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Autore: The_Alien    29/12/2015    0 recensioni
Pianeta Terra, anno 2198
La Terra è stata ormai rasa quasi completamente al suolo dalle guerre e dalla crudeltà dell'uomo. Nessun animale, nessuna pianta, quasi nessun essere vivente è sopravvissuto alla strage.
Solo pochi eletti vengono salvati e si rifugiano nella PA, la Piattaforma D'Avorio, una costruzione bianca e imponente che troneggia in mezzo al deserto di macerie e detriti.
Lì le 'Bianche Famiglie', i rappresentanti dei più grandi poteri mondiali, conducono vite oziose e agiate, tra feste e sontuosi banchetti.
Tobin Myles, il "protetto" di un ricco e anziano possessore di miniere, è uno di quei privilegiati.
Viziato, arrogante e sbruffone, fin dall'infanzia è stato cresciuto lontano dai pericoli, dalla miseria, dalla sofferenza, dalla disperazione, che dilagano tra i pochi umani sopravvissuti in quegli scenari da incubo.
Ma una notte accade qualcosa.
Un evento che stravolgerà la sua esistenza per sempre.
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Pianeta Terra, anno solare 2198, 16 giugno
 
Quel giorno la grande fortezza bianca era deserta.
Il tempo pareva essersi fermato: non si udiva nemmeno il minimo rumore, a parte lo scroscio delle immense fontane nell’atrio principale.
I raggi di sole della prima alba filtravano dalle grandi vetrate, che si alternavano ordinate sulle pareti marmoree della costruzione.
L’aria era stagnante, calda e satura d’umidità, nonostante l’ora.
Un ragazzo si aggirava per i corridoi deserti, con passo felpato, quasi come se stesse tentando di fuggire da inseguitori immaginari.
Scivolava silenzioso e senza esitazione davanti alle porte numerate, girandosi, talvolta, per controllare il percorso alle sue spalle, con sguardo attento.
Non dimostrava più di sedici anni, ma la corporatura gracile e la pelle pallida lo facevano sembrare quasi un adulto alle soglie della vecchiaia.
Il suo viso era allungato, magro e leggermente scavato in corrispondenza di zigomi e orbite: tutto ciò conferiva al giovane un aspetto sciupato e malaticcio.
Tuttavia la cosa che attirava maggiormente l’attenzione su quel volto, non erano certamente il colorito cadaverico o le occhiaie scure: erano gli occhi.
Spesso le persone ci ricordano che gli occhi sono lo specchio dell’anima e, forse, in alcuni casi, quest’affermazione può rivelarsi vera.
Sembrava che cristallo liquido sostituisse l’iride del ragazzo: quegli occhi erano così chiari e luccicanti che, per un momento, chiunque si ritrovasse a fissarli avrebbe potuto dire di trovarsi davanti ad una lamina d’argento.
Al contrario, i capelli, che incorniciavano la fronte, erano ricci e arruffati, così scuri che non sembravano appartenere alla stessa persona.
Adesso il ragazzo si muoveva più velocemente, quasi correndo.
Sembrava non curarsi dell’afa soffocante, però il suo corpo, evidentemente, la percepiva.
I morbidi ricci erano zuppi di sudore, così come la felpa logora che indossava, con le maniche arrotolate all’altezza del gomito.
Un piccolo bracciale, che portava al polso sinistro, tintinnava ritmicamente, ogni volta che il piede toccava terra.
Su di esso vi era la scritta: “T.M-713”.
Tobin Myles, settecentotredicesimo umano ritrovato vivo tra le macerie, poco dopo Grande Apocalisse.
Uno dei pochi fortunati, gli ripeteva sempre Samuel.
Il ragazzo si fermò di colpo: davanti a lui, alla fine del corridoio, troneggiava una porta più grande di quelle che aveva superato in precedenza, priva di numero.
Dall’interno proveniva un brusio sommesso, attutito, evidentemente, dalle spesse pareti.
Si raggomitolò in un angolo, appoggiando l’orecchio al muro, nel tentativo di cogliere qualche stralcio di conversazione.
 
