Questa
storia rielabora in maniera più precisa e organica tutto
quello che avevo in
mente da tempo per il continuo di Somebody that I used to know. Mi
scuso con le
lettrici che avevano letto e commentato la versione precedente, ma non
riuscivo
più a portarla avanti: non rispecchiava in pieno quello che
volevo trasmettere
ai lettori. Non garantisco sulla puntualità degli
aggiornamenti perché
purtroppo (o per fortuna) sono parecchio impegnata. Pur traendo
ispirazione da
contesti esistenti, i personaggi sono frutto della mia fantasia
così come i
fatti narrati. Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione. Ogni
critica, purché
mossa con cognizione di causa e in modo educato, è ben
accolta.
Buona
lettura!
I
I
raggi del sole mattutino, immensi fasci di luce granulosa, si allungano
sul
cofano di un auto in fila. Sotto l’ombra dei pioppi,
distribuiti come soldati
in attesa di congedo, alcuni passanti si rinfrescano bevendo da una
fontanella
malconcia. La canicola estiva ha lasciato il posto ad una calura
più mite,
temperata. Settembre è il mese dei grandi rientri, delle
aspettative
altisonanti e dei pomposi inizi che, puntualmente, trovano il loro
naturale
oblio nei mesi successivi. Stringo voracemente tra le mani una busta
affrancata
dall’aspetto trasandato. Proviene dall’America, da
New York ad essere precisi.
La mia prima reazione è quella di strapparla senza conoscere
il suo contenuto, poco
importa se il mittente è Seth Douglas. La seconda
è più razionale: prendo la
busta, ringrazio il postino e salgo nuovamente su per le scale. E la
mente
ritorna a guardare momenti passati, scorci di vita che ancora non ho
avuto il
coraggio di dimenticare. E’ già passato un anno
dalla festa nella residenza
estiva dei nonni, eppure il ricordo è ancora vivido e inciso sulla pelle. Inevitabilmente lo
sguardo cade sul piccolo
tatuaggio raffigurante una farfalla. Il tatuatore, Roberto, ha voluto
conoscere
il significato prima di disegnarla sulla mia pelle.
«Ti
amo Seth, inutile negarlo.»
«Non
dovresti, Leila.Ti prego,
dimenticami piccola… sarà più facile
per entrambi. Sei libera adesso, libera di
vivere la tua vita. Spicca il volo.»
Ed
io l’ho spiccato il volo. Ho fatto tatuare quella farfalla
per ricordarmi
costantemente di non permettere più a nessuno di tapparmi le
ali.
«Chi
era Ley?» Barry, il mio coinquilino, sopraggiunge con passo
mitigato. Ha una
strana bandana in testa e una maglietta di due taglie più
grandi.
«Il
postino», rispondo atona. Nei suoi occhi leggo
un’espressione vagamente curiosa.
Potrei giurare di scorgervi anche tracce di gelosia per il segreto che
continuo
a tenermi stretto stretto vicino al cuore. Di rado condivido i miei
trascorsi
con gli altri inquilini. Spesso mi chiedo se questa discrezione non
vada ad
inficiare l’evolversi delle dinamiche di convivenza.
L’aspetto più bello del
ricominciare da capo è proprio quello di lasciarsi alle
spalle gli errori, le
persone, gli eventi; un po’ come un equilibrista che sul
bordo del precipizio affronta
il crollo delle sue certezze e continua a camminare fiero per la sua
strada. Ma
per quanto ci si provi non si può cancellare il passato, e
la persistenza dei
ricordi che annebbia adesso la mia mente ne è la prova.
«Ley,
c’è qualcosa che non va? Da quando sei tornata con
quella busta tra le mani non
hai aperto bocca», insiste Barry.
«Nulla
di importante» rispondo, ficcando poi nella borsa quella
maledetta busta. Lui
si gira a darmi un’occhiata irritata, per sottolineare che
non è disposto a
credere alle mie parole.
«D’accordo.
E’ l’invito alle nozze di Seth Douglas, mio zio»
ammetto, non curandomi del tono lugubre che ha assunto la mia voce.
«Ah»
mormora, simultaneamente al curvarsi di un sopracciglio. Sto per
chiedergli il
motivo di una tale smania di sapere, ma Tania, la terza inquilina della
casa,
calamita la mia attenzione. Tiene in braccio un cucciolo di cane,
sembra
spaventato e molto triste. Gli occhi di quella creatura indifesa mi
ricordano che
il mondo spesso non gira come dovrebbe.
