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Autore: poison spring    01/12/2015    12 recensioni
Prendete la figlia del Salvatore del Mondo Magico, appioppatele una cuginetta a cui fare da baby sitter e mettetela sulla strada di una folle impresa suicida alla ricerca di fortuna e gloria. Datele una migliore amica con l'intelligenza della madre, l'astuzia del padre e il carattere della nonna paterna. Datele un ex ragazzo inopportuno, un mistero o due da risolvere e un paio di fratelli da schiantare.
Agitate, non mescolate e spruzzate tutto con un bel po' di Malfoy, Lucas Malfoy.
NG Post Bellezza del Demonio. [Lucas Malfoy/Lily Luna Potter]
[I personaggi di Lucas Altair Malfoy, Lyra Joanne Narcissa Malfoy non sono presenti nella Saga della Rowling per motivi più che ovvi e sono da considerarsi di proprietà dell'autrice]
Lyra sorrise. «Sei stata grande, li hai zittiti tutti».
«Non mi si avvicinerà nessuno per il resto dell’anno, ma ne è valsa la pena. Non credo di essermi mai sentita tanto bene».
Lyra le strizzò l’occhio e la prese sottobraccio. «È genetico. Non puoi farci niente».
«Stai ancora parlando del fattore Potter?»
«E di che altro?» rise Lyra, trascinandola su per le scale.
Genere: Avventura, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Famiglia Malfoy, Famiglia Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio | Coppie: Draco/Hermione, Harry/Ginny
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo della Bellezza'
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Lasciate che vi prenda per mano e vi racconti una storia.

Di nuovo.

Ancora e sempre, grazie di tutto.



I


Non c’è posta la domenica


“I'll come to you tonight, dear, when it's late,

you will not see me; you may feel a chill.

I'll wait until you sleep, then take my fill,

and that will be your future on a plate.

They'll call it chance, or luck, or call it Fate”.


- Neil Gaiman -


Tutto ciò che Maggie desiderava era riuscire a fare una magia. A cinque anni girava per le strade del quartiere con un ciuffetto impazzito di capelli biondo scuro che spuntava dal cappuccio della felpa e trascinando un carrellino di plastica blu con sopra un coniglio di peluche. Si era messa in testa di farlo scomparire: si sbracciava in complicatissimi arabeschi con le braccia e improbabili formule inventate che finivano quasi tutte in -boo.

A undici era una ragazzina graziosa, dalle guance rosa, che aveva preso quasi tutto dalla madre, Melinda, di professione impiegata alla Biblioteca locale. I suoi capelli erano più scuri, il suo coniglio di peluche più sbiadito e la sua passione più fervente che mai. Suo padre aveva brontolato parecchio: si era imbronciato, e aveva detto una delle parole censurate. La fissazione di Maggie per la magia - una novità assoluta per la famiglia del padre, che aveva sempre considerato certi argomenti alla stregua di autentiche baggianate - sembrava inestirpabile. Melinda, da buona madre dotata di senso pratico, aveva liquidato la faccenda definendola un’infatuazione infantile, fingendo di non notare l’espressione perplessa e un po’ angosciata del marito.

Nessuno aveva mai pensato che la passione di Maggie per certi argomenti potesse nascere da qualcosa di diverso: né sua madre, che del resto non credeva in certe cose, né suo padre, nonostante la ruga in mezzo agli occhi che appariva ogni volta che si verificava qualche fenomeno insolito in presenza della bambina. Nessuno ci aveva mai pensato, neppure la nonna: non prima del suo undicesimo compleanno, comunque.

Il giorno in questione cadeva in agosto e, quell’anno, era una domenica. Per l’occasione, il giardino della villetta era stato addobbato con graziosi festoni colorati e composizioni di palloncini gialli. Poiché tutto era stato approntato la notte prima, non appena la bambina era andata a letto, grande era stato lo stupore di entrambi i genitori nel vedere, quella mattina, gruppi di palloncini penzolare, mezzo sgonfi, a ridosso del muro di cinta, e i festoni cosparsi di macchie biancastre.

«Dudley» Melinda aveva chiamato il marito che, basito, osservava la scena senza proferire parola.

Dudley aveva sporto il labbro in avanti, corrugando le sopracciglia. «Mindy? Sto sognando, vero?»

«Ci vorrà tutta la mattina per sistemare questo pasticcio. Che cosa sono queste chiazze» si era lamentata, prendendo una delle strisce di carta crespa, «è piovuto fango, stanotte?»

«Temo di no». Dudley aveva sbattuto le palpebre. «Posala. Credo che abbiamo un problema».

Melinda aveva arricciato le labbra. «Certo che lo abbiamo. Tra due ore tua figlia si sveglierà e tutto quello che avrà saranno palloncini flosci e… Cos’è questo schifo?» Aveva annusato la macchia da vicino. «Bleah, sembra… »

«È guano. Di volatile». Dudley era molto pallido. Aveva sollevato una mano, indicando un punto impreciso davanti alla casa. «Guarda un po’ là».

