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Autore: Writer96    19/12/2015    3 recensioni
Greta ama Bruce, disperatamente e da un tempo tanto lungo da essere divenuto doloroso. Ogni volta che lui litiga con Cyn, lei lo accoglie senza chiedergli niente se non, forse, quanto resterà.
Bruce mantiene le sue promesse e ogni volta se ne va, lasciando il cuore di Greta a macerarsi in silenzio.
Greta ama Bruce, disperatamente, e pensa a lui, fumando in balcone.
Bruce legge Flaubert con le magliette dei Red Hot indosso, fuma troppe sigarette ed è tanto magro, biondo e scompigliato quanto cinico.
«Per quanto hai intenzione di fermarti, stavolta? »
« Tutto il tempo che resta »
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Tutto il tempo che resta
by Writer96






Greta sta pensando a lui quando il suono del campanello si intromette tra i suoi pensieri, sovrastando il vociare indistinto che proviene dalla televisione ormai prossima alla propria morte. Con una lentezza che non le appartiene sputa fuori un po’ di fumo dalle labbra screpolate e sporge la testa dentro casa, indecisa se aspettare o se andare ad aprire immediatamente.
Il campanello suona di nuovo, più a lungo stavolta e le labbra di Greta si distendono in un sorriso malfermo, mentre abbassa la sigaretta e con attenzione evita uno dei tanti escrementi di piccione che decorano il pavimento del suo balcone per riuscire a rientrare nell’appartamento.
« Gret, vuoi aprire? – campanello, pugni che battono sulla porta, un verso stizzito, campanello – Dio, Gret, sto congelando qui fuori, muovi il tuo culo e vieni ad aprire alla porta! »
La sigaretta continua a bruciare tra le sue dita e lei si concede ancora un respiro prima di allungarsi in una serie di passi frenetici che le permettono di arrivare alla porta in pochi secondi.

« Non dovresti fare tutte queste scene ogni volta che vieni qui. E se io non fossi stata in casa? Cosa avrebbero detto i vicini? »
« Vaffanculo, Greta, ti ho vista dalla strada, stavi in balcone »
« Magari non avevo voglia di vederti o di venirti ad aprire »
« Vaffanculo »
« Sei ripetitivo. E terribilmente volgare »

Greta fa un passo indietro e si lascia scappare un sorriso veloce nel momento in cui lui si china a prendere quella che ha tutta l’aria di essere una valigia fatta in fretta e furia. Lo osserva per qualche istante – la sciarpa storta, i pantaloni sollevati sopra una caviglia, l’accendino che sta per scivolare fuori dalla tasca posteriore dei jeans, i capelli più lunghi del solito che spuntano da sotto il cappello pesante – e poi si gira per dargli le spalle, intenta a cercare il proprio accendino riaccendere la sigaretta che ormai si è quasi totalmente consumata. La televisione in sottofondo continua a ciarlare allegramente e Greta cerca di controllare il tremito che le pervade le dita delle mani, nel tentativo di non far cadere a terra la sigaretta appena accesa.
Non se l’aspettava, questa volta.

Bruce deve essere andato in bagno, perché Greta non lo sente più muoversi alle sue spalle e questo provoca in lei ansia e sollievo in egual misura, come sempre quando si tratta di lui. Azzarda una veloce occhiata alle proprie spalle e vede la valigia spalancata sul pavimento, un marasma di vestiti che straborda senza alcun ordine dal trolley troppo piccolo che stona terribilmente con l’ambiente spoglio che lo circonda.
Sono passati un paio di mesi da quando la stessa scena le si è presentata davanti agli occhi l’ultima volta e Greta si ricorda ancora il pianto disperato che l’ha assalita quando quella valigia è sparita dal pavimento del salotto dopo solo tre giorni, senza nessun biglietto che prendesse il suo posto, senza nessun ringraziamento formale ed evidente. Se si sforza può ricordarsi anche la penultima volta in cui quella valigia è stata lì, sempre disordinata, sempre straripante, sempre comunque troppo vuota e di passaggio, sempre accompagnata da quell’inconfondibile, insostenibile, insopportabile “Io e Cyn abbiamo litigato”.