«Qualche
stronzo l’ha abbandonato in facoltà, pazzesco.
Come si può rinunciare a questo
esserino peloso?», esordisce la mora, carezzando il capo del
trovatello.
«E’
bellissimo… guarda che musetto dolce» aggiungo,
con tono smielato.
«Ehi,
voi due. Siete forse cieche? Questo cagnolino ha un collare e un nome.
Non è
stato abbandonato, si è perso»
s’intromette Barry, ponendosi di fronte al
cucciolo.
Esaminando
il collarino verde da una distanza più ravvicinata, una
scritta color oro
attira la nostra attenzione: Mister C-Laura
27/08.
«Sembri
preoccupata», osserva Tania, poggiando delicatamente il nuovo
arrivato per
terra. «E’ per Mister C.?», chiede in
tono scherzoso. Io e Barry ci scambiano
uno sguardo eloquente, poi nego con un cenno del capo.
“Adesso dovrò riprendere
l’argomento”, penso affranta.
«No,
non è successo niente di così importante. Mio zio
Seth si sposa e mi ha
gentilmente invitata».
Tania
sembra valutare se quello che le ho appena detto è
plausibile e se rientra nei
criteri di accettabilità.
«Non
dai l’impressione di essere entusiasta» dice, e
continua a fissarmi come se
volesse cavarmi chissà quale grande segreto con il solo
ausilio degli occhi.
Da
quando viviamo sotto lo stesso tetto, non è mai capitato di
intavolare lunghe
conversazioni sulla mia vita antecedente l’arrivo a Roma. Per
lo più abbiamo
discusso di università, progetti futuri e argomenti di
dubbio spessore.
All’occorrenza, tuttavia, ho anche lasciato che mi aiutassero
ad ambientarmi e
a conoscere nuove persone. Sotto questo punto di vista non avrei potuto
avere
guida migliore.
«Ci
nascondi qualcosa?» chiede Barry, assumendo un atteggiamento
da cameratismo,
che si traduce in una gomitata d’intesa rivolta a Tania.
«No,
ecco, io…», e addio riservatezza. «Io e
Seth abbiamo avuto una storia».
«Hai
fatto sesso con tuo zio?» domandano all’unisono,
mentre le loro espressioni si
vestono d’incredulità.
«Ma
no! Cioè sì, siamo andati a letto insieme, ma
Seth non è tecnicamente mio zio.
Io e lui non abbiamo alcun legame di sangue. Seth è il
migliore amico di mio
padre. In pratica mi ha visto crescere, ecco perché lo
chiamo zio». Svelato
l’arcano, osservo i loro lineamenti distendersi e abbandonare
quel velo di stupore
che aleggiava qualche secondo prima. C’è un
po’ di imbarazzo nell’aria: Barry
azzarda un sorriso timido, ma rassicurante. In quella curva morbida
trovo la
certezza di potermi fidare nuovamente di qualcuno. Ho passato
l’ultimo anno a schivare
ogni rapporto che andasse al di là della più
spicciola cordialità. Perseverare
con un atteggiamento di chiusura ci intrappola in delle abitudini poco
sane, si
sa. Non è un segreto che, dopo l’abbandono di
Seth, dimostrassi una certa
ritrosia a instaurare rapporti di fiducia. Eppure adesso mi lascio
cullare
dall’abbraccio di questo ragazzone, che fino a poco tempo fa
consideravo un
semplice coinquilino, ma che giorno dopo giorno ha saputo, insieme a
Tania, scalfire
la mia corazza senza che me ne rendessi conto.
«Grazie»
mormoro, e lo dico davvero. Lo dico con il cuore in mano e la voce
incrinata
dall’emozione. Lo dico con la speranza che il loro supporto
possa guarire in
parte il mio cuore ferito. Le cicatrici mi paiono un buon compromesso,
d’altronde.
E’ a partire da quelle ferite rimarginate che farò
di questa storia
un’occasione per riflettere sugli errori da non commettere
più in futuro.
«Hey,
testa rossa, smettila di
ringraziare.