Mindy aveva visto la schiera di gufi e civette appollaiati sui fili della luce.

«È uno scherzo. Dimmi che è uno scherzo grottesco dei tuoi parenti matti».

Dudley salì le scale, facendole tremare, e aprì la porta della stanza di Maggie. Schiuse leggermente l’anta della finestra per far entrare un po’ di luce.

«No, no, no» borbottò, pregando tra sé qualche divinità dal nome sconosciuto. Chiunque fosse, non doveva essere in ascolto: mentre tornava verso il letto, Dudley inciampò in qualcosa che produsse un crepitio fastidioso. Istintivamente, abbassò lo sguardo: ai suoi piedi, c’era una montagna di buste, tutte ugualmente spesse e chiuse con un sigillo di ceralacca rosso vivo, indirizzate a Margaret Dianna Dursley, numero cinque di Broad Oaks, Tolworth, Surrey.

Afferrò con le braccia malferme il cumulo di lettere. «È un sogno» ripeté a se stesso. «Ora cadrò dalle scale e mi sveglierò nel mio letto».

Tuttavia, quando ebbe sceso la rampa di gradini ancora illeso, trovò Melinda comodamente seduta in poltrona, che sembrava più che intenzionata a escludere ogni veridicità dell’ipotesi onirica. «Cosa sono quelle?»

Dudley fece spallucce. «Lettere, mi sembra evidente».

«Ma non c’è posta la domenica».

Lui sospirò. «Credo di doverti dire una cosa. Ma devi ascoltarmi molto, molto bene».


***


«Squilla il telefono».

Lily alzò la testa dal suo libro di Trasfigurazione e aggrottò le sopracciglia. «Ho sentito, Jamie. Va’ a rispondere» sbottò, rivolta a suo fratello maggiore, ch’era sdraiato sul divano e sfogliava oziosamente una rivista sul Quidditch.

«Nessuno ci chiama mai con quell’affare. Vorrei proprio sapere chi è». Albus, il secondo dei nati Potter, si stropicciò la faccia, prima di rimettersi gli occhiali.

«Guarda che l’invito vale anche per te, Al» ribadì la ragazza.

James sbuffò, facendole il verso. In corridoio, l’apparecchio smise di suonare. «Ecco» allargò le braccia con fare melodrammatico, «abbiamo perso la telefonata più importante nonché l’unica degli ultimi due anni e tutto per colpa tua».

Albus sfoderò un sorrisetto. Dei tre, era quello che somigliava di più al padre: James, a detta di tutti, aveva preso dal nonno. Lily, con la lunga chioma rosso fiammante e gli occhi verdissimi, era un fiero miscuglio delle famiglie di entrambi i genitori. Della madre, soprattutto, possedeva l’inclinazione a perdere in fretta la pazienza. «Io sto studiando» disse infatti, con un tono che, nelle intenzioni, non ammetteva repliche.

James le dedicò una smorfia. «Secchiona» la canzonò.

«Divertente. Quanti anni hai, sette?»

«Ne ho due più di te, cocca di papà».

«Oh, sì, ti prego» ribatté lei, scattando in piedi. «Continua. Mostra a tutti quanto sei maturo».

«Piantatela tutti e due» intervenne Albus. «Il telefono sta squillando di nuovo».

James liquidò la faccenda con un’alzata di spalle.

Lily sbuffò, chiudendo il libro che aveva ancora in mano. «Non vi scomodate! Vado io».

Raggiunse l’anticamera. Il numero dodici di Grimmauld Place era un luogo assai più soleggiato di com’era stato un tempo. Lily ricordava qualcosa dalle vecchie foto nell’album dei suoi genitori: lì, la luce sembrava molto meno forte, e la casa molto più vecchia.

Il telefono, comunque, non c’era. Non che fosse necessariamente un male, pensò, alzando la cornetta.

«Pronto?»

All’altro capo del filo, qualcuno tossì. «Lily Luna?»

Lei aggrottò la fronte. C’erano poche persone che la chiamavano con il suo nome completo: sua madre, quand’era molto arrabbiata, qualche insegnante. E la prozia Petunia, che era l’unica a usare il telefono.

«Zia Petunia?» tirò a indovinare. Di solito, quella telefonava solo per le feste comandate, lasciando al figlio il compito di comunicare nelle altre occasioni i suoi saluti.

Un altro colpo di tosse. «Sì, sono io. Tuo padre è in casa?»

Il telefono gracchiò e cominciò ad emettere strani suoni. C’erano troppi maghi in quella casa perché funzionasse senza intoppi.

«No. Posso fare qualcosa per te?» chiese Lily, ignorando le interferenze.

«Non saprei proprio». La donna sembrava confusa, un aggettivo che Lily difficilmente avrebbe usato per descriverla, in condizioni normali. Nelle rare circostanze in cui l’aveva incontrata, l’aveva sempre vista come una signora di una certa età, piena di sussiego. «Pensi di venire alla festa di  Maggie, oggi?»