Ogni volta Greta ci prova, a farlo rimanere. A tenerselo stretto, a non farselo sfuggire dalle mani.
Per quanto hai intenzione di fermarti, allora?” domanda sempre, con gli occhi forzatamente vispi, le mani strette a pugno dentro le tasche della felpa. La risposta varia, ma è sempre una promessa poi mantenuta.
Tre giorni”, borbotta di solito Bruce, “Una settimana”; “Qualche ora soltanto andrà bene”. Non si smentisce mai, lui: ogni volta se ne va esattamente come prestabilito. Non sgarra neanche di un’ora o di un minuto; non si ferma per pranzo o per cena: scivola via e basta, deciso come quando è arrivato, illogico e inspiegabile come è sempre stato e come, probabilmente, sempre sarà.
Bello, inafferrabile e intangibile come solo per Greta può essere.

« Gret, il tuo bagno fa più schifo del solito, oggi, complimenti »
Bruce se ne sta appoggiato alla porta ed ha un sorriso sghembo sulle labbra, le mani in tasca e le caviglie incrociate in maniera rilassata. Se solo non fosse così dannatamente magro e scompigliato potrebbe essere quasi preso per uno di quei bulletti che si atteggiano tanto nei telefilm che trasmettono il pomeriggio sul Canale 27, si ritrova a pensare Greta, impedendo al proprio sguardo di rimanere addosso a lui troppo a lungo.
« Sei sempre così gentile, Brut, che mi chiedo perché io mi ostini ad invitarti ancora a casa mia – fa una pausa, gli sorride un poco e si dirige verso la cucina, spegnendo la sigaretta in un bicchiere d’acqua mezzo vuoto appoggiato sopra il bancone – Oh, già, è vero. In effetti, io non ti ho invitato »
« Sei la padrona di casa peggiore che io abbia mai conosciuto. E ti ricordo che la mia affittuaria è un bisonte di centotrenta chili con la passione della danza classica! » la rimbecca Bruce, inseguendola dentro la cucina e lanciando con nonchalance il cappello di lana grigia sopra il tavolo ancora apparecchiato dopo il pranzo.
« Togli quel cappello da sopra il tavolo » ordina Greta, iniziando a sparecchiare come se Bruce non fosse lì a confonderla con il suo solito odore, con il suo corpo sempre troppo vicino, sempre a un passo da, sempre irraggiungibile, con i suoi occhi chiari che la scrutano alla ricerca di qualcosa che non vada.
« Sei dimagrita, Vecchia Stanga »
« Togli il cappello da sopra il tavolo, Brut » ripete Greta, fingendo di non averlo sentito, stringendo le labbra in una linea dura mentre getta nel lavello il piatto sbeccato e inizia a lavarlo energicamente.
Dio, prega dentro di sé, Dio ti prego, fa che non si accorga, fa che non si accorga…

« Un’altra delle tue dannate superstizioni, Gret? Guarda che porta sfortuna lasciare il cappello sul letto, non sul tavolo »
Bruce ha un sorrisetto soddisfatto sul volto, con un angolo della bocca leggermente sollevato ad evidenziare quell’inconfondibile spirito saccente che lo accompagna da tutta la vita, e Greta sbuffa divertita, incapace di nascondere il proprio sollievo di fronte ad un Bruce che in un certo senso le appartiene, proprio perché non cambierà mai.
« Mi scusi, Professore, le giuro che la prossima volta starò più attenta a scegliere la giusta superstizione, allora. Nel frattempo, però, togli il cappello da sopra il tavolo, che sennò si sporca »
« Il cappello o il tavolo? » le chiede lui, irriverente come al solito. Greta ha un attimo per notare le leggere occhiaie che gli contornano gli occhi, prima che lui chini la testa e si alzi in piedi per avvicinarsi a lei.
« Smetti di lavare i tuoi cocci, Greta, e vieni di là a fare quattro chiacchiere con me » dice poi, togliendole il bicchiere di mano e sciacquandolo al posto suo sotto al getto tiepido dell’acqua. Greta lo osserva in silenzio, osservando con una fitta al cuore il modo sicuro in cui lui si muove, il modo naturale in cui compie un’azione tanto quotidiana e semplice da risultare quasi speciale, il modo in cui sembra, inevitabilmente, fatto apposta per incastrarsi all’interno della sua vita.
Si chiede come sarebbe se Bruce fosse sempre lì a lavare i bicchieri al posto suo, e di fronte a questo pensiero le si blocca il respiro in gola.

