una ragazza dai capelli ricci e rossi; che probabilmente non sta capendo niente di ciò che sta succedendo.
Courtney deglutisce, nervosa. Non sa che fare. Sono passati due anni, era anche ora che succedesse, vorrei dirle, ma mi sembra più opportuno tacere, per questa volta.
Gwen prende un grande respiro e si avvicina, assumendo un sorriso di circostanza totalmente fuori posto, adesso.
Arriva davanti a noi. La ragazza riccia ha un'espressione che unisce arrabbiato e confuso. Forse sta iniziando a diventare gelosa.
-Hei.- dice. E dopo alcuni secondi si rende conto che la sua voce è spezzata da un dolore che neanche lei riesce a comprendere.
Courtney non parla, è paralizzata. Gwen non riesce a spiccicare nessun'altra parola, così abbassa la testa e fissa il marciapiede.
Tutte le persone ci superano, innervosite dal fatto che ci siamo stazionati in mezzo al marciapiede.
-Ehm... che ne dite se ci andiamo a prendere un caffè?- chiede la riccia, cercando di nascondere il suo nervosismo e la sua perplessità. Indica un bar che sta sull'altro lato della strada, sia Courtney che Gwen guardano in quella direzione senza realmente vedere niente. Vogliono solo fare in modo di non incrociare i loro sguardi.
Vedo che Courtney sta per mettersi a piangere, quindi devo intervenire. Ma non ho alcuna intenzione di allontanarle di nuovo: Courtney non ha nessun vero amico a parte me, quindi cerco di calmare un po' le acque.
-Sì, credo che sia una buona idea. Del resto, non siamo in anticipo per l'appuntamento?- chiedo retoricamente a Courtney. Lei mi guarda preoccupata, non era quello che immaginava io dicessi. Ma sono adulte, è ora che si chiariscano.
-Sì...- mormora, abbassando lo sguardo e avvinghiandosi al mio braccio.
Gwen semplicemente annuisce debolmente.
Ci avviamo insieme, come di tacito accordo, verso le strisce pedonali. Il rumore che ci circonda contribuisce nel mantenere l'atmosfera non eccessivamente tesa.
Attraversiamo appena la luce del semaforo si accende e quel piccolo omino verde che cammina ci dà il permesso di attraversare.
Arriviamo davanti all'entrata del bar, tutti sono indecisi su chi deve entrare per primo. Io mi sposto, Courtney mi segue rimanendo abbracciata al mio braccio, e le faccio entrare. Gwen accenna un impercettibile segno con la testa, ma non mi guarda, mentre la rossa mi sorride nervosa ed entra, trascinando quasi Gwen con sé.
Il bar è piccolo, accogliente e non affollato.
Sempre in silenzio ci accomodiamo in un tavolo da quattro, io e Courtney vicino alla porta, Gwen e la riccia di cui non si conosce il nome di fronte a noi.
Nessuno guarda negli occhi nessuno.
Poi, vedo con la coda dell'occhio la riccia che mi guarda, come se mi stesse chiedendo aiuto. Allora lei non è totalmente all'oscuro da ciò che è successo.
-Ehm... a che appuntamento dovete andare, se ve lo posso chiedere?- cerca di intavolare la conversazione con una domanda che non può che fare del male. Guardo Courtney, lei mi dice rassegnata con gli occhi di dire la verità.
-Stavamo... andando all'orfanotrofio.- non dico altro. Credo che sarebbe troppo continuare. Gwen ha alzato la testa e spalancato gli occhi sorpresa. La riccia la imita.
Faccio passare due secondi di gelo, poi cambio argomento.
-Ma raccontateci di voi. Noi non sappiamo neanche come ti chiami.- cerco di essere il più cordiale e amichevole possibile. La rossa sorride, arrossendo un po' per la vergogna.
-Ah, giusto, io mi chiamo Johanna.- dice, solare. È proprio una bella persona.
L'aria continua ad essere tesa, e Courtney stringe sempre di più il mio braccio, come una bambina timida davanti ad uno sconosciuto.
-Oh, andiamo, piantatela.- la voce flebile di Gwen riempie il silenzio che è andato formatosi. -Vi state solo rendendo ridicoli.- la stretta di Courtney si accentua. Quasi non mi sento più il braccio.
-Cosa... cosa intendi dire, Gwen?- chiede Johanna, cercando di farle capire che questa sua frase non sta contribuendo a rilassare l'atmosfera.
-Io e Courtney ci siamo divise per una ragione. Anche se sono passati due anni nulla potrà mai cambiare; il danno è fatto. Io mi sono rifatta una vita con te, e lei si è rifatta una vita con Duncan. Non ha senso continuare a sprecare tempo.- non ha alzato la testa neanche per un secondo. Molto probabilmente altrimenti non sarebbe riuscita a far uscire dalla bocca una parola. Debole era e debole è rimasta.
Il silenzio riempie per l'ennesima volta la nostra conversazione.
Gwen sospira.
-Andiamocene, Johanna.- si alza e va verso la porta. Johanna la segue, pur cercando di fermarla con parole che Gwen non vuole ascoltare.
-Gwen, aspetta.- questa non è Johanna. È Courtney.
Gwen si blocca, dandoci la schiena. Io e Courtney siamo rimasti seduti.
-Addio, Gwen. E vivi una vita felice, mi raccomando.- le dice, tristemente. Ora credo che Gwen se ne vada, e che non la rivedremo mai più.
Ma mi stupisco, perché Gwen non se ne va, al contrario: dopo una manciata di secondi in cui è rimasta a fissare una porta trasparente chiusa, si gira verso di noi.
Non mi guarda, sta guardando Courtney negli occhi, e, stupendomi, lei sta sostenendo il suo sguardo.
Courtney si alza. Mi alzo anch'io, sono curioso di sapere che cosa ha intenzione di fare. Si guardano, come se si studiassero, e, all'improvviso, si mettono a ridere di gusto. Io, come Johanna, le fisso sconcertato. Era l'unica cosa che non mi aspettavo.
Si sono parlate con gli occhi, un modo di comunicare che sono loro potevano avere, che io e Johanna ci sogniamo.
Continuano a ridere.
-Oh, adesso basta...- cerca di dire Gwen tra le risate. -Ora devi andare a prendere tuo figlio.- le risate si placano, ma i sorrisi sono ancora sui loro visi.
Courtney annuisce.
-Mi raccomando, chiamami quando arrivi a casa.- le dice Gwen. -Perché niente è veramente cambiato.- Courtney annuisce seria.
-Andiamo, Duncan.- mi dice, e io la seguo. Non si salutano, e nessuno guarda indietro.
La vita va avanti, così come le nostre vite, ma questo non vuol dire che non si possono intrecciare. Una... due... centinaia di volte.
E io ringrazio ogni giorno per questo.
Mi viene solo da ridere se penso al me adolescente che pensava che io non mi sarei mai sposato, che avrei avuto mille donne nella mia vita, fino a quando non sarei diventato vecchio, troppo vecchio per anche solo parlare.
E invece no.
Ora ho una moglie, un bambino che sta per diventare mio figlio.
Ma ora voglio dire addio alla mia vecchia dicendo una cosa alla vita che il Destino mi ha fatto vivere fino ad oggi:
Io vivo e vivrò felice per il resto della mia vita. Che si fotta il Destino.
 