Lily soppresse un gemito di sorpresa. «Sì, certo» disse. «Ho confermato la mia presenza una settimana fa. Solo io, però» puntualizzò. «Jamie e Al hanno… Degli impegni». Si morse la lingua: aveva quasi dimenticato le regole. Niente magia, con Petunia Dursley. Nemmeno a parole.

«Oh, bene. Molto bene. A più tardi, allora» mormorò la prozia. A Lily parve di scorgere una sfumatura di sollievo nella sua voce e ne fu talmente stranita che dovette mettersi a sedere sulla poltroncina di fianco alla console del telefono.

«Ci… Ci vediamo più tardi, zia Petunia». Riappese, tormentandosi l’angolo sinistro del labbro inferiore; quand’era nervosa, sedeva in modo strano, diceva sua madre, scoccandole occhiate piene di preoccupazione nel vederla torcersi e avviluppare le gambe l’una all’altra, in un incastro quasi serpentino. Ginevra Potter, nata Weasley, era una medimaga e aveva idee piuttosto chiare sulla postura corretta da assumere da seduti; sua figlia, contraddizione intrinseca della famiglia con quel lato bizzarro che doveva derivarle dalla madrina, da cui aveva ereditato il secondo nome, sapeva bene di darle spesso qualcosa di troppo di cui preoccuparsi. Lo stesso valeva per i suoi fratelli, James Sirius, che tutti a scuola chiamavano semplicemente Potter, ritenendo che in quelle due sillabe si esprimesse a sufficienza il concetto di ciò che lui era, e Albus Severus, apparentemente tranquillo ma spesso invocato per sfatare il mito che nel nome si nascondesse il destino di chi lo portava; tuttavia, il loro essere maschi li aveva più volte preservati dall’ira paterna; quel privilegio non era toccato a lei che, femmina e tanto più graziosa e recalcitrante, s’era dovuta sedere spesso - per quanto metaforicamente - sulle ginocchia del padre per ascoltare una delle sue lezioni.

Così aveva cominciato a dare sfogo alla sua insofferenza con quella postura contorta, con il rifiuto di tagliarsi i capelli, che aveva lunghi fino alle natiche, e con la ferma opposizione a qualunque tipo di occasione formale che non fosse di suo preciso gradimento. Di rado si prestava alle manifestazioni pubbliche cui suo padre era costretto a presenziare; le uniche feste cui partecipava erano quelle della sua migliore amica. E i compleanni di Maggie.

«Siete tutti qui?»

Era la voce di sua madre. Lily alzò una mano in cenno di saluto e si sporse, testa all’indietro. «Ciao, mamma».

«Sta’ un po’ attenta» la rimbrottò quella, passandole una mano affettuosa sulla testa. «Se continui a fare queste cose, prima o poi cadrai».

Lily sbuffò. «Sì, mamma». Non importa che tu abbia combattuto una guerra e aiutato papà a sconfiggere il male incarnato, io morirò cadendo da una sedia e tu non potrai farci nulla.

«Dove sono i tuoi fratelli?»

«In soggiorno. O almeno, c’erano prima». Fece una smorfia. «Posso prepararmi un sandwich e mangiare fuori? Vorrei parlare con papà».

Gli occhi di sua madre si assottigliarono. «Lily Luna, oggi è domenica. Si pranza in famiglia e questo è quanto» sentenziò Ginny.

Lily non si arrese. «Anche papà è famiglia» obiettò, «e il fatto che sia in appostamento non gli vieta di prendersi un’ora di pausa per stare con sua figlia. E poi devo chiedergli una cosa».

Sua madre le riservò un’occhiata truce. «E, sentiamo, signorina, cosa dovresti chiedere a tuo padre che non puoi domandare a me?».

Lily si affrettò a troncare sul nascere quell’obiezione. Sua madre poteva essere molto pericolosa, in certi casi. «Niente, mamma, è… »

«La cocca di papà ha bisogno di essere consolata». James, in piedi sulla porta della cucina, la irrideva, le labbra atteggiate a una smorfia sfacciata.

«Piantala, Jamie» protestò Lily.

«James Sirius Potter». Ginny guardò il figlio con riprovazione. Aveva aggiunto anche il cognome: questo, Lily ne era consapevole, preludeva a una sfuriata con i fiocchi.

«La smetto, la smetto» Jamie si arrese immediatamente, sollevando entrambe le mani come se avesse avuto una bacchetta puntata contro. «Vado a… » Meditò, in cerca di un’ispirazione. «Ad apparecchiare?»

«Sarà meglio» osservò Ginny. «Fatti aiutare da tuo fratello».

Il ragazzo sbuffò. «Protesterà per il fatto che non abbiamo Elfi Domestici un’altra volta. No, grazie, preferisco fare da solo».

