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Autore: Aleena    02/12/2015    1 recensioni
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[Urban & contemporary fantasy][Potrebbe subire modifiche di rating/avvertimenti][Linguaggio forte]
Genere: Angst, Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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In the shape of things to come
Too much poison come undone
'Cause there's nothing else to do1




Capitolo IV
La spia
 
 
 



  C’era una vena elettrica in quel suo nuovo sogno.
Avvolto dalle spire di un mostro ronzante, il ragazzo viaggiava ad una velocità che nessuna macchina sportiva avrebbe mai potuto eguagliare. Accanto a lui un cielo blu coperto di stelle immobili, infinito. Uriel osservava in silenzio, gli occhi talmente spalancati da bruciare, incapace di staccarsi da quello spettacolo immenso e sconvolgente.
Le onde sonore scivolavano sulla sua pelle in correnti feroci che aprivano larghe ferite nere. Poteva vederle graffiare l’aria stessa, con una violenza tale da lacerare il tessuto del cielo. Ampie voragini si aprirono improvvisamente attorno a lui, i lembi sfilacciati al margine della ferita che si agitavano a quel vento elettrico, facendo danzare intere costellazioni come fossero lucciole impazzite.
Il turbine elettrico aumentò il suo ronzio, curvandosi per spalancare quelle aperture – e improvvisamente i riflessi di infiniti panorami brillarono dietro quella tela scura, come quadri nascosti. Persone, città, prati immersi nella luce del sole o stanze avvolte dall’oscurità.
Uriel si mosse, affascinato, galleggiando in quel cielo come un pesce; nuotò accanto alla corrente elettrica, a un passo dalla sua distruttiva forza, e allungò una mano per toccare quella ferita, affascinato.
“È quella sbagliata.” disse una voce alle sue spalle. Uriel chiuse gli occhi e spinse avanti la faccia, annusando un vuoto che sapeva di pane appena fatto – poi si sentì tirare indietro, trascinato da un filo che premeva contro l’ombelico fino a un altro strappo, lontano anni luce. “È da qui che sei nato.”.
Uriel si voltò e solo allora riconobbe nella voce i toni di una donna. Lei, la ragazza che aveva parlato, era giovane e triste. Aveva corti capelli di un rosso artificiale e violento, che si allungavano nell’aria come scie di sangue, coagulato alla radice.
Avrebbe voluto chiederle come faceva a parlare ma lei non glielo consentì. Strattonando il filo invisibile che gli teneva serrato l’addome, la donna lo costrinse a girarsi verso la ferita nello spazio, oltre la quale una macchina nera era parcheggiata di sbieco su una piazzola di sosta innevata. Due uomini pisciavano al lato della strada, dandogli le spalle. Parlottavano in tono complice, lanciando occhiate ai tre ancora in macchina.
“È ora di tornare?” chiese lei, divertita.
“Tu sei già lì.” Le fece notare Uriel, indicandola.
La ragazza seguì con lo sguardo la sua mano, attirata come un gatto da un puntatore. Poi gridò, un suono feroce come quello che aveva lacerato lo spazio, e Uriel sentì le lame del suo orrore trapassargli la carne ancora e ancora, in un supplizio gelido che non voleva avere più fine...

