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Autore: Mue    31/12/2015    2 recensioni
La partenza di Dana per l'università è imminente quando il padre le comunica di aver sventatamente venduto l'appartamento in cui vivono a un vecchio e ricco impresario di città.
Dana, caustica e dall'arrabbiatura facile, ha così l'occasione di scontrarsi con Max, il lusinghiero, contraddittorio e spocchioso nipote del suo nuovo proprietario di casa.
Il loro incontro sarà solo l'inizio di una serie di vicende e personaggi che li porteranno a ritrovarsi e scontrarsi di nuovo sullo sfondo magico e affascinante di Venezia.
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«Salve, Dana. Tutto bene?»
Dana aprì la bocca. Poi la richiuse. Poi la riaprì. «Max?»
«In carne, ossa e tutto il resto, come puoi constatare» rispose lui con un sorriso scintillante.
Il Vetril, pensò subito Dana, senza alcuna logica.
Lo squadrò da cima a fondo, ancora un po’ stordita. «In carne, sigarette e Armani, vorrai dire» osservò critica.
«No, Versace.»
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Buongiorno a vecchi e nuovi lettori!
Diverso tempo fa decisi di togliere e sistemare tutte le storie originali che avevo sul mio profilo Efp. Oggi, a distanza di ormai cinque anni, ho deciso di riproporne una riveduta e corretta, quella a cui sono più affezionata.
È dedicata ai vecchi amici di allora e tutte le persone che mi hanno ispirata e spinta a scriverla, alla mia adorata Ca' Foscari, che allora come oggi è tra le esperienze più belle che ho avuto e ovviamente alla meravigliosa Venezia, culla di emozioni senza tempo, dove si respira magia.
Buona lettura e buon 2016 a tutti!
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I.

DANA





«Stai scherzando, vero papà?!»
Dana era sconvolta. Anzi, di più: era agghiacciata. 
«No, non sto scherzando», rispose pacato l’uomo.
«Ma... ma non può essere vero! E’ assurdo!»
«Perché mai? Da che mondo e mondo le trattative immobiliari si son sempre fatte», ribatté tranquillamente lui. Sedeva sulla consunta poltrona anni settanta di pelle marrone ostentando calma ma oltre il giornale che si ostinava a tenere davanti per coprirsi la faccia Dana gli vide arrossire la calvizie tra i lati di grigi capelli cespugliosi. 
«Questa è la nostra casa!» affermò lei a braccia incrociate. «E’ da diciotto anni che ci abitiamo. Da quando la mamma è morta. Non puoi dire sul serio!»
«Sì, invece. La casa è già venduta e l’affare concluso.»
«Ma non possono sbatterci fuori così, su due piedi!», replicò Dana testardamente.
«Stamattina è passato Raffaeli con i documenti e la sua solita gentilezza. E io ho firmato.»
«Hai acconsentito a farci finire per strada subito?» esclamò lei incredula. «Senza chiedere nulla a me ed Elia?» 
«A me l’ha chiesto» fece suo fratello dalla poltrona opposta, quella ricoperta dalla fodera rattoppata a fiorellini di zia Luisa. «E mi va benissimo così.»
«Nessuno ti ha interpellato, disgraziato!» gli ringhiò Dana, in piedi in mezzo alla stanza ancora a braccia conserte; ossuta, molto più bassa del fratello e molto più esile del padre, aveva però il carattere più cocciuto della famiglia. «Che cosa avrebbe detto la mamma se fosse ancora viva?!»
«La mamma non avrebbe fatto una gran tragedia nel lasciare questo appartamento», disse il padre da dietro il giornale. «Diceva sempre che c’era una fastidiosa puzza di gas quando apriva la finestra e il vento tirava da nord.»
Dana cercò di non scomporsi, indignata dalla scarsa sensibilità dell’unico genitore rimasto in vita. «Le previsioni meteo non prevedono tramontana per i prossimi sessanta eoni.»
«Dana, cerca di ragionare...»
«Io ragiono benissimo, papà, e ti dico che vendere casa nostra per della puzza di gas che si sentirà sì e no tre volte l’anno è una scemenza. O sbaglio?»
Il ragionamento filava che era una meraviglia ma suo padre non era tipo da lasciarsi convincere così facilmente. Scosse la testa alzando gli occhi al cielo. 
