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Autore: Ortensia_    25/12/2015    2 recensioni
1840, Inghilterra. Ken è un giovane malato di tisi che trascorre la propria vita in un sanatorio inglese, a pochi passi da Stanway House, la dimora della famiglia Kirishima.
Il sanatorio e Stanway House sono indissolubilmente legati l'uno all'altra e Ken dovrà affrontare non solo la malattia, ma anche la minaccia di creature mostruose ormai perfettamente integrate nella società.
Prima classificata al contest "Per ogni kanji un pacchetto di sorprese!" indetto da Mokochan sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kaneki Ken, Kirishima Tōka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nome autore (su forum e sito): NeuPreussen / Neu Preussen
Titolo storia: Point of No Return
Pacchetto scelto: Malattia
Fandom: Tokyo Ghoul
Personaggi: Kaneki Ken; Kirishima Touka; (Arata Kirishima)
Pairing: KanekixTouka
Introduzione: 1840, Inghilterra. Ken è un giovane malato di tisi che trascorre la propria vita in un sanatorio inglese, a pochi passi da Stanway House, la dimora della famiglia Kirishima.
Il sanatorio e Stanway House sono indissolubilmente legati l'uno all'altra e Ken dovrà affrontare non solo la malattia, ma anche la minaccia di creature mostruose ormai perfettamente integrate nella società.
Note dell’autore: (leggetele dopo la shot, altrimenti rischiate di farvi qualche spoiler >-< ) nonostante abbia avuto il colpo di fulmine con il pacchetto che ho scelto, ci ho messo tipo... un maledettissimo mese per farmi venire un'idea.
Non so come, non so perché (in verità lo so benissimo che è colpa di letteratura inglese) mi sono cimentata in un'ambientazione spaziale e temporale che non è nelle mie corde, ma in generale mi ritengo piuttosto soddisfatta di quello che ho partorito.
Piccole annotazioni generali come al solito:
- mi sono ispirata solo ad alcuni elementi contenuti nel pacchetto, ovvero: la parola monotonia, più che altro nella prima parte; all'omofagia, cioè al consumo di carne cruda (anche se in piccola parte) e, per l'ultimo pezzo, alla citazione di Shakespeare: Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente. Come si sarà capito ho sfruttato anche il titolo del pacchetto stesso;
- infilare la mano destra fra due vasi di pietra potrebbe sembrare un dettaglio insignificante, un'azione che sul momento è inutile da descrive, ma diviene utile più tardi, quando Kaneki fugge dal sanatorio;
- so che lacrimoni non è un termine propriamente corretto, ma ho voluto enfatizzare e gh (le spiegazioni sensate).



Point of No Return




Touka avvertì un fremito incontrollato sulle palpebre, come se qualcuno le avesse appena pizzicato le ciglia, tuttavia restò impassibile e ravvivò i capelli corti districandoli con le dita fredde. Da quando si era trasferita a Stanway House con la famiglia, le capitava spesso di dover conciliare con dolorosi intirizzimenti delle dita e seccanti tremori che le solleticavano gli occhi, sintomi di intolleranza nei riguardi di una mondana monotonia che le era tanto familiare da averla ormai nauseata.
«Touka-chan? La diligenza» la voce serafica del padre non la distolse dal puntiglioso – e ansioso – scandagliare delle dita attorno al collo magro, dall'attenta osservazione di se stessa attraverso lo specchio.
Saggiò il pizzo blu con un lento movimento dei polpastrelli, le labbra incrinate in una piccola smorfia di disappunto: aveva l'impressione che la sua pelle, oltre il tessuto rigido, si stesse deteriorando come porcellana logorata dal tempo, si sentiva soffocare.
Come la madre, Touka prediligeva la comodità a discapito dell'eleganza, ma suo padre acquistava abiti e tessuti pregiati almeno due volte al mese perché la figlia potesse indossarli durante le passeggiate in città; doveva integrarsi: diceva, ma proprio non le riusciva di sopportare il pizzo, che le adornava il collo come una collana di spilli.