«Noi non abbiamo mai avuto un Elfo Domestico, a casa, e ce la siamo sempre cavata» lo liquidò Ginevra. «Di’ a tuo fratello di muoversi e di togliersi dalla testa queste idee così blasé».

Lily si accasciò sulla poltrona. Le discussioni in quella famiglia erano così estenuanti che certe volte le veniva voglia di urlare. Strinse le palpebre e udì Jamie ridacchiare.

«L’umido dei Sotterranei gli da alla testa. Riferirò».

«Torniamo a noi, Lily». Sua madre si appoggiò allo schienale. «Cos’è che devi chiedere a tuo padre?»

Lei riaprì gli occhi. «Prima ha chiamato la prozia Petunia. Voleva sapere se sarei andata alla festa di Meg».

«E con questo?»

Arricciò il naso. Certe volte sua madre era tutto tranne che un’aquila, il che a ben pensarci era perfettamente logico. Di tutti, in famiglia, l’unica a potersi fregiare del vessillo dell’aquila era lei, da quando era stata smistata a Ravenclaw.

«Sembrava strana» buttò lì. «Volevo sapere se papà aveva qualche idea del perché».

Seguì una pausa. Sua madre, la fronte corrugata e gli occhi socchiusi, circondati da piccole rughe di espressione, sembrò studiarla, mettendo un broncio molto simile a quello che veniva a lei, quando si applicava a una materia particolarmente complessa.

«Certe volte proprio non so da chi tu abbia preso» sospirò alla fine. «D’accordo. Va’ a vestirti. Il tuo sandwich sarà pronto tra quindici minuti. Manda un gufo a tuo padre per avvisarlo. Torni a casa, dopo pranzo?»

Lily rifletté. Aveva pensato di andare direttamente alla festa; lo disse a sua madre, che annuì.

«Non cacciarti nei guai, non usare la magia…»

«Non parlare con gli sconosciuti e non menzionare niente che riguardi la scuola, il tuo lavoro o quello di papà. Sì, mamma, lo so a memoria» protestò, balzando giù dalla poltrona. Era senza pantofole. Le sarebbe toccata una lavata di capo anche per quello.

«E non andare in giro scalza!»

Appunto.


***


«Non mi piace quando stai fuori così a lungo».

Lucas, sulla soglia di casa, tese una mano a sua madre. Di fianco a lui, suo padre allargò le braccia, così che lei potesse rifugiarvisi: severa, Hermione li contemplò entrambi, prima che suo marito le passasse un braccio attorno alla vita.

«I miei uomini girovaghi». Gli strinse la mano. «Mi siete mancati. Entrambi».

Draco le sussurrò qualcosa all’orecchio, passandole una mano tra i capelli. Da quando lo avevano assegnato alla divisione internazionale, rimaneva lontano da casa per mesi. Quella volta era passato in Irlanda, dove Lucas stava lavorando in trasferta con una squadra del Ministero, e avevano fatto assieme la strada verso casa.

«Entriamo» disse Hermione. «Lyra è a pranzo dai tuoi. Se avessi saputo che sareste arrivati le avrei detto di rimanere a casa».

«Mi negano persino il piacere della sorpresa, adesso» scherzò Draco.

Lucas scosse la testa. «Non sia mai».

Entrambi seguirono Hermione attraverso l’atrio, fino in soggiorno, una sala ampia e illuminata con grandi finestre all’inglese aperte su un prato che sconfinava con l’infinito della brughiera. Da bambini, sia Lucas che sua sorella si erano appostati spesso al di qua dei vetri, nelle lunghe giornate di nebbia, immaginando storie e mondi avvolti nella bruma.

Suo padre sedette sul divano. Aveva l’aria stanca, pensò Lucas, e la barba incolta, da sempre di due toni più scura rispetto ai capelli, cominciava a mostrare tracce di bianco lungo la mandibola affilata; la bocca, comunque, era una linea ferma e, in quel momento, atteggiata a sincero divertimento. Era ancora il suo papà, grande e forte, e per sua madre doveva essere l’uomo più bello del mondo.

«Sarà meglio che prepari qualcosa» la udì mormorare. «Non mi aspettavo di dover nutrire qualcuno».

Draco le passò un braccio attorno al corpo e la strinse contro di sé. «Non ho fame».

«Tu no, ma forse tuo figlio sì» lo rimbrottò lei, ma rideva. «Posso fare in un attimo e tornare subito. Non dobbiamo neppure apparecchiare, possiamo mangiare qui».

«Come ventenni perdigiorno?» Il sopracciglio di suo padre scattò verso l’alto; Lucas scorse nei suoi occhi una scintilla di allegria: era la faccia feroce di papà, quella, un gioco tra i tanti che gli ricordava la sua infanzia.

Bentornato a casa.