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
E siamo arrivati alla fine! (con un ingiustificabile ritardo, ma fa niente!)
Questo è stato un capitolo in cui mi sono totalmente abbandonata ai miei pensieri, ai pensieri di Duncan.
Questa è stata una storia che mi ha coinvolto personalmente, perché voi, anche se non ve ne rendevate conto, stavate leggendo di me. Perché non c'è bisogno di alcuna presentazione: io ho i capelli di questo colore, mi piacciono queste cose, odio invece queste altre... basta leggere le mie storie per conoscermi.
Io forse mi sono aperta anche troppo scrivendo questa storia, ma non me ne pento. Ogni riga, ogni parola, ogni lettera l'ho scritta per sfogarmi, principalmente, quando avevo bisogno di alienarmi.
Inoltre, so che sembra assurdo, ma io, mentre scrivevo un capitolo, ero all'oscuro di cosa sarebbe successo due righe dopo, esattamente come voi. Tutte le emozioni che descrivevo erano quelle che provavo io. Perché ogni mio personaggio (anche se non creati totalmente da me) era, ed è, una parte di me.
Sì, lo so, tutti questi discorsi sono un po' noiosi, eh?
State tranquilli, ho finito.
Per ultima cosa, ma assolutamente non la meno importante, volevo ringraziare tutti coloro che hanno recensito, tutti quelli che hanno messo la mia storia tra le preferite, tra le seguite e tra le ricordate. Ma ringrazio anche coloro che leggono in silenzio.
Be', io ho detto quello che dovevo dire.
Alla prossima! (perché non credete di potervi liberare così facilmente di me!)
 
 
 
Pizee_01

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama / Vai alla pagina dell'autore: Pizee_01