Quando si svegliava con l'impressione di essere legato al letto e poi scopriva che le articolazioni facevano tanto male da impedirgli davvero di muoversi, Ken sapeva che non sarebbe stata una buona giornata.
La stanza del sanatorio era sterile e scialba, il solo respirare l'aria viziata di quel recesso angusto lo sconfortava, il generoso effluvio di alcol etilico gli pizzicava le narici e gli faceva lacrimare gli occhi.
Quando si sentiva troppo debole anche solo per mettersi seduto, Ken osservava il cielo oltre gli spessi vetri delle finestre, scoprendosi ogni giorno più avvilito nel constatare di trovarsi sotto la medesima cupola grigia che lo aveva accolto quattro mesi prima, una volta sbarcato a Portsmouth. Il tempo, fuori, pareva essersi fermato, ma quello del suo corpo fluiva con una velocità tale da far paura, era un fiotto imponente e insormontabile sotto il quale, piano piano, si piegava e moriva.
«Oggi desiderate leggere qualcosa, Kaneki-san?» fortunatamente una delle infermiere capiva e parlava un po' di giapponese, ma le sue erano brevi e limitate domande di rito che ribadivano a Ken lo stato di mesta solitudine in cui versava.
«Forse più tardi» Ken la guardò per un istante e le sorrise, poi, imbarazzato, tornò a contemplare il cielo grigio.


Quando la diligenza si arrestò di fronte a Stanway House, Touka rilassò il busto contro il comodo sedile in pelle e, chiudendo gli occhi, trasse un sospiro di sollievo.
«Suvvia, Touka-chan!» suo padre la schernì con un sorriso che Touka sbirciò solo per qualche istante, attraverso la fitta coltre di ciglia nere semiabbasata sull'occhio destro.
«Lo sai che tutto questo non è fatto per me» borbottò dopo qualche istante di esitazione, decidendo infine di risollevare le palpebre e prepararsi a scendere dalla diligenza – e, eventualmente, raggiungere il prima possibile la sua stanza per cambiarsi d'abito.
Touka detestava le ore di viaggio che separavano Stanway House e Cirencester, quell'immensa accozzaglia di minuti interminabili durante i quali penava sotto gli imprevedibili singhiozzi della diligenza e si chiedeva – spesso autoinfliggendosi forti emicranie – perché non poteva essere una ragazza come tante altre, perché doveva essere così diversa dalle giovani donne che a quell'epoca cercavano impiego come istitutrici presso grandi e ricche magioni o oppressivi collegi femminili.
Suo padre insisteva perché frequentasse il più possibile l'ambiente cittadino e lo seguisse ai banchetti di importanti uomini di affari, perseverava nel chiederle di stringere un legame con qualche coetaneo, ma, al contrario dell'apparenza, non c'era nulla di frivolo in quelle raccomandazioni: Arata Kirishima era un uomo buono e intelligente che desiderava soltanto proteggere la vera natura della figlia.


Ken aveva recuperato le forze nella notte: adesso il dolore alle articolazioni era sopportabile e poteva muoversi liberamente.
Restò seduto per un po', le lenzuola sgualcite sulle ginocchia, le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi sulla porta chiusa: a giudicare dalle voci concitate e dai passi frettolosi che, separati da lassi di tempo piuttosto irregolari, risuonavano nel corridoio, Ken pensò – non senza sconforto – che quella notte doveva essere morto qualcuno.
Scostò le lenzuola e saggiò il pavimento con i piedi, reagendo alla fredda durezza con un piccolo spasmo delle dita, dunque si diresse lentamente alla finestra: sotto il cielo grigio del mattino, oltre la cancellata nera del sanatorio, una diligenza era in attesa.
Ken vide una delle inservienti dirigersi in fretta all'inferriata, infilare la mano destra fra due vasi di pietra e poi, aiutata dal cocchiere che si trovava dalla parte opposta, aprire il cancello; altre due, una in capo e una in coda a una barella, giunsero poco dopo.
Ken seguì il greve avanzare dell'involto di lenzuola bianche, ritrovandosi improvvisamente costretto a reprimere un conato di vomito che si placò soltanto quando la barella scomparve oltre le grate nere: dove lo portavano? Al camposanto, forse?
Chiuse gli occhi e adagiò i palmi delle mani contro i vetri freddi, ascoltando con estrema attenzione il cigolio delle ruote sul selciato: era la morte a scandire il tempo al sanatorio; ogni giorno, la malattia mieteva vite stanche con la stessa facilità con cui le falci dei contadini mutilavano crocchi dorati di spighe mature nei campi.
Al sanatorio morivano come mosche, ed era la monotonia più terrificante che potesse esistere.


