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Autore: aniasolary    22/12/2015    1 recensioni
A ventotto anni, Arthur Benkinson ha fatto molti errori che non si perdonerà mai. Si è innamorato, due volte: forse tre, non sa ben spiegare. E' stato un disastro. Il cassetto in cui ha conservato i suoi sogni è tutto impolverato, ricorda di averne buttato la chiave.
E' imprigionato da delle catene che si è fabbricato lui stesso.
Ma forse non è troppo tardi per lasciare la sua prigione.
Forse ha solo bisogno che qualcuno ascolti la sua storia. Una storia di dolore. Una storia d'amicizia. Una storia d'amore. Una storia di crescita. Una storia per qualcuno.
Qualcuno di importante.
"Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad essere il migliore in tutto, ma tu mi hai insegnato ad essere un brav’uomo. A cogliere le margherite alla fine dello stelo, per non farle soffrire, perché tutti a questo mondo soffrono anche se non piangono. A prendere le coccinelle con la paletta della polvere e a lanciarle dalla finestra, in modo che si librino in volo. A rifare il letto al mattino appena sveglio, perché verrà un giorno in cui non ci sarò, e sarai solo, e imparerai quanto sono facili le grandi cose, capendo quanto è difficile curarsi delle piccole cose. "
(
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Quarto capitolo

 
Passò un’ estate tra partite di golf, tè ghiacciato, sigarette fumate di nascosto e la villeggiatura in costa azzurra, scogli rossi d’argilla circondati dal mare blu ed il sole, immenso, a colpirne il paradiso, a colpire i miei occhi. L’amico fotografo professionista di mamma, Steven, ci fece molte foto, conservate nei nostri infiniti album di famiglia. Di quel soggiorno ricordo una ragazza parigina, con una splendente pelle olivastra, il nasino all’insù e gli occhi cerulei. Era un anno più grande di me e quella sera, mentre mamma e papà ballavano il valzer viennese ed io fissavo i giochi di luce del lampadario di cristallo, mi sorpresi che la ragazza stesse facendo psss proprio a me.
Mi alzai da tavola e la seguii nel giardino del ristorante, sotto una palma finta.
«Salut,» le dissi.
Lei ridacchiò. «Lo sapevo che eri inglese,» mi rispose, nella mia lingua. «Anche se hai qualcosa che ricorda un tedesco.»
Trattenni un sorriso di fronte a quella erre così morbida. Mi piaceva, quel suono. Ci trovavo qualcosa di infantile e sensuale nello stesso tempo.
Che Jade, con la sua strafottenza, non era proprio riuscita a riprodurre quella sera in cui mi aveva cacciato via.
«L’altezza,» ipotizzai.
«Le spalle,» continuò lei. «Sì, le spalle.»
Stirai le labbra e mi sedetti sulla panchina che anche lei aveva occupato, senza parlare.
«Ti annoiavi, lì, con i tuoi genitori,» fece ancora lei, e la musica del valzer accompagnava le sue parole. «Ti manca la tua fidanzata?» mi chiese.
«No!» mi venne fuori tuonante. E mi apparve Jade che teneva la mano di sua sorella e diceva no, non mi va di andare in Francia, quest’estate. Tanto ci andrò ad ottobre con il club di musica, visto che adesso ho il B1 di Francese… E se andassimo a Napoli a trovare nonna Anna?
«No… non ce l’ho la fidanzata,» dissi, con più calma.
«Davvero stranissimo.»
Fu umido e sospirato, uno sfioro in cui non capivo cosa fare, come farlo e perché farlo. E in tutto questo, assaggiavo il sapore di champagne che aveva lei.
Mi aveva dato un bacio.
Sì, ed io la stavo baciando.
«Constance!» Una voce di bambina esplose tra i cespugli, ci fece staccare all’improvviso. «Constance, où es-tu?»
«Oh, no,» sospirò la ragazza accanto a me. «È la bambina a cui faccio da babysitter.»
«Constance!» Quella voce la chiamò ancora ed apparve una ragazzina sui dieci anni, con i capelli nerissimi e la pelle di porcellana.