Mancava solo Lyra, a completare l’equazione che traduceva in pratica l’equilibrio della loro famiglia; Lucas occhieggiò la foto di gruppo sul tavolo, che li ritraeva tutti e quattro insieme il primo giorno di scuola della sorella: lei, nella foto una ragazzina undicenne dal volto solenne ombreggiato da un ciuffo di capelli mossi, così scuri da sembrare neri, ora aveva sedici anni, quattro e mezzo meno di lui, che andava per i ventuno.

«L’idea era quella». Hermione gratificò suo marito con uno sguardo caldo e, sempre tenendogli la mano, si alzò dal sofà. «Possiamo fare i ventenni per un giorno?»

Draco le sfiorò le nocche con le labbra. «Con te, mia signora, posso fare di tutto».

«Oh, ma piantala» si lamentò lei; si vedeva ch’era felice. «Sarebbe terribilmente poco dignitoso, se io mi limitassi a scongelare delle fish&chips

«Mi sembra sufficientemente veloce» approvò Draco, rivolgendo al figlio uno sguardo interrogativo. Lucas scrollò le spalle; non era mai stato schizzinoso in fatto di cibo, neppure da piccolo. Aveva apprezzato le cucine di Hogwarts, ai tempi della scuola, ma non gli mancavano. E sua madre non era esattamente una casalinga esemplare; questo non gli era mai importato, così come non importava a suo padre o a sua sorella. Le madri dei suoi amici cucinavano, la sua aveva salvato il mondo e passava il tempo tra il Dipartimento Auror e le pratiche che si portava a casa. Era precisa e aveva un’autentica venerazione per l’ordine, ma di rado trafficava ai fornelli, anche se era piuttosto brava, quando ci s’impegnava.

«Vuoi una mano?» le domandò.

Hermione scosse la testa. «Riposatevi, voi due».

Lasciò il soggiorno, rivolgendo loro un sorriso affettuoso da sopra la spalla. Era diversa, quando c’era suo padre, sembrava più leggera. Draco stesso lo era; una volta Lucas gli aveva sentito dire che sua moglie sapeva tirare fuori il meglio di lui. A mostrare il peggio, asseriva, se la cavava benissimo da solo.

«Quando riparti?» gli chiese.

Lui esibì una smorfia tirata ed estrasse il portasigarette dal taschino. «Potrei rimanere per un po’» sentenziò, godendosi la prima boccata. «C’è qualcosa di sinistro in arrivo».

Lucas annuì. «Così si dice. Non è esattamente il momento migliore per riunire tanti maghi in un unico posto».

Suo padre gli tese la scatoletta d’argento; Lucas l’afferrò, ne trasse una sigaretta, lo richiuse e restò a guardarlo per qualche secondo: sul coperchio, un fine cesellatore aveva tracciato in linee armoniose lo stemma di famiglia. Sotto, vicino alla chiusura a scatto, c’era una scritta molto piccola, che lui non era mai riuscito a leggere. Si accese la sigaretta a sua volta e aspirò. Draco, la fronte corrugata e gli occhi socchiusi, scosse la testa.

«Non darti troppi pensieri, comunque» mormorò, soffiando fuori il fumo. «Non è mai il momento giusto, ma in qualche modo la nostra gente se la cava sempre».

Lucas fece un cenno in direzione della porta. «Credi che lei lo sappia?» Alludeva a sua madre.

«Oh, sì». Suo padre rise. «C’è poco, credimi, che le si possa tenere nascosto».

«Mi chiedo come facciate. Riuscire a gestire tutto questo… Quello che non puoi dirle, quello che lei non può raccontare a te». Reclinò il capo all’indietro, sospirando. «Non è folle?»

Draco parve rifletterci su; seguiva, con gli occhi, gli arabeschi del fumo sul soffitto. «Sai, » ribatté dopo un po’, «s’impara a parlare anche senza farlo, dopo un po’. Con i gesti, con gli occhi. S’impara anche a rispettare i silenzi. è così che va. Io e tua madre abbiamo dovuto capirci prima a questo modo» aggiunse, e un ricordo balenò nei suoi occhi d’acciaio, «per cui, forse, per noi è stato più facile che per gli altri».

«Sembra logico».

Draco annuì. «Lo è. Non arrovellartici troppo». Spense la sigaretta nel posacenere e aggiunse: «Vado a vedere come se la sta cavando».

«Ti manca, vero? Quando sei lontano».

Suo padre scrollò le spalle. «Continuamente».