«Il nano vuole morirmi in macchina!» Rybakov si sporgeva dal finestrino del passeggero, pressando la ragazza muta senza curarsene troppo. Ivan si girò a lanciargli un’occhiata ma Anton lo ignorò, continuando a osservare intorno con calma. Alberi spogli e neve sporca accolsero il suo sguardo, restituendogli una sensazione di disgusto. Altrove, in un’altra vita, quello sarebbe stato un presagio e decine di uomini si sarebbero interrogati sulla sua influenza; ora, in questo tempo degenerato, gli era stato dato solo un ragazzino che era in grado di fornire unicamente risposte a metà.
Anton aveva sempre odiato gli oracoli. Se eri abbastanza fortunato da inciampare in uno che avesse veramente il dono, la maggior parte delle volte ti ritrovavi con un catorcio dal cervello ormai andato, capace solo di mettere due parole in fila – spesso neanche correlate. Una volta aveva avuto a che fare con una donna che sapeva di possedere il dono ed era abbastanza intelligente da sfruttarlo: aveva servito la causa per anni, chiedendo sempre di più in cambio della sua consulenza, finché qualcuno ai piani alti non si era stancato. Anton poteva ancora sentirla agitarsi, là in fondo, ma era solo un ricordo sbiadito ora, fastidiosa e impotente.
Come tutti.
«Devi dargli un’occhiata.» La voce di Ivan era fredda e distaccata – un campanello d’allarme. Dalla mano del militare, stretta sulla sua spalla, si irradiava un bruciore intenso; Anton lo seguì a ritroso, scivolando sulla pelle di Ivan e poi nell’aria fredda, fino alla macchina scura. Sedili in tessuto grigio lucido e odore di fumo, il suo... E poi le grida, basse e trattenute, che rimbalzavano lungo le arterie del ragazzino e fino al cuore, sovreccitato ma ancora vitale.
«È solo un incubo.» sentenziò Anton con una scrollata di spalle che fece ritratte Ivan in fretta, interrompendo la sua lettura.
Anton lo lasciò andare, cercando di riprendere le fila di un ricordo amaro che, dovette constatare con fastidio, era svanito. Tentare di rintracciarlo fra le miriadi di pensieri che urlavano per la sua attenzione richiese meno di un secondo – un tempo troppo lungo. Rybakov se ne accorse e il fantasma del suo sorriso irridente lo seguì, gelido, anche dopo che la piazzola di sosta fu a diversi chilometri alle loro spalle.
Uriel si svegliò un’ora dopo, riemergendo dal sogno con un rantolo sordo. Annaspò in cerca di aria mentre le dita affondavano nella gola e nelle braccia, come se cercasse di cacciare via qualcosa dalle vene. Non dovette trovarlo, perché si arrese con uno sbuffo impotente.
«Chi è?» domandò piano Anton al ragazzo, senza nemmeno girarsi. Uriel chiuse gli occhi e trattene un conato, respirando faticosamente. Anton allungò una mano verso l’avambraccio del giovane e piantò le dita pallide nella pelle, affondandovi le unghie. Uriel si lasciò cadere di peso sul sedile e gettò indietro la testa, ma non parlò.
«Possiamo saperlo anche noi o hai bisogno di un altro minuto a tu per tu con le tue seghe mentali, Andreevič?» gridò oltre la musica Rybakov, accelerando di un’altra decina di chilometri orari. Anton lo guardò, lasciando andare bruscamente la mano di Uriel.
«Non mostrarti troppo interessato, amico mio. Alle donne non piace» commentò Anton con un sorriso laido mentre estraeva dalla tasca la confezione di plastica di un fazzoletto disinfettante. Prese a strofinarsi distrattamente la mano con cui aveva toccato Uriel, senza staccare gli occhi dal guidatore.
«Non è molto credibile, detto da uno che deve drogarle per farsel.» disse Rybakov, allungando una mano alla coscia della darkettona. «Facciamo come all’asilo, mh? Dovrebbe suonarti familiare. O condividi o giochi da solo. Quindi, se non vuoi raccogliere i tuoi dall’asfalto con un cucchiaino, ti suggerisco di metterci al corrente.»
«È una messaggera, va bene? Una cazzo di messaggera del cazzo, ok? Ora rallenta, stramaledetto russo» gridò Uriel. Tremava ancora, violentemente, e quando si allungò per strappare il fazzolettino umido ad Anton quasi gli affondò le dita nella gola, tanto era disorientato.
«Ecco, così mi piace. Vedi? Anche il bimbo ha capito come funziona.» Kas’yan abbassò la musica di una o due tacche, lasciandola comunque assordante. «Allora, Lepont, come pensi che dovremmo fare a capire quello che dice?» domandò al ragazzino, che si passava la salvietta sulla fronte con forza, lasciando una scia sempre più rossa sulla pelle.