«Emanuelle, j’arrive!» Constance si alzò, senza voltarsi indietro, e corse verso la piccola Emanuelle che adesso mi fissava.
Il giorno dopo, al ristorante, non c’era l’ombra di nessuna delle due.
Ma rividi, un giorno, l’ombra di una di loro.
Ecco il mio primo bacio: in Francia, a una sconosciuta appena conosciuta. È bizzarra, la vita: ti lascia vivere le cose importanti anche senza le persone importanti. Perché tu non ci seguisti, Eirene.
Eri nella nostra bella casa, ad aspettare che tornassi.
Ed io non vedevo l’ora di tornare da te anche se, quando misi piede su suolo inglese, mi fissasti per un lungo momento negli occhi, prima di parlare. Era come se non stessi guardando me.
Ma qualcosa dentro di me.
«Sei un po’ cambiato… sempre bello, anzi di più, ma c’è qualcosa di diverso.» Restai in silenzio e tu continuasti. «Sei ancora cresciuto in altezza, forse?»
«Sei tu che sei nana,» risi.
Mi facesti la pernacchia e mi scompigliasti i capelli.
***
Tornai a scuola per l’inizio del secondo anno delle scuole superiori. Bradley, accanto a me, puzzava di coniglio – in gabbia, non in casseruola. Ed io mi guardavo in giro alla ricerca estenuante di Jade Truman.
Quando la vidi, in corridoio, che sorrideva a quel modo appena accennato, persi tutto il fiato che avevo in gola. Non si era abbronzata, a Napoli, ma in quei due mesi che aveva passato lì i capelli le erano cresciuti tanto da arrivarle all’altezza del seno.
Jade sorrideva a un ragazzo. Lui le fece fare una giravolta e, quando Jade fu voltata, l’abbracciò da dietro. Jade chiuse gli occhi.
E lui, più scuro di me, più alto di me, più grande di me, più bello di me, la volse di nuovo verso di sé, Jade restò a occhi chiusi e lui la baciò.
Il nome di quel ragazzo, due anni più grande di me, è John Goode. È diventato un astrofisico della N.A.S.A. proprio come aveva detto il giorno dell’orientamento del nostro liceo, per invogliare i futuri studenti ad iscriversi. Con una bella donna, o un bell’uomo, si sarà anche già sposato.
Ma quel giorno aveva quanto di più desiderassi al mondo tra le sue braccia.
«Arth,» mi chiamò Bradley. «Ti è scivolata la cartellina di Inglese.»
«Merda,» sussurrai.
Una merda che Jade baciasse quello sconosciuto e non me, che io non avessi speranze, che non ne avessi mai avute.
«Una vera merda,» specificai. E ruggì, per la prima volta in me, la belva della gelosia:  mi attanagliò le viscere tra le sue zanne, pronte a strappare e a lasciarmi sanguinante, inerme.
Ed avrei dovuto dirtelo. Tutte quelle volte in cui mi rimboccavi le coperte, anche se stavo diventando grande; i pomeriggi in cui mi preparavi lo yogurt con le gocce di cioccolato mentre guardavamo un programma a quiz in tv; le sere tristi in cui aprivi la porta, mi vedevi seduto alla scrivania e mi chiedevi “stai studiando?”, senza aspettare la risposta.
Mi lasciavi un bacio sulla testa, ed io sospiravo per risucchiare quel bacio e mettermelo nel cuore come un cerotto, per curare i graffi che gli artigli di quel sentimento mi lasciavano.
In superficie, ma inguaribili.
***
Natalie Hanna Truman non faceva altro che crescere. Continuava a trotterellare dalle scale per venirmi ad abbracciare, ma il tempo passava anche nella sua infanzia. Con un cappellino a forma di cono fermato sotto al mento da un elastico, soffiava la fiamma che ghermiva un numero otto di cera. I suoi capelli erano diventati più lisci fino alle punte, di quel tono cioccolato che tradiva quello di Jade.
 «Un panino al burro, Arthur?»
«No grazie, signora, sono a posto così.»