Lucas lo guardò andare verso la porta, la camminata disinvolta, i capelli che gli sfioravano il colletto della camicia. Qualche istante dopo, sentì sua madre ridere. Così erano loro, si divertivano assieme come due ragazzini, misteriosi nel loro legame come sanno esserlo solo due complici; la sua infanzia con loro era stata un susseguirsi di domeniche assolate nel prato, corse sulla scopa, storie della buonanotte. Quando era arrivata Lyra, lui non era stato geloso: l’aveva sentita come la percepivano i suoi genitori. Il pezzo mancante. Assieme, avevano giocato nella brughiera, saltando nelle pozzanghere; avevano riso, certe volte, così tanto da farsi venire il mal di pancia. Si erano stretti tra loro nelle notti che sembravano non finire mai, Lyra, la loro madre e lui, quando Draco era lontano, quando pareva non sarebbe tornato più. Il centro pulsante della loro famiglia, come ogni cuore, aveva due lati: uno chiaro - le risate, i giochi e quella volta che avevano dipinto la faccia della mamma e le sue mani con i colori che brillavano al buio e avevano giocato ai fantasmi. Papà che gli insegnava come stare sulla scopa e gli faceva fare il giro della morte quando nessuno guardava; l’altro, più intimo, era fatto di cose non dette: la cicatrice sul braccio di Draco, quella sul polso di Hermione, le lacrime asciugate contro i loro vestiti, certe confessioni e certi peccati, persino un certo tipo di felicità ineffabile, l’equilibrio perfetto di elementi altrimenti instabili che si nascondevano nei suoi lineamenti e in quelli di sua sorella.


***


Diagon Alley, oziosa e pigra all’ora di pranzo, con i suoi tavolini dipinti di bianco nei déhors dei locali più recenti e i suoi sgabelli scalcagnati impilati fuori dalle taverne, era una delizia per gli occhi. Lily sedette su una panchina dallo schienale decorato, i cui ricami in ferro battuto si intrecciavano costantemente tra loro in volute complesse, per poi sciogliersi e comporre un nuovo disegno. Li contemplò per qualche istante, deliziata, e poi scartò il suo sandwich.

Uova e insalata. Sospirò: poteva andare peggio.

Suo padre, comunque non avrebbe tardato ad arrivare; probabilmente avrebbe insistito per offrirle il pranzo da qualche parte. James non aveva torto, certe volte, quando la definiva la prediletta; come Harry Potter posava gli occhi sulla minore dei suoi figli, questi s’illuminavano.

«Lils, ehi. Ho fatto più in fretta possibile».

La ragazza distolse lo sguardo dal pranzo e sorrise. «Ciao, papà».

Suo padre sedette con lei, giacca nera, divisa d’ordinanza, un grosso sorriso preoccupato sul viso. «Che succede, Lils? Qualcosa non va? Ti senti male o… »

«Sto bene» lo frenò, sollevando una mano. «Papà, calmati».

Lo udì sospirare. «Mi sei sembrata ansiosa, nel biglietto».

Lily corrugò la fronte; probabilmente era così. Aveva scritto di fretta, senza ponderare le parole, eppure conosceva suo padre abbastanza bene da non ignorarne la tendenza all’allarmismo. Si tormentò l’angolo del labbro con i denti, interdetta su come introdurre il discorso, e fece una smorfia. «Va tutto bene, sul serio» lo tranquillizzò. Poi, per prendere tempo, diede un morso al panino.

«Sarà meglio che mi procuri anch’io qualcosa per pranzo» borbottò Harry. «Avremmo potuto mangiare al ristorante, sai».

«Oh, so quanto odi la gente che ti fissa» tagliò corto Lily.

«Oramai sono abituato» dissimulò suo padre, passandosi una mano sulla nuca.

Lei gli lanciò un’occhiata carica d’affetto. «Non fa niente. Uova e insalata è una pacchia, davvero. Poteva essere carne in scatola». Storse il naso, facendolo scoppiare a ridere.

«Non ha voluto tagliare l’arrosto, eh?»

Lily nicchiò. «Non le piaceva l’idea che uscissi per pranzo. Sai come la pensa sulle domeniche in famiglia».

Suo padre annuì, comprensivo. «Immagino che, err, tu avessi un buon motivo per farla arrabbiare».

«Ha chiamato zia Petunia» annunciò lei, aggredendo nuovamente il suo sandwich.

Suo padre esibì un’espressione perplessa. «Che giorno è, oggi?»

Lily fece una risatina. «Uno qualunque. Cioè, è il compleanno di Maggie e lei ha telefonato per sapere se sarei andata alla festa».

«Ah». Harry posò i gomiti sulle ginocchia e restò immobile per un po’ a fissare la vetrina del negozio di fronte, che esibiva simpatiche decorazioni per la cucina. A quanto pareva, se fissate sopra il piano di cottura nel modo giusto, si allungavano e spegnevano il fuoco quando il cibo era cotto. Lily prese nota di raccontarlo a sua madre: sapere che l’aveva pensata le avrebbe fatto passare il cattivo umore.

«Non credo lo abbia mai fatto prima, vero?»

«No» confermò lei.

«È strano» ammise suo padre. «Magari non preoccupante» rifletté, passandosi le dita tra i folti capelli brizzolati, «ma di certo strano».

Lily appallottolò nella mano il cartoccio del sandwich. «Pensi che sia successo qualcosa? Cercava te, all’inizio. Così ha detto» concluse, a disagio. Aveva un’idea molto vaga dei trascorsi tra suo padre e i suoi parenti: quando l’argomento veniva a galla, era inevitabilmente fonte di tensione.