Per tutta risposta, Anton socchiuse gli occhi e si passò un dito sulle labbra, lentamente, disegnandone il contorno con meticolosità prima di allungare quella stessa mano verso la ragazza. Kas’yan sterzò violentemente, mancando di poco una Peugeot stracarica di marmocchi che viaggiava in prima corsia. Finì nella carreggiata di emergenza con uno stridore di freni che somigliava troppo al lamento di un demone per essere un buon segno, ma sembrò non farci caso.
«Ah, ti piacerebbe, vero, Andreevič?» sibilò l’autista, estraendo di nuovo il coltello. «Col cazzo che te lo faccio fare! Non me ne frega un cazzo degli ordini o della...»
«Se il tuo cervello retto e limitato è in grado di fornire una soluzione migliore, prego.»
«Il nano. Che ce lo stiamo portando dietro a fare, altrimenti? Per il piacere della sua lucida compagnia?»
«Chi comanda, Rybakov?»
«È una tregua, albino del cazzo. Una stramaledetta tregua, e vedi di mettertelo in testa! Finché ci sarò io, non te lo permetterò. Né con lei, né con nessun altro, per gli Dei! E poi è stata data a me. Lei mi appartiene.»
«Allora insegnale a parlare prima che decida che è arrivato il momento di fare a modo mio. E comunque, la mia era una domanda, non una provocazione. Ti ricordi ancora qual’é la differenza, vero? Bisogna avere ben chiara una gerarchia se non vogliamo finire come nel tuo Ordine. Chi comanda, qui? E dove andiamo?» domandò Anton, abbassando la voce. Cominciava ad averne abbastanza e Rybakov doveva essersene accorto, ma al momento gliene importava poco. Mancavano ancora più di cinque ore al tramonto, e fino ad allora poteva fare ben poco.
Kas’yan aveva preso ad armeggiare col computer di bordo. Usò due dita per ingrandire la mappa e lesse, ad alta voce: «55.793455 e 37.149219.»
«Ora si che è chiaro» commentò Ivan, abbassandosi gli occhiali per lanciare uno sguardo al navigatore. «E cosa c’é di così importante li?»
«Neve dura e terra fredda, immagino. Forse qualche lupo.»
«Vediamo di farla facile, Rybakov: che ordini hai?» disse Anton, in un sussurro gelido. E che quel maledetto ridesse pure: era il suo tempo quello che era agli sgoccioli! Che se lo godesse.
«Di portarvi a fare una gita.»
Anton si slacciò le cinte e si allungò verso la parte anteriore della macchina in un movimento fluido e rapido. Con due dita restrinse la visuale della mappa nel navigatore e si spostò fino a Mosca e ritorno, osservando. Gelido silenzio riempì l’abitacolo per lunghi minuti mentre studiava la mappa, stringendo le labbra.
«Quasi quattro ore per arrivare da Mosca a un campo che una vecchia Volga raggiungerebbe in quarantacinque minuti?» domandò a Kas'yan, glaciale.
«Beccato» rispose il guidatore, sollevando le mani. Il coltello brillò per un secondo del riflesso solare, sostituendo la faccia di Kas'yan con una lama di calda luce. Anton strizzò gli occhi e l’aria dell’abitacolo si fece più fredda. «Ora non farne un dramma, però.» Rybakov riaccese il motore e sterzò violentemente, catapultando nuovamente la macchina sulla strada. «Gli ordini erano di prendere lei, voi e di portarvi qui.» Con la mano che stringeva il coltello, il rosso picchiò le nocche delicatamente sul display del navigatore. «Di notte.»
«Neanche i tuoi si fidano più di te... mh? O, a forza di ammazzare mafiosi su commissione, hai perso il tocco?» chiese Anton in un soffio gelido.
«Qui la carne da cannone sei tu, non io. E io che pensavo ci arrivassi anche da solo! Io non sono mai stato sacrificabile.» Kas'yan scrollò le spalle e allungò il collo a un cartello segnaletico, studiandolo. Nonostante la calma, Anton poteva sentire il sangue pulsare appena più veloce lungo le arterie del collo, evidenziandole. Si avvicinò di più all’altro e gli sussurrò all’orecchio, bene attento che il soffio del suo fiato sfiorasse una buona parte del suo viso:
«Tu non servi a niente, Rybakov. Per questo c’é la tregua. Dimmi, quante volte ancora puoi fallire?»
«Tu quanti ragazzini puoi ancora farti prima di finire male?» domandò con disprezzo Kas’yan, imboccando l’uscita a centoventi chilometri orari.
«Ti ha punto sul vivo, Rybakov?» ridacchiò Ivan, replicando per un lungo istante l’espressione ferina di Anton.