La signora Truman mi sorrise, e qualche ruga le guarnì gli occhi da cerva. «Puoi chiamarmi Tracy, lo sai.»
«Tracy, giusto,» finsi che la mia formalità fosse nata solo da un’abitudine ch’era dura a morire. Ma Theresa, Teresa, Tracy, sapevo benissimo quale fosse il suo nome: aveva messo al mondo la ragazza per cui avevo perso la testa, come potevo non venerarla e al tempo stesso condannarla per questo?
«Hai mangiato poco, oggi,» mi disse, come offesa. «Devi crescere! Quindi devi mangiare. Non te lo dice tua madre?»
In realtà era una cosa che mi dicevi tu, Eirene. Mamma, con la biblioteca e l’organizzazione di eventi con scrittori famosi – quell’anno era eccitatissima perché un certo George R.R. Martin aveva accettato di fare una seduta di autografi dopo infinite telefonate col suo agente –, e per questo non c’era quasi mai a pranzo.
Mi strinsi nelle spalle. Oltre al golf – qualche volta aveva giocato con noi anche Buford Truman – mi ero iscritto ad una palestra vicino casa, dove mi dimenavo tra addominali, pertica e spalliera. Dopo arrivavo a casa sfinito.
Ed io ero grato di riuscire a pensare sempre meno.
«Mamma! Io vado,» fece Jade, vicino all’entrata del salotto. Si era messo addosso un piumino chiaro su cui scendevano, ad onde, i suoi capelli castani – quanto fu freddo, quel diciotto novembre.
«D’accordo, ma non tornare tardi.»
«Non preoccuparti, mi accompagna John. Lui è prudente,» la rassicurò Jade, ed abbassò il capo fino a che la sciarpa non le coprì il mento. Era arrossita. Le lentiggini sul naso erano ancora sempre sette. Il neo era sempre sotto lo zigomo. Ed io non potevo nulla contro la forza del mio destino.
«Lo spero,»  sbuffò Tracy.
Jade rimase sullo stipite per qualche secondo ancora, incrociai lo sguardo col suo e fu come cadere giù da un burrone. Tu, Eirene, mi hai raccontato molte storie: nei paesi africani, le persone credevano che i possidenti degli occhi chiari fossero demoni che, guardandoti, ti succhiavano via l’anima.
Con Jade l’impressione era la stessa – come una caduta continua: panico nel sangue, nervi tesi, ossa pronte a rompersi. Per poi ricominciare, rincominciare, rincominciare a cadere – anche se il suo era un azzurrino indefinito, con sfumature che da lontano non potevo scorgere al meglio.
Così si girò ed imboccò il corridoio, ed io allora decisi di seguirla e a metà strada gridai.
«Jade!»
Si mantenne in equilibrio sul suono del suo nome.
«Mhm?»
Fu tragico il momento in cui capii di essere arrivato al limite. Che il macigno che portavo nel cuore – non sopra ma proprio dentro, ingombrante e pesante – era troppo per me. E l’unico modo per asportarlo, seppur di poco, anche se così mi sarebbe stato visibile in mezzo al petto come un iceberg nell’oceano, era essere egoista nel più meschino dei modi.
Mi dicevi che ero un bravo bambino.
Un bravo ragazzo.
Ti sbagliavi di grosso.
«Ti accompagno alla porta,» le dissi.
Jade rimase perplessa, lo lessi nel suo viso. «È casa mia, credi che non sappia dov’è la porta?»
«Ovviamente lo sai,» le arrivai accanto. Sicuro. Come se tutto fosse una sciocchezza. «Però non sapevo come altro restare solo con te perché è da tutta la sera, da tutta la settimana, da tutto il mese, da tutto l’anno e forse da tutta la vita che dovrei farlo e ancora non l’ho fatto e allora tanto vale…»
«Che cos…»
«Sto diventando pazzo.»
«Lo vedo!» Le si inarcarono le sopracciglia. «Che hai?»