Touka interruppe l'esecuzione di una nota, che di fatto risuonò stridula e sgradevole. Nonostante suonasse di rado, quando si cimentava nell'interpretazione di un brano al pianoforte era solita portarla a termine, tuttavia, in quel momento, lo stridere delle ruote sul selciato l'aveva costretta a fermarsi.
Si alzò in fretta e raggiunse l'ingresso un istante prima che suo padre aprisse la porta e si avviasse in direzione della diligenza, appena arrestatasi di fronte a Stanway House.
«Viene dal sanatorio?» trepidante, Touka si affiancò al genitore.
«Immagino di sì,» suo padre mormorò appena, come se, troppo impegnato a osservare i movimenti del cocchiere e a sperare che si trattasse di ciò che pensava, trovasse improvvisamente molta difficoltà ad articolare le parole «dopotutto sono passati quasi due mesi dall'ultima volta.»
Al cenno del cocchiere, Touka si mise sull'attenti, la schiena ritta, le spalle contratte, le braccia rigide. Non distolse i propri occhi dal padre neppure per un secondo, anzi la sua attenzione si fece ancora più vigile dal momento in cui lo vide stringere fra le braccia un grosso viluppo di lenzuola.
Quando la diligenza ripartì e suo padre le transitò accanto, il corpo avvolto dal sudario ancora fra le braccia, Touka smise di sentirsi in colpa nei confronti del brano appena lasciato a metà e si dimenticò perfino di possedere un pianoforte: aveva troppa fame.


Strinse il lenzuolo fra le dita e lo tirò fin sopra la testa, mentre si sistemava sul fianco sinistro: Ken aveva gli occhi chiusi, ma poteva vedere nitidamente la lunga e biforcuta coda gialla di un canarino balzare su e giù, in piccoli spasmi, attraverso gli angusti spazi che squarciavano la barriera dorata della voliera. Gli pareva di udire il canto ascendente e vivace dell'animale, ma l'assenza di luce non lo aiutava a concentrarsi, l'aria stantia lo costringeva a focalizzare la propria attenzione sul respiro irregolare e a distoglierla dai fantasmatici echi che l'inconscio sussurrava alle sue orecchie.
Era quando si sforzava di rievocare il viso della ragazza che quel pomeriggio aveva visto transitare al di là della cancellata del sanatorio, che il canto del canarino diveniva più chiaro e, persistendo, trafiggeva la sua personale quiete notturna e accresceva il bruciore alle tempie, già sufficientemente provato dal costante ticchettio della pioggia contro i vetri delle finestre.
Sapeva che era un bel viso, eppure non riusciva a ricordarlo: il dormiveglia lo relegava a una condizione di confusionario avvilimento, lo sbalzava dalla frustrazione derivante dalla consapevolezza di non riuscire a ragionare a mente lucida alla caduta inesorabile fra le braccia di Morfeo, che tuttavia lo cullava solo per pochi minuti e poi, con violenza, lo ripudiava, scuotendolo dal suo stato febbrile.
Si trovava in una condizione d'impasse per cui non riusciva né ad addormentarsi definitivamente, né a restare completamente sveglio, ne risultava, dunque, una disordinata accozzaglia di immagini e rumori nella sua testa, un guazzabuglio così imponente da fargli credere che la sua mente fosse sul punto di tracimare, di rigettare tutto ciò che al suo inconscio poteva apparire di scarsa importanza.
Schiuse le labbra ed emise un flebile rantolio, infine si sistemò sul fianco destro, le lenzuola malamente attorcigliate attorno al corpo. Era un sudario caldo e ansante, il volto pallido e contratto, il respiro trattenuto: il cinguettio spensierato che quello stesso pomeriggio aveva ascoltato tanto volentieri cominciava a non piacergli più, lui stesso iniziava a sentirsi in gabbia e, soprattutto, a temere di essersene reso conto troppo tardi.
Sollevate le palpebre restò immobile per almeno una trentina di secondi, lasciando che gli occhi si abituassero all'oscurità.
Ken sbrigliò gambe e busto dall'impiccio delle lenzuola e si mise a sedere con estrema lentezza; restò pietrificato, immerso nel buio, e rivolse la propria attenzione alla finestra soltanto quando riuscì a regolarizzare il respiro, tuttavia, ancor prima di individuare il percorso evanescente di una goccia di pioggia sul vetro, un suono proveniente da oltre la porta chiusa della stanza attirò la sua attenzione.
Il suono era così basso che era facile intuire provenisse da un'altra camera, eppure quel flebile singulto era bastato perché Ken sentisse il sangue gelarsi nelle vene.
Si alzò dal letto quasi inconsapevolmente, barcollò e brancolò nel buio, e in un istante si ritrovò addossato alla porta della propria camera, in ascolto di un silenzio che mai gli era sembrato tanto raccapricciante.
Il suono giunse di nuovo alle sue orecchie. No, non un suono, ma un verso gutturale, come il rantolio di qualcuno che rimetteva, solo più forte e secco.
Ken tornò indietro soltanto per infilare i piedi nelle pantofole, poi raggiunse di nuovo la porta e sgattaiolò fuori.
Data l'assenza di finestre, il corridoio era ancora più buio della sua camera, un titanico androne ove l'oscurità partoriva altra oscurità.
Ken si allontanò dalla propria stanza solo di un paio di passi, poi si fermò e restò in ascolto: il sanatorio era tornato silenzioso, come se la quiete notturna che gravava all'esterno si fosse improvvisamente riversata all'interno.
Probabilmente le condizioni di un malato si erano aggravate e adesso era morto – dopotutto, da quando si trovava al sanatorio, era già capitato che qualcuno spirasse nella notte.
All'improvviso, il verso gutturale riecheggiò di nuovo nel corridoio, così forte da fargli credere che qualcosa di mostruoso si trovasse alle sue spalle e fosse pronto a divorarlo.
Ken chiuse gli occhi e cercò di ignorare il brivido di freddo che gli aveva scosso le spalle e stuzzicato la nuca, infine, dopo aver rimesso in ordine le proprie idee, decise di essere realista: qualcuno stava male e forse aveva bisogno di aiuto.