«E a te fa più male il culo o la testa, Vasilijev? Perché non capisco più con quale il tuo padrone ti fa ragionare.»
Ivan non si scompose. Allungò una mano verso Anton, che lo seguì quasi senza accorgersi di cosa facesse. Forse stava davvero invecchiando, meditò.
«Potevamo partire più tardi, no? Se dovevamo arrivare di notte...» bofonchiò Uriel, con la bocca impastata e la voce roca.
«Mai visto uno che rimpiangesse le galere di Andreevič.»
Uriel sussurrò qualcosa che suonava come “roba a casa” e poi lasciò stare. Anton lo registrò appena.
«Rispondi alla domanda» ordinò.
«Cosa non hai capito di “quel tono di merda devi togliertelo?”»
«Se non stai attento, prima o poi ti strapperò l’anima e l’aggiungerò alla mia collezione, Rybakov.»
«Piano con le lusinghe, tesoro, o il tuo cagnolino si ingelosisce.» Kas'yan aveva recuperato un po' del suo buonumore, ora. «Siamo partiti prima perché hai una talpa, Andreevič. Una bella spia, proprio sotto il tuo onnisciente nasino. Che soddisfazione! O vi portavo via stamane, o la mia missione sarebbe diventata quella di scortare i vostri resti alla più vicina fossa comune. Non che l’idea non mi tentasse, eh!»
Anton non rispose. Percepiva la tensione di Ivan, al suo fianco, ma non poteva allontanarsi abbastanza da escluderlo... né avrebbe ottenuto altre pause. E comunque ormai erano in viaggio, mascherati agli occhi dei più dalla forza residua di Rybakov. Avrebbe dovuto smettere di tentarlo, almeno per ora...
La strada correva fuori dal finestrino, alternando vie sempre più scure a cittadine mezze morte e campi bianchi come lastre tombali.
Poi fu il tramonto, e la macchina rallentò fino a fermarsi fra le ombre allungate di una macchia di conifere. Non c’era nulla, lì attorno, solo neve e alberi lontani.
«Nel bagagliaio c’é qualcosa per scavare, credo» disse Kas'yan, indicando col pollice dietro di sé. «Vi augurerei buona fortuna, ma so che i bastardi sopravvivono sempre, quindi non vi serve.»
«Puoi fare di meglio, e lo sai.» Anton spinse Uriel verso lo sportello, schiacciandolo finché il ragazzo non riuscì ad aprire e scivolare fuori, quindi lo seguì nel gelo del crepuscolo russo. Ivan fece il giro ed estrasse fucile e attrezzi dal portabagagli, caricandoseli in spalla con quella fredda efficenza che lo rendeva così indispensabile ad Anton. Perfino la ragazza si mosse, ma venne bloccata ai polsi da Kas’yan. «Oh, no. Tu resti qui con me. Abbiamo un discorso da finire.»
«Coglione» sibilò Ivan, scendendo lungo il ciglio della strada fino al terreno incolto che era la loro meta. Scivolò e le sue gambe lunghe scomparvero per un ampio tratto nella neve alta e fresca. Anton spinse avanti a sé Uriel, tenendolo per il collare come un cane. Non avrebbe avuto problemi nella neve, lui: poche cose potevano fermarlo quando il suo regno calava.
Percorse qualche metro prima che la voce di Kas'yan lo raggiungesse, sovrastando il rombo del vento gelido.
«Ah, Andreevič!» gridò, sventolando un braccio nudo e tatuato fuori dal finestrino. «Facciamo a metà, da bravi bambini. Io di giorno, tu di notte. Che ne dici?»
Anton si voltò e chinò il capo di un millimetro, sorridendo languidamente.
«E se la missione va in merda non ti preoccupare: farò sapere a tutti che è successo quando comandavi tu!»




 
1 Nella forma delle cose che verranno
Viene liberato troppo veleno
Perché non c’è nient’altro da fare

(Every me Every you, Placebo)

 
Piccolo Spazio-me:
Perdonatemi! Ancora una volta in ritardo... di troppo, senza se e senza ma. Lascio stare il fatto di avere due pc portatili inutilizzabili per via della tastiera e dò la colpa a me, che non riuscivo a uscire da una buca piuttosto grossa nella quale mi ero arenata. Ora n e sono fuori, fermamente convinta che questa sia una delle storie a cui potrei legarmi di più. La amo, e amo tutti i personaggi che vivono in questo fantasy troppo vicino alla realtà.
Spero di non avervi perso e di trovarvi ancora con noi, in viaggio verso l'Est!
fatevi sentire, mi raccomando.
Come al solito:
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

Il banner è preso dalla galleria di Eun-su. Fate un salto a quel link, mi raccomando!
  
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