«Sei la creatura più meravigliosa a questo mondo ed io sono un povero scemo. Sono un povero scemo perché sono innamorato di te. Anche se mi odi. L’ho capito. E quando ti parlo faccio sempre casini. E se tu mi parli mi insulti. Non ha senso, lo so. Hai il ragazzo, lo so. Ma dovevo dirtelo.» Aprii le braccia ad abbracciare un cielo che non avrei mai raggiunto. «Adesso che lo sai, posso stare meglio.»
Ecco il mio egoismo: asportarmi quel segreto dal cuore in modo che anche lei sapesse. In modo che fosse anche un suo segreto.
In modo che fosse condiviso.
Jade restò a bocca aperta. Respirò ad ampie boccate: incredula? Sotto shock? Sorpresa?
Scoppiò in una risata che parve infrangere i vetri delle finestre, ma la verità è che mi colpì come uno schiaffo in pieno viso, la giusta punizione dopo aver rotto qualcosa che non si può più aggiustare.
Era quello che avevo fatto: avevo distrutto qualcosa.
Tutto il tempo passato insieme nel corso degli anni, alle cene o in vacanza in Corsica o in Puglia, un anno in Svizzera, l’altro in Irlanda, aveva creato una successione di momenti di cui entrambi eravamo proprietari, anche se distanti.
Jade, nel contegno che riuscì a ritrovare in se stessa, non poteva continuare ad essere distante da me: io sapevo, lei sapeva. Questo ci legava. E sarebbe stato per sempre.
Mi fissava con due occhi persi e splendenti, la bocca dischiusa, il respiro a passarle attraverso, le gote arrossate.
«Arth…» E ci fu così tanta vergogna, in quel sussurro. Voleva continuare. Non sapeva come farlo.
«Il tuo ragazzo ti sta aspettando,» la interruppi, e ringraziai me stesso per aver parlato con tutta quella decisione: mi ero rotto dentro, ma la mia voce restava sempre la stessa, misurata. Non più infantile, vicina al tono grave che ho oggi.
Preso da una calma e una freddezza che credevo di non avere, le aprii la porta. «Divertiti, Jade.»
Non si mosse.
Jade non accettava ordini, inviti. Ogni tanto, ma non da me, dei consigli.
Per la prima volta, però, non si oppose.
«Grazie.»
E raggiunse la moto del suo John a passi veloci.
***
 «Goaaaaal!» gridò Bradley, correndo con le mani a pugni e con gli occhi a guardare il cielo, come i veri calciatori che tante volte avevamo visto allo stadio di Liverpool.
«Piantala, pivello,» gli feci io, sprezzante. «È il primo goal che segni, da quando giochiamo insieme.»
«Ma è sempre un inizio!» E, vittorioso, e cadde in ginocchio con un sorriso impastato di sonno.
Entrammo in casa, per lavarci io sarei andato nel bagno più grande, mentre Brad in quello più piccolo.
«Chi finisce più tardi di lavarsi ce l’ha piccolo,» disse lui, a tutta velocità, per poi correre verso il bagno.
Ci tenevo davvero a dimostrare la mia virilità, quindi mi impegnai a lavarmi in fretta e furia, uscii con i capelli bagnati e solo i pantaloni addosso e corsi in camera mia. Nello stesso momento e nelle stesse condizioni uscì anche Bradley, e raggiungemmo la mia stanza tra spintoni e schiaffi umidi che profumavano di muschio bianco.
«Daisy cadrebbe ai tuoi piedi se ti odorasse in questo momento,» sospirai.
Bradley scosse la testa e mi arrivarono delle goccioline d’acqua sul petto. «Non li pensa proprio i ragazzi, quella.»
«Pensi che le piacciano le femmine?»
Cominciai ad asciugarmi con l’asciugamano.
«No, anzi, pensa solo ai suoi libri e ai suoi telefilm, i ragazzi reali non li considera proprio,» mormorò.
«Be’, non è facile competere con gli alieni di *Roswell
«Piantala di prendermi in giro.»
Scossi la testa. «Magari se le dici cosa provi, lei si accorgerà di te.»
«Jade si è accorta di te?»
Questo mi irritò tanto da farmi accaldare, nonostante il freddo, nonostante fossi mezzo svestito.
