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Autore: Ghevurah    11/12/2015    8 recensioni
E ora indossa quelle stesse vestigia dorate e con passi leggeri, disinvolti – quasi che per quattordici anni non avesse fatto altro – percorre l’atrio della Nona Casa.
Sulle labbra di Aiolia scivola un sorriso che credeva di aver dimenticato.
Aiolos, mormora, dimettendo i panni del Santo per tornare a vestire quelli dell’uomo.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Leo Aiolia, Sagittarius Aiolos
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Saint Seiya appartiene a Masami Kurumada e a chi ne ha acquisito e ne esercita i diritti, la seguente storia è stata scritta senza scopi di lucro.
 
Premessa: la storia si profila come una  “what-if?”, ambientata in un post Guerra Sacra e in un molto eventuale post Next Dimension, in cui tutti i Gold Saints sono tornati alla vita. Ovviamente non tiene conto degli sviluppi di Saint Seiya Omega (che considero il male) né di quelli di Soul of Gold.
 
Detto ciò, buona lettura.


EDIT: la storia doveva essere un racconto a più capitoli, ma vicissitudini personali mi hanno portata a modificare la mia idea di base e a renderla una one-shot. Mi scuso con coloro che speravano in altri capitoli.
 


 
 

 








Apokatástasis 
 







 

Fra le polveri della Guerra Sacra languiscono spoglie di un mondo perduto. Colonne vacillanti a sorreggere volute di nulla, logge diroccate sotto un cielo troppo azzurro e altero: lo sguardo di una divinità indifferente, forse l’ultima, l’unica, a non aver ancora calcato la terra con passi mortali.
Non vi è futuro per chi è già stato cenere: una sentenza effigiata tra le macerie, un epitaffio inciso su sepolcri riesumati.
Allora il Leone, orgoglioso, alza il capo. Lui, morto e risorto, padrone del proprio destino trapuntato di stelle, da quei resti ergerà nuove fondamenta, dal silenzio evocherà un nuovo linguaggio. E Athena tornerà a dimorare nei cuori, a essere speranza sulle labbra di giovani allievi.
Così Aiolia emerge dalle rovine della propria Casa. Il sole imprime un bacio bollente sulla sua pelle, scacciando il pallore della morte.
Non indossa l’armatura: l’ha lasciata riposare fra le ombre, un barbaglio d’oro e potere a occhieggiare una realtà estranea. Forgiata per combattere la guerra e difendere la pace cosa può, ora, che l’unico verbo è la ricostruzione?
Aiolia percorre le scalinate logore, intasiate di rami d’edera e rovi. Il Santuario tutt’attorno è lo scheletro di una gigantesca bestia marmorea. Ogni Tempio è una vertebra scheggiata, un’articolazione artritica abbandonata alla corruzione del tempo; eppure, sotto le arcate claudicanti, i loro Custodi respirano una nuova vita.
Nella Casa di Virgo i grani del mālā tintinnano. In quella di Libra le ombre addentano la luce solare, vestendo le striature d’un predatore. E se nella Casa dello Scorpione Celeste aleggia il silenzio è solo perché il suo Custode calca altri luoghi, una Casa impermeabile alla canicola in cui aliti freschi serpeggiano fra le colonne.
Aiolia oltrepassa anche l’Ottavo Tempio e allora li scorge, scolpiti nella luce, i resti della Casa del Centauro Alato.
Sembrano le membra contorte di una creatura mitologica persa nel sonno delle Ere. I raggi del sole scivolano sul timpano sghembo, sui pilastri instabili, come un velo dorato che tutto impreziosisce.
Più di una volta, nei lunghi anni di inganni e afasie, si è spinto oltre il peristilio, in bilico fra ricordi di amore e gloria e il dolore sordo del tradimento. E dopo, quando l’oscurità annidatasi nel Santuario è stata divorata dalla luce della verità, vi ha fatto ritorno con il cuore gonfio di rimorso. Rimorso per aver dubitato, per aver creduto ad un impostore invece che alla fedeltà di un fratello.
Ma ora è diverso.
Le uniche ombre sono quelle gentili e fresche delle colonne che lo invitano a entrare. E lui varca la soglia sentendo il sudore asciugarsi sulla pelle.
Frammenti di un pavimento mosaicato crepitano sotto le suole dei suoi sandali, accompagnandolo lungo il pronao. Sulle pareti si ramificano intrecci di crepe che sembrano convergere in un grosso squarcio, lo scrigno d’una verità affidata alla pietra. La prova di una devozione che travalica la morte.
Una prova che lui non ha saputo vedere.
Aiolia abbassa lo sguardo come scottato, poi una voce chiama il suo nome.
Ed eccolo, dunque, colui che porta la speranza negli occhi, il sole sul capo. La leggenda fra le dita, sulle labbra increspate in un sorriso.
Aiolia, dice ancora e la sua voce non è quella di un fantasma, ma di un ragazzo dipinto di colori celesti.
Veste un tripudio d’oro, esattamente come nei ricordi infantili di Aiolia e in quelli più fugaci di adulto prossimo alla morte: le memorie raccolte dinnanzi al Muro del Pianto, quando lo ha visto, lo ha sentito, scagliare una freccia traboccante di speranza.
E ora il ragazzo indossa quelle stesse vestigia dorate e con passi leggeri, disinvolti – quasi che per quattordici anni non avesse fatto altro – percorre l’atrio della Nona Casa.
Sulle labbra di Aiolia scivola un sorriso che credeva di aver dimenticato.
Aiolos, mormora, dimettendo i panni del Santo per tornare a vestire quelli dell’uomo.
 