«Non lo so, Lils». Lo vide corrucciarsi e piegare il collo di lato, un cenno senza dubbio d’insofferenza. «Dovrò prendermi la giornata libera e venire con te».

Lei gemette. «Non è necessario. Posso sentire io cos’ha da dire e riferirtelo».

«No» si oppose lui. «Potrebbe essere importante».

«O potrebbe essere una sciocchezza. Per favore, papà» implorò. «Se ci fosse Jamie al mio posto, manderesti lui». Era scorretto usare quella carta e lei lo sapeva: James non si sarebbe mai trovato in quella situazione, perché non aveva mai legato con i Dursley; men che meno Al, che, somigliante com’era al padre, aveva faticato ad accettare e farsi accettare in quell’angolo di mondo senza magia.

Suo padre si strofinò la fronte. «Ma se non vuoi che venga con te, perché hai voluto vedermi?»

«Pensavo dovessi saperlo» mormorò lei, cercando di suonare innocente. «E credevo sapessi di cosa voleva parlarti».

«No». Harry distolse lo sguardo dal suo, non prima che lei potesse indovinarvi una scintilla di omissione, e si schiarì la gola. «D’accordo, pensaci tu. Ma non fare nulla di azzardato» raccomandò.

«Sì, papà».


***


Il divano preferito di Melinda Dursley era color porpora; Lily lo sapeva perché nessuno l’aveva mai fatta sedere lì, quando era ospite a casa sua. Tutti le dicevano “prendi una sedia” o “accomodati sulla panca” ma mai l’avevano condotta al sofà. Per cui, quando, non appena varcata la soglia, si era vista prendere la mano dalla prozia Petunia, che l’aveva trascinata in soggiorno e messa a sedere tra i morbidi cuscini imbottiti, aveva pensato a qualcosa di molto serio.

«Vuoi del tè, cara?»

Cara? Lily sbatté le palpebre, interdetta. «No, grazie, ho pranzato da poco. Temo di essere in anticipo comunque» osservò, contemplando dalla finestra il giardino deserto.

«Oh, non preoccuparti». La prozia Petunia le dedicò un sorriso nervoso; teneva il pugno stretto sotto il mento. «è un bene che tu sia qui. Dudley e io dobbiamo parlarti».

Il tono della donna non le piacque; presagiva urla e scenate. Del resto, all’inizio lei aveva espresso delle riserve sulla sua frequentazione con Meg, paventando un’influenza negativa che Lily avrebbe avuto sulla cugina, a lungo andare. Ciò non di meno, il tempo aveva appianato le divergenze e di certo il fatto che Petunia e suo marito abitassero a Little Whinging, a una certa distanza da Tolworth, aveva contribuito a far sì che lei potesse frequentare quella casa senza mai sentirsi un’intrusa.

Fino a quel momento, per lo meno.

Il cugino Dudley entrò nella stanza. «Sei arrivata» biascicò, spalancando i piccoli occhi azzurri. «Meno male». Si accomodò di fronte a lei e sua madre fece lo stesso.

Lily deglutì, sentendosi catapultata di nuovo di fronte alla commissione d’esame per i G.U.F.O. Un rivolo di sudore le percorse la schiena.

«Sei sicura di non volere del tè? Un succo di frutta?» La mano di Petunia tremava.

«Un succo andrà bene» acconsentì lei. Sul volto della donna apparve un tremulo sorriso.

«Ci penso io, ecco». Lasciò rapidamente il soggiorno e Lily intuì che aveva voluto lasciarla sola con il figlio. Anche questo era piuttosto insolito, ragionò: di norma, Petunia si comportava con Dudley come una gatta con i suoi cuccioli: gli stava sempre intorno, anche a costo di impedire agli altri di intrattenere una conversazione con lui.

«Allora» esordì, incrociando le gambe, «come sta Meg? Non l’ho ancora vista».

Dudley tossì. «Oh, lei è di sopra. Scenderà appena avrà scelto il vestito da indossare. è indecisa tra il rosso papavero e il rosso fragola, anche se io non capisco la differenza». Incassò la testa nelle spalle, ricordando molto suo padre. Vernon Dursley era il membro della famiglia più ostile che Lily avesse conosciuto: la trattava con apatica indifferenza, quand’era costretto a relazionarsi con lei, e la ignorava come se lei non esistesse per il resto del tempo.

«Ecco il tuo succo. Mela». Petunia le porse un bicchiere, colmo fino all’orlo di un liquido color giallo pallido. «È il tuo preferito, no?»

Lily annuì, lanciando alla donna l’ennesimo sguardo stupito. «Grazie» quasi balbettò. Non era abituata a tutta quella deferenza; bevve un sorso di succo. «È buono» disse.