Quando un giorno vorrai raccontarci tutto, noi siamo pronti ad
ascoltare questa
storia stramba. Adesso occupiamoci di Mister C.» suggerisce
Barry, indicando
poi il cagnolino. Il punto nevralgico dei miei pensieri si sposta verso
il
cucciolo indifeso sdraiato nell’angolo. Diverse soluzioni si
presentano ai miei
occhi: potremmo affiggere dei volantini in facoltà o
potremmo chiamare le forze
dell’ordine e lasciare che se ne occupino loro. Sono i suoi
occhi spauriti a
farmi capitolare.
«Dobbiamo
scoprire chi è questa Laura. Non resta che affiggere dei
volantini per le bacheche
della facoltà» sentenzio accarezzando il capo di
Mister C. Poco dopo stiamo già
affiggendo la foto del cagnolino in ogni bacheca a nostra disposizione
mentre
qualche studente ci guarda incuriosito e il guardiano di turno ci tiene
d’occhio con circospezione.
«E
se lo tenessimo noi?» chiede Tania, stringendo Mister C al
petto. «Il nostro
palazzo ha un cortiletto interno, potrebbe giocare
lì.»
«Tania,
quel cagnolino appartiene a qualcun altro. Non possiamo semplicemente
appropriarcene», la ammonisco. Improvvisamente sento la
suoneria del mio
cellulare: l’ultimo singolo dei Maroon 5 dilaga
nell’aria. Dimostrando uno
spiccato senso civico, mi allontano per rispondere al telefono.
«Ti
avevo chiesto di non chiamare più. No, mi
dispiace» e riattacco, imprecando
contro la modalità silenziosa che dimentico sempre di
attivare.
Cerco
con lo sguardo Tania e Barry, ma sembrano spariti dalla mia vista.
Prendo il
telefono: ancora quel numero, ancora chiamate. Inizio a sentire il
cuore in
gola, le gambe perdono consistenza e la vista si annebbia. Sto per
perdere
l’equilibrio, ma una mano mi sorregge in tempo.
«Ley,
che ti succede?». Nel sentire la voce familiare del mio
coinquilino riprendo a
respirare regolarmente e prendo coscienza di quanto accaduto.
«Niente,
sto bene. Sarà stato un brusco calo di pressione»,
mento rimettendomi in piedi
sulle mie gambe.
«Tania
ci aspetta in macchina. Dobbiamo andare o farai tardi
all’appuntamento con tuo
padre», mi avverte. Nei suoi occhi brilla
l’allarmismo tipico di chi è amico
fidato delle lancette. La puntualità denota uno stile di
vita preciso, armonico.
Chi è puntuale si muove con grazia all’interno del
tempo, ne conosce i limiti e
non li travalica. Troppo spesso lo scoccare di un altro minuto
può cambiare le
carte in gioco. Eppure non manco mai di calpestare secondi, minuti o
ore, con
la stessa imprudenza di un bambino che si attarda a giocare laddove non
gli è
concesso farlo.
Indirizzo
a Barry un’occhiata confusa: «Giusto, il pranzo con
mio padre! Lo avevo
completamente rimosso. Grazie per avermelo ricordato».
***
La
trattoria “Da zio Mario” si trova sul litorale di
Ostia ed è un locale molto
vivace con le sue tendine di lino a quadri rossi e bianchi e le
tovaglie in
juta grezza. E’ il posto giusto per trascorrere una piacevole
domenica in
famiglia o per chi come me ha bisogno di ritrovare sprazzi di quel
focolare
domestico ormai divenuto un ricordo sbiadito. Oggi è una
giornata parecchio
affollata, e i camerieri si muovono tra i tavoli come tante cavallette
impazzite. Presto la pressione della calca si riverserà
altrove, e potremo
nuovamente goderci la splendida vista del mare d’autunno
attraverso le grandi vetrate
della terrazza interna.
«Sei
parecchio tesa oggi. Tesoro, che succede?».
Mio
padre prende la forchetta e il coltello al lato del piatto e li punta
sulla
bistecca che gli hanno appena servito.
«Nulla,
papà. Sono molto stanca a causa del ritmo frenetico delle
mie giornate»
commento, spiluccando la mia insalata.
Faccio
un lungo sospiro e mi rilasso contro la spalliera della sedia, fingendo
che
niente mi turbi. Imbocco una generosa forchettata di lattuga e pomodoro
ma non
ho molto appetito, in realtà.
«Leila,
io credo che dovresti staccare la spina per un po’.
Perché non vieni a stare da
me per una settimana?».