 
Ricorda di una notte sdraiati sotto le stelle, l’erba umida a carezzare la pelle e le parole di suo fratello traboccanti di antichi eroi. Ricorda il suo indice tendersi come per sfiorare il firmamento, tracciando collegamenti impalpabili fra quei disegni astrali. Ma per lui la stella più brillante, l’unica che avesse vero valore, era quella caduta al suo fianco.
Dimmi, Aiolia, che costellazione è quella?
Il Sagittario?
Suo fratello rise in quel modo fresco, cristallino, simile al gorgheggiare di un rivo; la risata del ragazzino che era – che sarebbe rimasto per sempre.
Non possono essere tutte il Sagittario, Aiolia!
Lui sbirciò la sua espressione divertita, il suo viso bagnato di stelle, e si rifugiò fra le sue braccia.
Che cos’è, allora? Chiese mentre le dita di suo fratello gli carezzavano il capo, tracciando gli stessi disegni con cui avevano animato il cielo.
È Gemini, sussurrò Aiolos piano, come se quella rivelazione fosse un segreto rubato alla galassia. E lui sentì che per quanto la sua voce risuonasse vicina il suo cuore era migrato lontano. Fra quei ricami di stelle e pianeti, forse. O nell’oscurità impenetrabile della Terza Casa.
 
 
 
 
È una gioia ancestrale quella che prova guardandolo. Ricorda quel sentimento che lo faceva sorridere, bambino, quando Aiolos lo svegliava con rare tenerezze. Perché mentre il sole di Grecia beccheggiava tra le creste dei monti, loro potevano essere semplicemente Aiolia e Aiolos.
Ora, all’alba, lui è già sveglio e guarda suo fratello indossare le vestigia di Sagittarius. Lo fa con gesti lenti e accorti, pregni d’una sacrale ritualità.
È un tale onore poterla vestire ancora, dice a un tratto e i suoi occhi sono pozze di cielo liquido, colme di devozione.
Sa bene che le armature non avranno ruolo in quel futuro di ricostruzione e rinnovamento che si prospetta loro dinnanzi, ma a differenza di Aiolia ha bisogno di indossarle. Di sentirne ancora il peso sul corpo, la consistenza dura, spigolosa, sulla pelle.
Inclina il capo, osservando l’intarsio che ricopre il vambrace venir percorso da una lingua di luce. Sorride e suo fratello lo imita.
Cosa c’è?
Aiolia sbatte le palpebre, colto in fallo.
Nulla; dice, ma Aiolos continua a guardarlo, quasi potesse indovinarne i pensieri, e lui è costretto ad arrendersi.
È che sembri così giovane, ammette arrossendo.
Gli occhi di Aiolos si sgranano, eppure sulle sue labbra sboccia un nuovo sorriso.
 