«Posalo pure sul tavolo, da’ qua». Zia Petunia si sporse e urtò con il ginocchio il giornale che stava sul bordo del ripiano. Il quotidiano - il London Herald, probabilmente - scivolò per terra con un fruscio e trascinò con sé alcune lettere apparentemente ancora chiuse. Lily si accigliò: erano buste larghe, di carta pesante e lievemente ingiallita.

«Biglietti d’auguri per Maggie?» chiese, sicura di aver già visto qualcosa del genere.

«Più o meno. Sono arrivate stamattina» ribatté Dudley, cupo.

«Scommetto che sarà felicissima, quando le aprirà».

Petunia si schiarì la voce. «A proposito di questo… »

«Sì?»

Dudley sbuffò. «Oggi è domenica, capisci? Non c’è posta la domenica».

«Ma sì che c’è» protestò lei, senza capire dove volessero andare a parare, «Jamie ha ricevuto le sue lettere stamattina e il gufo era…» Inghiottì le parole, sentendo il sangue defluirle dalle guance: Petunia e Dudley la fissavano con gli occhi strabuzzati. Boccheggiò, alla ricerca di qualche parola di scusa, il capo chino e lo sguardo puntato a terra, proprio sulle buste, quelle buste gialle e spesse, così insolite in una casa di Babbani.

«Oh» le sfuggì. Si chinò ad afferrarne una: l’inchiostro con cui era stato vergato l’indirizzo era di un blu sbiadito e la scrittura era chiaramente amanuense; il nome di sua cugina, scritto in quelle lettere piene di riccioli, sembrava diverso. Lily scoppiò a ridere, rigirando la busta sottosopra. C’era il sigillo di Hogwarts: il Leone, la Serpe, l’ Aquila e il Tasso, circoscritti da una grande H. «è per questo… ?»

«Già» confermò Petunia.

«Capisco».

«Noi, io e Melinda… » Dudley si arrestò, il volto arricciato in una smorfia eloquente. «Ecco, abbiamo pensato che forse tu…»

Lily attese, composta, il bicchiere tra le dita. Dovette fare uno sforzo ingente per non ridere: l’espressione sofferente del cugino denunciava una certa impreparazione. Nessuno di loro aveva mai ponderato l’idea che Maggie potesse essere una strega. Eppure, non era certo così insolito: condividevano una parte di DNA e il sangue che scorreva loro nelle vene non era del tutto differente.

«Se qualcuno mi avesse interpellata» intervenne Petunia, «avrei detto che tutto ciò è assolutamente assurdo». Ebbe la buona grazia di arrossire, all’occhiata sgomenta di Lily. «Ma d’altra parte, Maggie non è figlia mia, per cui, cara, quello che Dudley vorrebbe chiederti è se saresti disposta a farle da guida, con… » Storse le labbra in una smorfia di disgusto. «I libri per la scuola e tutte le altre cose» concluse.

«Dovresti anche aiutarci a dirglielo… Vedere che ne pensa» Dudley s’illuminò. «Potrebbe anche non voler avere niente a che fare con la cosa».

Lily ne dubitava, ma acconsentì con un cenno. «Le parlerò».

Dudley la gratificò di un sorriso sin troppo entusiasta e annuì. «Vado a chiamarla» borbottò, lasciando il soggiorno.

«Potresti fare in modo che stia in camera con te?» chiese Petunia, stridula. «Non è mai andata da nessuna parte da sola… »

«Questo non posso prometterlo» sospirò lei. «è il Cappello Parlante che smista gli studenti».

Petunia inorridì. «Un cappello?» Si passò le lunghe dita ossute sul volto. «Oh, credo che mia sorella ne avesse parlato in una delle sue lettere». Aveva le labbra strette, come se non una parola dovesse fuoriuscirne, neppure per sbaglio; osservò Lily con biasimo. «Tu le somigli così tanto…»

«Ah sì?» ribatté lei. Si accorse di aver usato un tono polemico e restò in attesa della reprimenda, che non arrivò.

«Sì» rispose Petunia, asciutta. «Parla con Maggie. Io devo occuparmi della torta».




And, here we are.
Note, che ci stanno sempre bene:
Questa storia è un sequel. Se non avete letto i prequel, non prendetevela con me. Come il suo prequel principale, trae il titolo da un volume di Dylan Dog, precisamente il numero 238 (Masiero/Montanari e Grassani)
I personaggi non della Rowling li ho inventati io. Se li prendete, abbiate almeno la decenza di dire grazie. Questo include Lucas Altair Malfoy, Lyra Joanne Narcissa Malfoy, Margaret Dianna Dursley, la fam. Dawson jr. e sr., Cassandra Charlotte Virginie Jones, Wendy Curran, Michael Demetrius Rowland, Devonne Alexandra Lucille Pierce e tutti gli altri.
Vediamo come va, ora che ho deciso di imbarcarmi in questa cosa assolutamente folle.
Vi prego, fatemi sapere com'è. Mi sta friggendo il sedere.
Find me here for news.

   
 
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