« Devo preoccuparmi? » gli domanda, cercando di apparire più scherzosa e disinvolta di quanto nella realtà non sia e nota distintamente le sopracciglia di lui che si inarcano leggermente, segno del fatto che lui non ha creduto minimamente alla sua forzata allegria.
« Dipende. Se hai intenzione di dirmi spontaneamente perché tu sia dimagrita di nuovo, allora no, non c’è niente di cui tu ti debba preoccupare. Altrimenti… »
« Altrimenti? » temporeggia lei, gli occhi che saettano in giro mentre Bruce posa il bicchiere appena lavato sul bancone accanto al lavandino e le pianta lo sguardo addosso.
« Greta » pronuncia con una serietà che non gli appartiene, facendola immediatamente pentire di aver aperto quella porta per farlo entrare ancora una volta in casa sua.

Non c’è volta in cui a Bruce sfugga qualcosa. Riesce a scovare tutto, a notare il più piccolo dei dettagli, il più minuscolo dei cambiamenti, quando si tratta di lei, scavandole dentro in maniera quasi insopportabile, andando a carpirle segreti che neanche lei sapeva di avere.
E’ comico, è tutto dannatamente comico, in realtà, perché nota tutto eppure sembra non aver mai notato lo sguardo di puro dolore che lei gli lancia ogni volta che lui esce, ogni volta che scompare dietro un angolo e chissà quando si rivedranno. Sembra non essersi mai accorto delle sue mani che tremano ogni volta che sono abbastanza vicini da potersi sfiorare senza poterlo fare, del suo respiro bloccato appena dietro ai denti ogni volta che lui le sfiora piano il viso prima di allontanarsi ridendo per una qualche battuta.
Bruce nota tutto, tranne ciò che è essenziale.

« Ho litigato con alcune amiche e lo sai come sono fatta, quando litigo con qualcuno io non mangio, mi si blocca lo stomaco, mi si blocca tutto e… » inizia a dire, spostando gli occhi dal suo volto per posarli su qualcos’altro, il tavolo, o forse la sedia, o quel dannato cappello che è ancora posato su un angolo del tavolo. Ci sarebbe troppo da spiegare, troppe parole che non ha la forza di ripetere, troppe espressioni troppo deluse che le distruggono lo stomaco al semplice ripensarci, e Greta non ce la fa a parlarne ancora.
« Smetti di consumarti dentro ogni volta per queste cose. La gente litiga, Gret, non farti ammazzare da qualcosa che non dovrebbe »
« Litiga come te e Cynthia, Brut? » chiede, troppo cattiva e troppo dura, ma anche troppo stanca di essere perennemente una spalla a cui appoggiarsi solo in caso di necessità. Bruce sposta il viso e per qualche istante la guarda dritta negli occhi senza sorridere, con una serietà, ancora una volta, che stona con il suo aspetto caotico e disordinato.
Prima che Greta possa dire qualcosa, lui si gira e si dirige a passo svelto in salotto, lasciandosi cadere sul piccolo divano di stoffa grigia senza dire neanche una parola, preferendo invece tirar fuori una sigaretta dalla tasca posteriore dei pantaloni per poi accenderla con uno scatto nervoso delle mani.

« Io e Cyn non litighiamo più » dice qualche istante dopo, soffiando fuori il fumo con lentezza studiata, lo sguardo perso in mezzo alle volute che si dissipano nell’aria. Greta lo guarda, rimanendo immobile in mezzo alla stanza, le mani bloccate in un movimento che non finirà più.
« Che vuol dire? » domanda, con la voce leggermente tremante, umettandosi le labbra per trovare il coraggio di portare a termine la propria frase. Le spalle di Bruce si contraggono appena sotto al maglione leggero che indossa e una ciocca di capelli chiari gli scivola sopra un orecchio, vinta dalla forza di gravità.
« Quello che ho appena detto. Io e Cynthia non litighiamo più, dal momento – pausa, fumo per aria, silenzio per qualche secondo – che ci siamo lasciati stanotte »
Greta non sa cosa dire. Ha le parole sincere –“Era ora”; “Finalmente”; “Dio, Brut, ce l’hai fatta a scollarti di dosso quella vita che ti andava stretta”- bloccate in mezzo alla gola e non se la sente di tirarle fuori. Non sono ciò che direbbe una brava e vera amica.
Fa qualche passo in avanti e aggira il divano, sedendosi in un angolo lasciato libero dalle gambe di Bruce. Lui si gira e le lancia un’occhiata veloce, spostando le gambe di quel poco che le permette di sedersi più comodamente, la schiena abbandonata contro lo schienale del divano.
« Mi dispiace… » prova a dire e Bruce scoppia a ridere senza allegria, allungando un braccio dietro la sua testa per attirarla a sé.
« Non dire cazzate, Gret, non ti dispiace così come non dispiace a nessun altro, me compreso. Era una cosa che… tiravo avanti senza sapere perché. Non era neanche così importante, poi. Suppongo, sai, avessi solo bisogno di compagnia. E Cyn era lì, semplicemente » esclama e Greta tira su la testa, le sopracciglia corrugate e le labbra storte in una smorfia di disappunto.