 


Non avrebbe mai pensato di vedere Aiolos alzare il capo per guardarlo in volto. Aiolos che nei suoi ricordi era possente come un eroe dei miti, Aiolos che aveva mani grandi e forti, coperte d’oro.
Ora le punte delle sue dita sfiorano appena le ultime falangi di Aiolia. Il suo corpo è quello del ragazzino che era quando la sua vita fu spezzata. E lui potrebbe cingerlo con facilità, sentendo la carezza morbida dei suoi capelli lambirgli il mento. Potrebbe sollevarlo, come Aiolos faceva con lui bambino, per  fargli trovare  fra le sue braccia quella casa che non hanno mai avuto davvero.
Ma nonostante le apparenze lo sguardo di suo fratello svela una saggezza profonda, molto più adulta di quella che Aiolia possiede e mai possiederà. E lui, dinnanzi a quello sguardo, si riscopre bambino nell’animo.
 


 
È salito alla Nona Casa prima che l’alba sciogliesse le sue chiome pallide, e come uno spettro è scivolato fra le colonne, spingendosi oltre la soglia delle stanze private. Il Cosmo trattenuto a stento, nella mente l’impronta febbrile dell’incubo da cui si è svegliato.
Poi  ha scorto Aiolos tra le lenzuola di lino ed è rimasto a guardarlo dormire.
Sembra persino più giovane, ora. Una raggiera di capelli d’oro incornicia il viso dai tratti morbidi, ancora pregni d’una nota infantile. Le palpebre sono immobili e sotto le ciglia chiare si addensano rivoli d’ombra.
Aiolia scaccia un altro pensiero funesto, concentrandosi sul suono del suo respiro regolare, vivo. Ma l’inquietudine si è già insinuata nel suo animo e lui deve trovare un modo per contrastarla.
Allunga una mano per sfiorare Aiolos, per accarezzare il suo braccio abbandonato. Percorre quella pelle d’ambra e la sente tiepida sotto il proprio tocco.
Si tende ancora un po', troppo provato da quel riscoperto sentore di paura per vergognarsi delle proprie azioni.
Poggia il capo contro la spalla di Aiolos, avvertendolo muoversi appena. Sa che è ben conscio della sua presenza, ma quella muta accondiscendenza lo spinge a non arretrare.
Si sdraia contro di lui, scoprendo un incavo fra le sue braccia, e il suo corpo possente, di uomo, si rannicchia contro quello fanciullesco di Aiolos in un incastro tenero e perfetto.
Profuma di sole, suo fratello, e Aiolia si lascia inebriare. Scivola più in basso, verso il suo petto, per ascoltare i battiti del cuore.
Aiolos lo asseconda, apre le braccia e gli permette di accovacciarvisi meglio. Poi affonda le dita fra i suoi capelli, cingendogli il capo con una dolcezza che riscalda anche l’anima.
E l’alba singhiozzante li coglie così, in silenzio, un gigante cullato da un fanciullo.

 
 
 
 
 
 


 

 
Note:
Apokatástasis significa letteralmente “ritorno allo stato originario”, nella filosofia stoica indica un nuovo ripristino del tempo e del mondo a seguito dell’ecpirosi. Si collega alla dottrina dell’eterno ritorno, ma la cosa curiosa è che alcuni pensatori ritengono possa essere l’avvio di un ciclo difforme dal precedente.



   
 
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