«È diverso,» mi sbrigai a dire. «Ci sono sempre stato. Lei c’è sempre stata. Non sono riuscito a impedirlo.»
Non volevo impedirlo.
«Ma quando gliel’hai detto… ti sei sentito meglio davvero?»
Presi la maglia del pigiama e me la infilai. «Mi sono sentito coraggioso, coraggioso come non sono mai stato,» sospirai.
«Tu sei sempre stato coraggioso. Sicuro di te, in gamba.»
«Non è vero. Faccio finta. Alle ragazze piace. A mamma e papà piace.»
«Non so se crederci,» mormorò, ed anche lui finì di vestirsi. «Quanto conta quello che sei, se non corrisponde a quello che fai? Siamo lo specchio delle nostre azioni.» Si mise nel suo sacco a pelo ed io mi coricai sul letto. Al soffitto era ancora attaccato un poster di Toy Story.
«Ora capisco il perché di quel dieci a scrittura creativa, Brad.» Sorrisi.
«Pensa a me, che prendo solo insufficienze in Matematica. Come farò a studiare veterinaria, se non so risolvere un sistema?»
«Poi ti aiuto io, tranquillo. È una cazzata.»
«Tutte le cose per te sono cazzate e intanto, quando non esci, ti sbatti sui libri fin quando non muori.»
Mi rigirai nel letto. «Tu leggi la mia anima, Bradley.»
«Sì, amico.»
Chiusi gli occhi, preso dalla curiosità. «Ma tu te lo sei mai misurato?»
Un attimo di silenzio. «Con il metro che ho a casa.»
«Esagerato!»
«Non ti chiederò più in prestito la tua riga.»
***
Jade passò tutto il tempo che poteva a farmi sentire la sua assenza. Passò il Natale dalla nonna, a Napoli, e il capodanno a casa di Daisy.
«Sono inseparabili, quelle due,» disse il signor Truman, mentre versava il vino alla cena di capodanno. «Quando anche Nat troverà un’amica così, io e Tracy staremo sempre da soli.»
«Non essere drammatico, Buford,» gli rise dietro mamma. «Tu hai due figlie, io ne ho solo uno, chi è il più fortunato tra noi?»
«Arthur,» rispose il signor Truman, e mi lanciò uno sguardo complice. «Tu lo vuoi, un po’ di vino?»
«Veramente lui…» s’intromise mamma.
«Voglio assaggiare il vino,» decisi. «Credo che la birra sia troppo amara.»
Buford si mise a ridere e mi versò del vino rosso nel mio bicchiere, scosse la testa. «Quante volte cambierai cose in cui credere, Arthur. Alla salute.»
Rumore di vetri che si toccano appena.
«E io?» squittì un funghetto che venne fuori da sotto il braccio del signor Truman. Natalie lo guardava con il labbro inferiore proteso verso di lui, i capelli sollevati in un’acconciatura intrecciata, gli occhi allungati a chiedere tenerezza.
«Solo un goccio, va bene?» le concesse il signor Truman.
«Grazie,» gli disse Natie, con una riconoscenza così matura nella sua voce che mi sorpresi: come poteva provenire da una bambina di soli otto anni?
«A cosa vuoi brindare, Natie?» le chiesi, travolto dall’ondata di affetto che m’ispirava ogni volta.
Natalie mi guardò ed io mi immersi nel languore del suo sguardo.
Sorrise.
«Alla felicità.»
***
Le olimpiadi di Matematica diventarono il fulcro dei miei pensieri. Dopo il campionato di golf a cui ero arrivato primo, mio padre mi dava la stima che avevo sempre desiderato da lui e, una volta che l’ebbi assaporata, capii che cos’era quell’elemento di cui non potevo più fare a meno.
La mia ambizione.
Il superare gli altri, chiunque fossero gli altri.
Lavorare e lavorare e lavorare, tutta la notte.
Purché mi aiutasse a non pensare a lei.
«Sta’ attento, Arthur,» mi dicesti un giorno, di fronte ad uno dei miei tanti successi. «Seduto a una tavola imbandita, mangia ciò di cui non puoi fare a meno. Se mangi tutto e troppo, non ricorderai il sapore di nessuno dei cibi che hai assaggiato e sarai pieno. Nauseato. E tutto sarà stato vano.»