E’ questa una delle tante cose che odia di Bruce: lui sputa fuori la verità, la rende una realtà nuda e cruda fatta di cadaveri e di ossa macilente, senza rendersi conto di come tutto questo suo cinismo sia inutile, talvolta. E’ intelligente, forse troppo, e si sente in dovere di essere cinico per questo motivo, senza capire che nessuno gliel’ha mai chiesto.
Ci sono momenti in cui Greta si chiede come faccia ad amarlo così disperatamente, così tanto da sentirsi quasi bene quando lui la solleva dall’obbligo di fingersi dispiaciuta per una cosa che non le dispiace affatto, invece, così tanto da sentirsi male per tutto il tempo che lui ha perso dietro ad una cosa da sempre priva di valore.
« E quindi stavolta è definitiva? » gli chiede, guardandolo portarsi la sigaretta alle labbra con un gesto nient’affatto elegante. Lui è fatto così, è spigoloso, duro, all’apparenza fatto di soli angoli senza la minima curvatura, eppure Greta sa che c’è in lui una parte malleabile ed accessibile a pochi. La riconosce nei suoi modi silenziosamente gentili, nel suo brusco pretendere risposte a domande che nessun altro avrebbe avuto il coraggio di farle, nel suo farle notare continuamente quei minuscoli e maledetti dettagli.
« Pare. Non ho voglia di tornare in quel buco di casa, poi, con quelle orribili tendine di pizzo giallastro che ci aveva mandato sua madre. Dio, Gret, chi diavolo manderebbe delle tendine di pizzo a due ventitreenni? »

Scoppiano a ridere in contemporanea, trasmettendosi vibrazioni e singulti a causa di quella vicinanza forzata eppure nient’affatto innaturale, e non riescono a smettere fino a quando il fumo della sigaretta non finisce in faccia a Greta, facendola tossire forzatamente.
« Sai che non voglio che fumi dentro casa » lo rimprovera lei, colpendolo sulla mano prima di indicargli il posacenere di ceramica arancione posato sul basso tavolino accanto al divano.
« Non cercare di fregarmi, Vecchia Stanga, guarda che quando sono entrato in casa stavi fumando pure tu » esclama, ma poi si allunga e spegne la sigaretta ancora a metà, sorridendole sfacciatamente quasi a mostrarsi fiero del suo gesto.
« Ero in balcone a fumare quando un cretino mi è arrivato alla porta ed ha iniziato a suonare come un disperato. Con quel che costano le sigarette, sarebbe stato un peccato non finirla »

Bruce scoppia a ridere e Greta si prende qualche secondo per seguire le linee di quel viso che conosce da una vita e che comunque continua a non stancarla, ricco com’è di espressioni di ogni genere. E’ un viso, quello di Bruce, che non è mai cambiato negli anni, rimanendo sempre quello del diciassettenne un po’ sbandato che aspettava gli amici in cortile leggendo Flaubert con una maglietta dei Red Hot indosso, rimanendo sempre quello che la prima volta che ha visto Greta si è rabbuiato un po’ prima di esclamare “E levati quella tinta nera dai capelli, che di Emo non hai nulla, tu”.
Il naso è leggermente storto e le labbra sono piene, espressive e mobili, esattamente come gli occhi dal colore chiaro e indefinito che guizzano in continuazione sotto i capelli biondo cenere tenuti troppo lunghi. In sei anni che lo conosce, Greta non ha mai visto Bruce con i capelli corti, neanche una volta, neanche per sbaglio, e forse è stato meglio così, perché lei proprio non ce lo può vedere senza quella zazzera caotica e disordinata, senza il ciuffo ribelle che ogni volta si libera dall'elastico grigio e maciullato.