Al centro della stanza senza numero troneggiava un tavolo circolare, di legno scuro.
Attorno al tavolo erano seduti alcuni anziani, impegnati in un’animata discussione.
Delle sedie erano state disposte lungo il perimetro della sala, in modo un po’ caotico.
Alcune erano vuote, mentre altre erano occupate da adolescenti non più grandi di Tobin.
A differenza di quelli che presumibilmente erano i loro genitori, parevano molto disinteressati e annoiati.
O almeno, lo sembrava la maggior parte di loro.
In un angolo stava seduto un giovane dai capelli rossastri, che teneva gli occhi fissi su un uomo, quello che teneva in pugno il dibattito.
«Dobbiamo rassegnarci!– sbraitava il vecchio, con la faccia paonazza –Nemmeno con tutto il denaro che possediamo, riusciremmo a compensare la mancanza di tutte queste risorse!»
Teneva in mano un plico di fogli, che agitava furiosamente, per farsi aria: su di essi erano stampati grafici e tabelle di ogni genere, incorniciati da appunti disordinati.
All’interno della sala si poteva percepire la tensione.
Il silenzio era opprimente.
Un uomo calvo, che sedeva esattamente all’altro capo della tavola, si mosse leggermente prima di parlare.
«Samuel, siamo sopravvissuti per anni qui dentro…– ribatté con tono fermo, socchiudendo gli occhi e abbandonandosi sullo schienale imbottito – Abbiamo tutto ciò che ci necessita. Compenseremo questa mancanza in qualche modo. Non ti devi turbare più di tanto.»
Samuel sgranò gli occhi, dischiuse la bocca, come per dire qualcosa, ma la richiuse immediatamente.
La sua espressione tradiva un certo disappunto, ma tacque e si rilassò sullo schienale.
A parlare stavolta fu un’anziana signora, l’unica donna della sala, dai tratti asiatici.
Dalle profonde rughe che le solcavano la fronte si poteva intuire che era molto vecchia: lo sguardo era stanco e gli occhi lattiginosi.
«Nicholas, per quanto mi costi ammetterlo, Samuel non ha tutti i torti. Da giorni la mensa è costretta a razionare i pasti. Quanto ancora potremo durare in questo modo? Un mese? Due? Sempre che gli operai non inizino a farsi domande, come è già successo in passato… I nostri magazzini si svuotano ad una velocità impressionante e metà delle nostre provviste sono andate perdute nell’esplosione della settimana scorsa. Le nostre serre non riescono a rispondere alle esigenze di tutti gli abitanti della PA, anche se è difficile da ammettere…»
Nicholas parve sorpreso.
«Oh, Angelique… Tu sei l’ultima persona che avrei pensato di trovarmi contro.­ – si passò nervosamente la mano sulla nuca, imperlata di sudore – In ogni caso, miei signori, ci sono altri problemi, problemi che meritano una soluzione immediata… Di questo piccolo inconveniente discuteremo tranquillamente la settimana prossima.
Si sa già la causa del danno all’impianto di condizionamento?».
Angelique e Samuel si scambiarono uno sguardo carico di apprensione. Erano visibilmente preoccupati che il loro punto di vista fosse stato liquidato così velocemente.
Nel frattempo un ometto basso e tarchiato era emerso dall’ombra.
Allungò a Nicholas un documento e rimase in attesa.
Non somigliava al resto dei presenti nella sala: era sporco e mal rasato, portava abiti logori e puzzava di fumo.
Nicholas esaminò attentamente il foglio, soffermandosi su alcune righe.
Quando finì di leggerlo lo passò al collega che sedeva di fianco a lui.
«Quindi qualcosa ha danneggiato i cavi all’esterno dell’edificio?»
Samuel si intromise nella conversazione: «Qualcosa, certo… o qualcuno».
Nicholas lo ignorò e così fece anche l’operaio.
L’ometto sussultò: «Sì, mio signore… Tuttavia, potrebbe trattarsi anche di un effetto collaterale della recente esplosione…»
«In quanto sarà riparato il guasto, Kurt?»
«Gli operai sono già a lavoro, signore. In meno di tre giorni le ventole riprenderanno a girare senza intoppi.»
L’operaio fece scorrere lo sguardo su tutti i signori che si facevano aria con plichi, fogli e giornali.
«Benissimo, Kurt, sei libero di andare. In futuro faremo in modo di evitare questi incidenti spiacevoli.»
Finito di parlare, Nicholas fece un sorriso all’ometto, che si congedò con un piccolo inchino.
 