Si era avventurato lungo il corridoio con circospezione, lentamente, rendendosi conto – solo una volta giunto alla fine – che il raccapricciante lamento non proveniva dalle stanze dei malati.
Avendo ormai riacquistato energia nelle proprie gambe, Ken aveva dato un'occhiata anche al piano di sotto, giungendo alle camere delle inservienti.
In fondo al corridoio, la porta della cucina era socchiusa e una flebile luce tracimava dalla fessura, inondando una piccola parte dell'androne; qualcuno ridacchiava e parlava a voce bassa.
Forse perché il lungo girovagare nei lugubri corridoi del sanatorio aveva stimolato in lui una forte urgenza e attrazione nei confronti della luce, Ken raggiunse la porta socchiusa della cucina. La fessura, comunque, non era poi così stretta, e perciò non poté fare a meno di notare una chiazza di sangue sul pavimento illuminato.
Una delle inservienti si era tagliata con un coltello? Ma allora perché ridevano?
Ken strinse le dita attorno alla maniglia, attese ancora qualche secondo e poi, inspirando profondamente, tirò la porta verso di sé, per ampliare leggermente la visuale.
Ciò che gli si presentò davanti gli ricordò il quadro Saturno che divora i suoi figli: una delle inservienti stringeva fra le mani insanguinate un moncherino dilaniato, il viso macchiato di rosso, gli occhi neri come pece puntati verso di lui.


Nonostante il corpo consumato dalla malattia, la paura lo aveva guidato in fretta e furia fuori dal sanatorio, gli aveva suggerito che fra i due vasi di pietra doveva esserci una chiave per aprire il cancello e lo aveva condotto a una magione che si ergeva al centro di un gigantesco spiazzo erboso.
Ancora fuori di sé per la paura, terrorizzato all'idea che quel mostro potesse afferrarlo da un momento all'altro e cominciare a divorargli le spalle, Ken si aggrappò all'inferriata pregna di pioggia e urlò aiuto con tutta la voce che aveva in corpo.
Il secondo grido rimase incastrato in fondo alla gola, dalla bocca sfuggì soltanto un singulto roco e tremante, le gambe cedettero, ma Ken restò aggrappato alla cancellata e finalmente un raggio di luce tranciò l'oscurità profonda, arrestandosi sul suo viso.