Ma poi mi sorridesti. Ci fu un abbraccio stretto stretto, come quando ero piccolo. «Ma sei stato bravo anche stavolta, piccolo re.»
***
«Ehi, stacanovista.» Bradley mi lanciò una pallina di carta. «Non è che hai un minuto solo per me?»
«Che c’è?» gli chiesi, mentre spappolavo un mostro attraverso la divina invenzione della prima playstation.
«Non ci capisco un cazzo dello spazio euclideo tridimensionale,» sbuffò.
Impostai la pausa e mi voltai verso di lui che, seduto alla mia scrivania, sospirava sul suo quaderno.
«Non ti allarmare,» gli dissi. «È più facile di quel che pensi.» Mi avvicinai a lui e gli posai una mano sulla spalla, mentre il mio sguardo vagava sui suoi appunti. «ax+by+cz=d. Che cosa vuol dire?»
«Boh.»
Scossi la testa. «a, b, c sono delle costanti reali. Esistono, le vedi, le accetti.»
«Purtroppo per me, sì. »
«Ed esistono per ogni punto, a per x, b per y, c per z. La presenza delle costanti reali e dei punti ci conferma che si trovano sullo stesso piano anche nella loro diversità, isolati dal resto. Su un unico piano. E questo vuol dire…» indicai il disegno. «Che hanno la facoltà della complanarità. Cioè la proprietà di giacere sullo stesso piano… di stare insieme,» tentai di semplificare per lui. «È come se il piano fosse la loro casa e loro, quei tre punti, sono legati tra loro… sempre. Non importa il resto.»
Feci un profondo sospiro.
Bradley si passò una mano tra i capelli e restò in silenzio. Avvicinai l’altra sedia alla scrivania, mi ci sedetti e aspettai che mi guardasse.
Fu come incontrare lo sguardo di un cucciolo ferito.
«Facciamo degli esercizi insieme, va bene?» gli proposi.
«Ho capito, Arthur.»
«Oh, grande.»
«Ho capito,» scandì, di nuovo. «Spieghi bene. Solo… mi è venuta in mente una cosa…»
«Che cosa?»
«No, niente… è una scemenza… facciamo gli esercizi.»
«A che cosa hai pensato?»
«A Daisy,» mi liquidò. «Penso sempre a lei.»
***
Avevo scoperto da poco il fumetto di Freccia Verde. Il protagonista, Oliver Queen, si dimenava tra i delinquenti della sua città con le sue frecce e belle donne, quando qualcuno bussò alla porta.
Tu, Eirene, eri l’unica che entrava nella mia stanza.
E l’unica, adesso che stavo diventando uomo – ti riempiva la bocca, quella parola, e riuscivi a dirla in un solo, ansimante respiro: uomo – ad aprire la porta solo se dicevo, come in quel momento: «avanti».
In punta di piedi, nella mia stanza, tu.
«È bello il fumetto?»
«È troppo figo,» mi sfuggì. «Ti racconto la storia?»
«Veramente…» T’avvicinasti un po’ di più fino a sederti sul letto, accanto a me. «Dovrei essere io a parlare, adesso.»
«È successo qualcosa?»
«No, no.» Scesero piano, quelle sillabe, con calma insieme alla tua incertezza. «Arthur… una volta, quando eri piccolo, mi hai chiesto se mi piace questa città.»
Sbattei le palpebre alle prese con la mia memoria: io, in quello stesso letto, tu china su di me a rimboccarmi le coperte. Una sera fredda… novembre, Jade nel suo gelido splendore e, per la prima volta, lei.
Natalie Truman.
«Ah, sì. Mi ricordo.»
«Ti parlai anche della mia famiglia.»
Annuii.
«E ti dissi altro.» La tua voce era allarmata, non mi era mai suonata così acuta. «Ricordi?»
La scena mi tornò chiara come te la racconto ora. Vivida. Viva.
«S’agapò.» E la mia voce tremò, non seppi spiegarmi il perché.