La
domanda è accompagnata da un tono svigorito, come se si
aspetti già la mia
risposta negativa. Non ha tutti i torti, in fondo. Mantenere intatta la
mia
neonata indipendenza è una delle cose che mi sono ripromessa
di fare tante
volte.
Lo
fisso cercando di trovare le parole giuste per declinare il suo invito,
senza
cadere nella trappola del più becero formalismo.
«Papà,
sai come la penso. Non ho niente che non si possa curare con una bella
dormita rigenerante».
Nella
penombra della saletta mio padre tiene gli occhi bassi sul piatto, ma
sono
sicura che mi stia ascoltando.
«Ecco,
vedi Ley, volevo farti una sorpresa, ma con il tuo ostinato spirito
d’indipendenza non mi rendi le cose facili. Domani arriva zio
Seth e volevo
riunire tutta la famiglia!»
«E
quando avevi intenzione di dirmelo? Ti sembra che io abbia ancora
l’età per
questi giochini?» sbraito senza contegno.
C’è qualcosa di surreale
nell’immaginare di rivedere qualcuno e provare le stesse
identiche sensazioni
dell’ultima volta. Come se il tempo si fosse fermato a quel
momento e tutto
quello che hai vissuto nel mentre fosse solamente una parentesi
nebulosa. Serbo
ancora intatto il suo profumo nelle narici, una sorta di leit motiv che
è
riapparso prepotentemente e si è riappropriato dello spazio
vitale che era
solito avere. Allora mi ritrovo nel cuore un’emozione forte,
tempestosa, che mi
annichilisce e proietta le mie paure sullo sguardo sparuto di mio padre.
La
tristezza che leggo nei suoi occhi mi dà la forza necessaria
di ammettere
l’imperdonabile mancanza di rispetto nei suoi confronti.
«Scusa,
papà. Non volevo essere scortese. Sono solamente sorpresa
che zio Seth si
faccia vivo dopo tutto questo tempo».
Dall’altra
parte mi accoglie un silenzio abbastanza lungo da costringermi ad
alzare il capo
e verificare che non mi abbia piantata lì, da sola, come
merito.
«Leila,
zio Seth mi ha sempre chiesto di te. Se non è venuto a
trovarci prima è perché
non ne ha avuto le possibilità.»
«Capisco.
Beh, suppongo voglia parlarci del suo matrimonio. Oggi mi è
arrivata la
partecipazione». La mia affermazione è volutamente
provocatoria: spero che mio
padre possa esaurire la mia morbosa curiosità. Spio con la
coda dell’occhio la
sua espressione: la fronte contratta riprende la linea dura della
mascella. Il
suo poco entusiasmo ha qualcosa di sgradevole.
«Io
e zio Seth ne abbiamo parlato molto, e il modo migliore per
comunicartelo era
tramite un avviso scritto.»
L’idea
che mio padre abbia fatto combutta con Seth in merito a questa storia
mi fa
ribollire il sangue nelle vene. Con questo stato d’animo
addosso mi alzo,
tentando un’uscita di scena meno teatrale possibile.
«Aspetta
Leila. Non andare: c’è
dell’altro.»
Mi
fermo sulla soglia della sala giusto un attimo prima di imboccare
l’uscita.
Ogni
tipo di indulgenza nell’esercizio dei rapporti umani
manifesta un difetto presente
in chi la pratica. Quando non si tratti di un’innata
bontà d’animo, essa denota
senz’altro un interesse particolare nei confronti di
ciò che è oggetto della
nostra attenzione. In quel caso, l’oggetto delle mie
attenzioni era quell’altro
di cui mio padre aveva fatto
parola. Cosa può esserci di ancora peggio dei loro squallidi
accordi alle mie
spalle?
«Sono
tutta orecchie» blatero, tornando sui miei passi.
«Tua
madre ha chiesto a zio Seth di poter presenziare alla cerimonia.
Naturalmente
lui ha rifiutato, ma quella donna è parecchio insistente e
non sembra volersi
arrendere.»
«Cosa???
Non è possibile: è un incubo! Papà,
non credo di voler partecipare a questa
buffonata. Ringrazia zio Seth per l’invito, ma ho degli
impegni che mi
trattengono qui a Roma.»
Gli
schiocco un bacio fugace e a grandi falcate mi guadagno
l’uscita. Mentre
riaccendo il telefono, un berlina scura mi si para di fronte.
«Merda»,
esclamo tra me e me.