«Ci... ci sono dei mostri» Ken biascicò in un timido inglese che il signor Kirishima accolse con un sorriso amichevole.
«In questa casa puoi parlare la tua lingua.»
Due grossi lacrimoni gli solcarono il viso: era sorpreso e sollevato di scoprire che quell'uomo era giapponese come lui, ma nonostante ciò continuò a tremare convulsamente.
«Da dove vieni?»
Ken mormorò a fior di labbra, la propria attenzione improvvisamente rivolta oltre la figura del suo interlocutore, il quale, rendendosi immediatamente conto dello sguardo estatico che il ragazzo stava rivolgendo alle sue spalle, si voltò.
«Ah, Touka-chan! Potresti portarmi dei vestiti puliti?»
Quando Touka lo guardò, Ken si sentì soffocare: era bellissima, con un viso bianco come porcellana ma di una durezza incredibile – le sue labbra sottili, contratte e grinzose, parevano la smorfia di un volto demoniaco scolpito nel ghiaccio. Nei suoi occhi brillava un docile focolare e, allo stesso tempo, una scintilla di crudeltà: era lo sguardo di un animale selvatico che gli intimava di allontanarsi.
«Lui chi è?» aveva un bel timbro di voce, ma era proprio nel suono delle parole che si consolidava la sua inflessibilità.
«Ha detto di venire dal sanatorio» alla risposta del padre, Touka si ammutolì e gli rivolse un'occhiata ancor più furibonda di quella riservata a Ken. «Touka-chan,» il padre la chiamò con dolcezza, come se avesse voluto allontanare da sé lo sguardo selvaggio della figlia «va' a prendere una camicia e un paio di pantaloni da dare a questo ragazzo.»


Il signor Kirishima aveva ascoltato il suo racconto, gli aveva dato dei vestiti puliti e un letto caldo; la figlia, invece, gli era rimasta ostile, mitigando la gentilezza del padre con la propria asprezza.
Forse odiava Ken perché era malato di tisi e avrebbe potuto condannare sia lei che il padre da un momento all'altro, o forse era infastidita dal fatto che spesso lo sorprendesse intento a contemplarla di sottecchi.
A Ken era bastata una più accurata osservazione per capire che quello di Touka era lo stesso viso che tanto spesso aveva scorto oltre la cancellata del sanatorio, il bel volto austero e cupo di cui si era innamorato due o tre mesi prima.
Fin da piccolo aveva sempre dimostrato di preferire i libri alla compagnia di altri bambini, di avere una propensione particolare per l'isolamento, per tanto aveva sempre riscontrato grosse difficoltà nei rapporti interpersonali – specie con il genere femminile – e ora non c'era verso di avvicinarsi a Touka.
La bellezza di lei gli faceva paura, la sua ostilità lo costringeva a starsene a congetturare con un libro spalancato davanti al viso sulla possibilità – fino a quel momento mai realizzata – di prendere l'iniziativa e intavolare una discussione.
Quel giorno, a distanza di una settimana dal precipitoso arrivo di Ken a Stanway House, il signor Kirishima si era dovuto recare a Cirencester per far visita a un amico malato. Da quando si erano ritrovati soli, Touka non aveva proferito parola e Ken aveva interrotto la propria lettura, le braccia rigide, le dita ancora strette alla copertina polverosa di un romanzo.
«Kirishima-san?» la voce era più debole di quel che si aspettava, filtrata da una gola malata risuonò roca e spezzata.
Touka non rispose, ma appuntò l'ago al centro della pezza di stoffa, inducendo Ken a continuare.
«Posso chiedervi perché vi siete trasferiti in Inghilterra?» Ken aveva riposto il libro, la guardava e quasi non batteva ciglio: si stava vergognando come non mai, ma era deciso a stabilire un contatto con l'apatica figlia del suo affabile salvatore.
«Mio padre è stato commerciante di tessuti per alcuni anni, ha fatto fortuna e siccome volevamo cambiare aria e aveva alcune conoscenze a Cirencester abbiamo lasciato il Giappone.»
Ken si augurò che quel momento fosse destinato a protendersi nel tempo: era la prima volta che la sentiva parlare così tanto.
«E siete solo voi e vostro padre?»
«Sì, mio fratello è tornato in Giappone quando la mamma...» all'esitazione di Touka, Ken spalancò gli occhi e schiuse le labbra in un fremito, pronto a dire qualcosa ma immediatamente preceduto dall'altra «tu sei solo?»
Si guardarono solo per un istante, ma a Ken parve interminabile: la scintilla di crudeltà che aveva scorto negli occhi di lei sembrava essersi improvvisamente estinta, lasciando dietro di sé uno sguardo languido e acquoso, un'espressione di pura malinconia che ammorbidiva i lineamenti fisionomici della sua musa e le tinteggiava le gote di un rosa caldo e luminoso.
Come Touka non ebbe bisogno di completare la sua allusione sulla madre, Ken non sentì l'esigenza di rispondere alla domanda appena ricevuta: entrambi condividevano il dolore della perdita e non servivano parole per capirlo, bastava guardarsi negli occhi, leggersi silenziosamente, sfiorarsi con il pensiero.
«Kaneki,» Touka aveva smesso di guardarlo, ma le spalle non erano più rigide, il viso non era più teso «non chiamarmi Kirishima-san
L'empatia era il dono più prezioso a cui due mostri potessero aspirare.