«Sì…» Il tuo sospirò tradì un’emozione con cui non avevo mai avuto a che fare. Era quella dell’ultima parola. Dell’ultimo sguardo. Dell’addio. «Non è cambiato niente. S’agapò, piccolo re.»
Mi irrigidii. «Non sono più tanto piccolo.»
«Lo so, Arth. E il mio cuore si è già spezzato al pensiero che sto per andare via.»
Il fumetto mi scivolò dalle mani, una tua carezza sul mio viso, calda sulla pelle, gelidi i tuoi anelli. Era tutto troppo forte.
Mi scostai.
«Torni in Grecia.»
«Mi dispiace.»
«Non è vero. Era questo che volevi dall’inizio.» Mi alzai dal letto, ti diedi le spalle, feci un respiro profondo: non dovevi vedermi così. «Io… io sono contento,» esalai, con fatica.
«Contento?»
«Io non sono tuo figlio,» dissi. Un altro respiro ben misurato. «Una madre ce l’ho, e si chiama Vanessa Rachel Irvin. Un padre ce l’ho, e si chiama Richard Conrad Benkinson. Porto il nome dei miei nonni, sono Arthur Philip Benkinson. Tu, Eirene, non ci sei.» Deglutii. «Sono un estraneo per te.»
Un gemito roco. «Sei arrabbiato.»
«Non è questo che ti sto dicendo.»
Mi facesti voltare il viso. Non mi ero accorta che ti fossi mossa, eri silenziosa ed elegante, incisiva. Coi tuoi occhi mi scavasti il cuore, facesti rimbombare le tue parole.
«Tu hai ancora bisogno di me.»
Socchiusi gli occhi. Non dovevo piangere. Non potevo piangere. Volevo piangere. Ma tu non mi avevi ancora insegnato come comportarmi in situazioni simili.
«E adesso mi dirai una cosa come “ti manderò una cartolina”.»
«Arthur!» Un grido che spaccò il cielo. «Questo è banale: soffri, e nascondi ciò che senti nella strafottenza. Non è così che devi fare.»
«Insegnami, Eirene.»
«Tu…»
«Tutto bene, qui?» In camera entrò mio padre, senza bussare.
Abbandonasti il mio viso.
«Sì, va tutto bene, signor Benkinson,» dicesti.
«Te l’avevo detto che il mio ragazzo l’avrebbe presa bene,» rise lui. «Non è uno che si lascia toccare facilmente, da queste cose. E poi tu ci invierai delle cartoline, no?»
Un sussulto, sulle tue spalle: l’offesa ti rimbalzò contro. Era la stessa cosa che avevo fatto anch’io? Mi vergognai. Quante volte ho provato vergogna, Eirene, soprattutto con le donne.
Ma non potevo costringerti a restare nella mia vita, tu avevi la tua.
«Se avrete piacere,» sussurrasti. Il calore della tua presenza si dissipò da me e, prima di uscire, ebbi ancora i tuoi occhi.
Ma io, ostinato, guardai altrove, incapace di perdonarti, quando l’unico a dover chiedere perdono dovevo essere io.
Non ho bisogno di te, mi convinsi. Sto bene da solo.
Io sono nato per farcela da solo.
Così, quando m’abbracciasti per l’ultima volta prima di partire, restai con le braccia stese sui fianchi, senza rispondere.
Non sentivo niente.

*
*
*
*
 
*Roswell, serie tv di genere teen drama fantascientifico, prodotta dal 1999 al 2002.
Ciao a tutti, lettori, potete considerare questo capitolo come il mio regalo di Natale per voi <3 Vi auguro di passare delle splendide feste.
Non vi assicuro un aggiornamento a breve poiché è probabile che io decida di partecipare, con questa storia, ad un concorso letterario, motivo per cui i vostri pareri sono preziosissimi *.* se così fosse, dovrei togliere la storia dal sito, ma vi avviserò con un messaggio, se volete : )
Grazie mille a chi ha recensito, a chi legge, a chi mi sostiene giorno per giorno. A chi c’è e per questo è importante.
Vostra Ania <3
   
 
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