Dall’altro lato del muro, il cuore di Tobin fece un tuffo.
Si guardò intorno, alla disperata ricerca di un nascondiglio.
Se fosse stato visto…
La maniglia si abbassò e la porta si aprì, cigolando.
Il ragazzo era impietrito dalla paura.
Quando Kurt apparve sulla soglia, indugiando, fece l’unica cosa che sembrava avere un minimo di senso: fissò l’uomo minacciosamente e si portò l’indice sulla labbra.
Subito dopo mimò con le labbra la frase: “Non immischiarti in faccende che non ti riguardano. Evita i problemi che potrei crearti.
«C’è qualcosa che non va, Kurt?– chiese Nicholas da dentro, con voce melliflua – Cosa stai guardando?»
«Niente, mio signore, un piccolo giramento di testa.»
L’operaio sorrise all’uomo, chiudendosi la porta alle spalle, e rivolse un occhiolino a Tobin, mentre si allontanava lungo il corridoio.
Il ragazzo riprese a respirare. Si accasciò sul muro, ringraziando che il suo piano avesse funzionato.
Dentro si levò nuovamente un brusio.
 
«Miei signori, a quanto pare, nel giro di qualche giorno ci libereremo di questa calura infernale!»
«Nicholas sei veramente così cieco da non vedere?– domandò stizzito Samuel – Due
incidenti di questa portata a una manciata di giorni di distanza? Non è cosa da trascurare, dannazione! È un chiaro segno di sabotaggio da parte dei…»
«Taci, Samuel!»
Nicholas era livido in volto e tremava di rabbia.
Stringeva così forte i braccioli della sua poltrona che le nocche erano sbiancate e le unghie erano affondate del rivestimento nero.
Gli occhi, però, erano colmi di paura e incertezza.
«Evita almeno di tirare l’argomento in pallo in presenza dei nostri figli!– continuò con voce stridula, chiaramente alterata –Sono così ingenui…»
«Quindi sarebbe questo il tuo intento, Nicholas? Fargli credere che non si tratta di un problema da affrontare al più presto e lasciarli vivere allo scuro di tutto, finché un giorno non andranno incontro alla nuda verità?»
«Se questo significa proteggerli, sì, senza indugio»
Angelique si schiarì la voce, interrompendo la discussione dei due uomini.
Sul suo volto e nella voce si percepiva una sfumatura di stanchezza e rassegnazione, come se avesse assistito a quella scena migliaia di volte.
«Se mi permetti, Nicholas…– iniziò, con calma e fermezza – Vorrei solo farti presente che sono qui apposta per questo: venire a conoscenza dei problemi, in modo da poterli fronteggiare meglio un giorno, quando verrà il loro turno di sedersi attorno a questo tavolo.»
«In questo caso non si tratta di un problema, ma di una mera congettura, Angelique!»
L’uomo, tuttavia, non pareva totalmente sicuro di quello che era appena uscito dalle sue labbra, tanto che, finita la frase, ebbe un tremito, quasi come se una parte di lui cercasse di ribellarsi.
«La vita non può essere sempre un alternarsi di certezze…»
La voce della donna risuonò nella stanza: pareva una sorta di avvertimento da parte di un’entità superiore.
Samuel, intanto, si rigirava nella mano un frammento di carta straccia, strappato dal suo blocco per appunti.
Era madido di sudore e la camicia gli si incollava al torace.
 Il suo volto aveva assunto un colorito rosso acceso, ma manteneva comunque un’aria cupa e pensierosa.
Sembrava sul punto di crollare, psicologicamente e fisicamente.
E poco dopo, così fu.
«Miei signori, non ho intenzione di ascoltare un minuto di più questo dibattito delirante– annunciò, mentre si alzava goffamente dalla sua poltrona – Prenderete una decisione senza di me, vi porgo le mie scuse.»
Si avviò deciso verso la porta della grande sala per le riunioni, seguito dagli occhi silenziosi di tutti i presenti.
Proprio quando si trovava sulla soglia, si bloccò, voltandosi verso Nicholas.
«Questa fortezza crollerà come se fosse cristallo, se ho indovinato quel che ci aspetta…»
Detto questo girò la maniglia e sparì nel corridoio.
 
Tobin, dall’altro lato, fu colto di sorpresa.
All’apparizione dell’uomo si fece sfuggire un sussulto terrorizzato e tentò di fuggire in una delle stanze adiacenti.
Ma fu bloccato da una grande mano che lo prese per un braccio.
Il ragazzo si voltò, in faccia una maschera di terrore: il suo peggior incubo si era appena avverato.
L’uomo lo scrutò con espressione indecifrabile e, a bassa voce, domandò: «Tobin, ragazzo mio, cosa ci facevi qui?»

 
   
 
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