Ken era un ragazzo gentile e intelligente, dava prova di una sensibilità femminile che Touka non era mai riuscita a desumere in altri giovani uomini, e così, perché era diverso da tutti gli altri, lo sentiva un poco più vicino a lei, come se fosse stato il tramite grazie al quale le era concesso sfiorare una natura che non le apparteneva e dimenticare, per un istante, la sua.
Svanita la diffidenza iniziale, Touka aveva cominciato a trascorrere ore interminabili con lui, lo aveva ascoltato leggere e, viceversa, aveva prestato la propria voce a pagine che lui non era riuscito a sfogliare a causa della malattia, aveva vegliato sul suo debole corpo per notti intere, sostituendo di tanto in tanto la pezza bagnata che sempre più frequentemente inghirlandava la fronte pallida di quel giovane troppo sensibile e buono per meritare lo strazio dell'infermità.
«Touka-chan?» c'erano serate come quella, invece, in cui Ken stava bene e Touka riversava tutte le sue speranze nell'idea di una rapida guarigione. «Non hai paura?»
Touka distolse la propria attenzione da un crocchio di stelle appena visibili nel cielo sanguigno del vespro.
«Di cosa?»
«Di vivere vicino a quei mostri.»
Touka continuò a guardarlo e non rispose: a lei faceva più paura vivere vicino a un umano, e l'idea di esserne innamorata e poterlo perdere da un momento all'altro rendeva il tutto ancor più terrificante.


«Prima di morire vorrei poterti amare liberamente, Touka-chan.»


Una diligenza si era arrestata di fronte alla cancellata di Stanway House e Ken aveva riconosciuto, fra le braccia del signor Kirishima, lo stesso involto che spesso aveva visto trasportare fuori dal sanatorio e aveva creduto diretto al camposanto.
Touka aveva cominciato a fargli paura e la malattia aveva iniziato a degenerare, lo aveva condotto in uno stato di delirio febbrile e gli aveva impedito di indagare più approfonditamente sulla natura dei Kirishima, ma l'ignoto non aveva smorzato i suoi sentimenti, al contrario si sentiva indicibilmente attratto dalla sua ospite.


«Amami come io amo te. Amami anche se sono il tuo peccato.»


«Che cosa sei? Un vampiro, forse?»
«I vampiri non esistono.»
«Ma tu e tue padre non siete come me. Siete come le inservienti del sanatorio, vero?»
«Sì.»
«E che cosa siete?»
Touka gli aveva afferrato la mano e Ken non aveva avuto il coraggio di ritrarla.
«Siamo ghoul,» Touka aveva esitato per qualche istante «ci nutriamo di carne umana.»
«Quindi io...»
«Io e mio padre ci nutriamo soltanto di cadaveri.»
«Presto sarò un cadavere, Touka-chan» a quell'osservazione, le dita di Touka rafforzarono la stretta attorno alla mano di Ken, ma senza fargli male.
«Tu non morirai, Kaneki.»
La notte in cui si erano tenuti la mano era stata lunga e buia, e Ken non seppe mai dire, afflitto dai vaneggiamenti causati dalla malattia, se quello che gli aveva confessato Touka era reale, tuttavia era certo che si fosse distesa accanto a lui e avesse condotto con gentilezza il suo viso al suo seno, lo aveva cullato languidamente, disperdendo il letale veleno della paura.
L'umanità era ad anni luce di distanza da lui, Touka solo a un passo. Touka, molto più di chiunque altro, lo faceva sentire adatto alla sua reale natura, non più solo, non più malato.
Quella notte, Ken si addormentò fra le braccia del suo predatore, sentendo di poterla amare senza riserva alcuna.


«Io ti amo, qui e adesso. Ti amo nonostante tutto e ti amerò finché morte non ci separi.»

   
 
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