« Perché mi fissi, Vecchia Stanga? »
« Non chiamarmi Vecchia Stanga, Brut, sai che lo odio »
« E tu non chiamarmi Brut, allora. Mi ricorda troppo il Bruto di Cesare e, dannazione, io non sono come lui. Non accoltello alle spalle »
Greta sorride e allunga una mano ad accarezzargli i capelli incasinati, passando un dito sull’anellino che gli decora la sommità dell’orecchio sinistro.
« Stavo pensando al fatto che quando avremo dei figli dovremo proprio smettere di fumare » si inventa lì per lì, ritraendo poi la mano per riporsela in grembo.
« Io e te, dici? » esclama lui e gli occhi di Greta si spalancano, mentre un rossore indecente le invade le guance.
« No, io dicevo… In generale. In futuro. Quando saremo grandi » prova a rimediare, le parole che le si accalcano sulla lingua nel tentativo di sembrare ordinate e sensate, nel tentativo, ancora una volta, di occultare qualcosa che non è realmente occultabile. Bruce fa spallucce, la guarda e sorride e poi sposta gli occhi sulla televisione ancora accesa, perdendosi per qualche istante a seguire le figure colorate al suo interno.
« Oh beh, a me piacerebbe avere dei figli con te »

E’ un attimo e il cuore di Greta si ferma. Si blocca, resta immobile ed inerte in mezzo al petto, mentre lei cerca di ricordarsi di come si respiri, di come si faccia, insomma, ad essere vivi abbastanza da comprendere quanto lui ha appena detto.
« E’ solo perché vuoi garantire loro almeno una metà sana di patrimonio genetico, ovviamente » cerca di scherzare, prendendosi gioco più delle proprie assurde speranze che di lui, che nel frattempo ride sotto ai baffi e la osserva di sottecchi.
« No, è perché li voglio con te » ribadisce, lasciandola, ancora una volta, muta.
« E’ una cosa che… Hai presente quando compri i calzini nuovi? »
Greta si gira e lo guarda ed è capace solamente di annuire brevemente, gli occhi pieni di domande e di muta confusione. Bruce si gratta un sopracciglio e le sue labbra si muovono, articolando parole mute alla ricerca di quelle migliori da dire, fino a quando non sorride e lancia uno sguardo alla ragazza, che ancora lo fissa nella speranza di capirci qualcosa.

« Sai, ci sono quei sottili fili di stoffa, hai presente, no, quelli che uniscono i due calzini come se qualcuno li avesse cuciti insieme… E se tu vuoi staccare i due calzini, devi tagliare il filo e poi tirarlo tutto da una parte, così da sfilarlo da uno dei due. E’ una cosa stupida, ma il concetto è questo: quei due calzini siamo noi, siamo io e te, e tutte le relazioni disastrose o meno che abbiamo avuto sono state le forbici che hanno tagliato il filo che ci univa. E fino a qui va bene e ce ne siamo accorti, sì, insomma, che noi non eravamo una coppia, che eravamo Brut e Gret con le nostre vite incasinate, destinate ad essere due amici, due calzini separati. E io ci ho provato, davvero, ad allontanarmi da te e a farmi una vita con un altro calzino ma… Non lo voglio tirare, il nostro sottile filo di stoffa. Non voglio scappare da te. Non mi va più »
Greta gira la faccia e trattiene un sorriso, lo sguardo che immediatamente le corre alle caviglie coperte dai pesanti calzini invernali. Le viene da ridere istericamente, come la volta in cui ha preso un voto così basso al compito di matematica che persino il professore stentava a rimanere serio. Le viene da ridere, immaginandosi lei e Bruce come due calzini che si rifiutano di separarsi e pensa che è proprio la metafora più assurda e controproducente che qualcuno abbia mai usato per descrivere una storia d’amore.
« Gret, per quanto io odi quel tuo parlare da macchinetta saccente avrei bisogno che tu dicessi qualcosa, ora »

« Dio, Brut, non ho mai sentito una metafora più orribile di questa » esclama e scoppiano a ridere insieme, isterici, incapaci di capire come siano arrivati a questo punto, come siano passati dal parlare della storia appena finita di Bruce a loro due intesi come coppia appaiata di calzini. Greta è la prima a zittirsi e Bruce la segue immediatamente, appoggiando la testa allo schienale del divano e iniziando a disegnarle qualcosa di invisibile su una spalla con la punta delle dita.
« Come siamo arrivati fin qui? »
« L’ho capito quando ho pensato che mi mancavi in un giorno qualunque, Gret. Che mentre tutto nella mia vita era destinato ad essere transitorio e fugace, tu eri una costante. Ho fatto le valigie, ho portato tutti i miei scatoloni nel mio appartamento, ho litigato con Cyn per l’ultima volta e sono venuto da te. Io ci sono arrivato così, fin qui. Tu non lo so. In effetti, tu qui ci vivi »
Greta ha le mani incastrate l’una all’altra e sta perdendo la sensibilità alle dita, tanto le stringe forte, eppure non riesce a staccarle. Rimane in silenzio, ascolta per qualche secondo la televisione in sottofondo e prende un respiro profondo, continuando a fissarsi le caviglie.

« Sono innamorata di te da una vita, Brut, e tu non te ne sei mai accorto, oppure hai sempre fatto finta di niente. Ti visto fuggire, scappare, partire senza lasciare neanche un biglietto, ti ho visto andare via senza di me, inseguendo una vita che non ti accorgevi nemmeno di non volere. Perché dovrei crederti, adesso? »
Il dubbio la divora, si mangia le sue speranze e le frulla nel cervello come un piccione impazzito, lasciandola incapace di trattenersi. Bruce si gira, la guarda e sorride con il suo solito sorriso sghembo, un dente macchiato dalle troppe sigarette fumate.
« Perché sei l’altro mio calzino e non voglio staccarmi da te »

Greta ride, così tanto che alla fine le fa male lo stomaco e una lacrima le scioglie la linea di eyeliner che le contorna l’occhio destro, così tanto che persino Bruce non riesce a contenersi e ride di nuovo, incapace di rimanere serio di fronte a tanta isterica felicità.
Quando si calma, Greta lancia un’occhiata alla valigia di Bruce, ancora aperta e disordinata in mezzo alla stanza, ignara di quanto è appena successo. E’ una scena che Greta ha già visto decine di volte, questa, eppure è completamente diversa, questa volta. C’è nell’aria qualcosa di sa di nuovo, di bello, di sano, anche se il minuscolo appartamento puzza di fumo e un po’ di stantio come ha sempre fatto.

«Per quanto hai intenzione di fermarti, stavolta? »
Greta ha un sorriso beffardo mentre parla, gli occhi che brillano leggermente e il naso un po’ arricciato e Bruce ridacchia senza neanche guardarla. Continua a tenere un braccio intorno alle sue spalle, abbandonato lì come se nulla fosse, i capelli che sono scivolati di lato e vanno a solleticare l’orecchio di Greta, l’orecchino che rischia di incastrarsi in uno dei ricci castani di lei.
Per un po’ nessuno dei due dice niente, non sentendone neanche il bisogno, beati in un silenzio che si apre in infinite possibilità. C’è un mare di cose da dire, un oceano di angoli da smussare per evitare di ferirsi l’un l’altro, di distruggersi a vicenda, un mondo di sensazioni da provare e da urlare con tutto il fiato che si ha in gola.
C’è un gran futuro, appena oltre la valigia spalancata di Bruce, ma ancora non c’è bisogno di parlarne granché. Non c’è bisogno di dire cose eclatanti, di fare grandi discorsi, di impelagarsi in conversazioni infinite, non ora, non adesso.
Bruce lancia uno sguardo alla televisione ancora accesa, si allunga a prendere il telecomando e la spegne, prima di girarsi fugacemente verso Greta e sorridere.

« Tutto il tempo che resta »





Writ's Corner
E' una storia dalla genesi lunga e complicata. I personaggi sono nati, almeno nella mia testa, secoli e secoli fa. Me li immaginavo, questi giovani sbandati, distrutti, sciatti e brillanti, prigionieri di una realtà che ingrigisce i loro colori e soffoca le loro menti. Me li immaginavo e, ricalcando un'autobiografia di un tempo lontano, mi immaginavo vicende e sofferenze, sentimenti quasi urlati in faccia. E poi è arrivato un dialogo, mentre facevo il letto, e poi subito dopo un altro. Sono nati i calzini, la valigia, le tende di pizzo giallo, figli e sigarette, la vita in solitario -che ora, posso, finalmente, comprendere appieno e descrivere come merita. E Bruce e Greta, che fino ad allora non avevano avuto un nome, hanno potuto respirare.
   
 
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