Dana si voltò verso il fratello, intento a fumare una sigaretta ammirando il soffitto. «Elia, digli qualcosa anche tu! Non puoi voler essere sbattuto fuori di casa!»
Il ragazzo abbassò gli occhi chiari e i lineamenti felini -lui e Dana avevano in comune solo i capelli rossastri, le migliaia di lentiggini e l'espressività del padre- e sbuffò una nuvoletta di fumo. 
«Ma non dovevo tacere?»
Dana gli lanciò uno sguardo torvo.
Elia scrollò le spalle. «Che dovrei dire? Non vedo come la cosa possa interessarmi.»
Dana si stizzì: ma perché proprio lei doveva avere un fratello così snaturato? «Ti rendi conto di quello di cui stiamo parlando, o il tuo apparato neuronale sta andando in cancrena insieme ai tuoi polmoni?»
Elia sbuffò un’altra nuvoletta di fumo. «Tu ti fai troppe paranoie mentali, sorellina! E anche se papà vende la casa? Ne comprerà un’altra, che problema c’è? Non andremo certo a vivere per strada.»
«A-ehm!», si schiarì la voce il padre. «In effetti non è proprio così.»
Dana e suo fratello si voltarono verso di lui, perplessi.
«Come sarebbe a dire che non è così?», fece Elia brusco. «Non vorrai mica dire che ci molli davvero per strada come due barboni?»
«No, niente affatto», rispose il padre scuotendo la testa. «Ma non ho abbastanza soldi per comprare un appartamento per tre persone. Soprattutto ora che sono in pensione.»
Il signor Maniani era andato in pensione da circa un anno dal suo onorato lavoro di meccanico, vendendo officina e attrezzi e ritirandosi per sempre nella tranquillità del condominio di Via Rovere. E per tranquillità, qui, s’intendeva proprio quella con la «T» maiuscola, perché il condominio dove abitava non aveva alcun inquilino a parte lui e i suoi due figli, o, almeno nessuno di più consistente delle decine di gatti, di scoiattoli e di ricci che vagavano nel giardino dell’edificio e nel parco lasciato alle ortiche che si estendeva sul retro della casa.
«Come sarebbe a dire che non hai abbastanza soldi? Per cosa vendi l’appartamento, lo baratti con un lingotto d'oro?», chiese Dana, acida.
«No, ma in questo momento i prezzi di vendita sono bassi e quelli di acquisto altissimi, perciò non ne ricaverò un granché; o, almeno, non abbastanza per compare un appartamento per tutti e tre.»
Dana imprecò. 
Quella era una delle calamità cosmiche del vivere nei paraggi di una località ad alto tasso turistico milanese in fuga dalla metropoli come la loro cittadina. Anche il più schifosamente ricco degli impresari lombardi in cerca di relax si sarebbe strappato i capelli a vedere il prezzo di un appartamento della zona.
«E allora perché vuoi vendere?», domandò Elia senza capire.
L’uomo aveva il volto serio. «Perché ora che anche Dana deve andare all’università e deve trasferirsi a Venezia, devo trovare i soldi per pagarvi gli studi. E gli alloggi.»
«Lavoreremo, papà!», dichiarò Dana. «Non c’è bisogno che paghi tu, vero Elia?»
«Ehm», fece quest’ultimo quando fu interpellato. «Dana, hai idea di quanto costi una retta universitaria?»
Dana gli mandò un’occhiataccia fulminante. «E allora?!», ringhiò in tono minaccioso.
«Tuo fratello ha ragione, Dana; la vita all’università costa tantissimo. E non è solo la retta. Dovrai pagare acqua, luce, gas e tutto quello che ti serve per sopravvivere.»
«La cui quantità, nel caso di voi donne, aumenta esponenzialmente rispetto allo standard maschile», aggiunse saggiamente Elia.
Dana si sfregò un pugno chiuso e quello bastò per farlo tacere. Elia sapeva bene che sua sorella, quando si arrabbiava davvero, poteva diventare aggressiva quanto un varano inferocito.
«Quindi», riprese il discorso il padre, ignorando l’intervento di Elia, «abbiamo bisogno di soldi, non di immobili. E Raffaeli ci offre molti soldi.»
«Papà, se mi avessi detto di averne così tanto bisogno mi sarei iscritta all'università l'anno prossimo e avrei trovato un lavoro» protestò Dana.
«No, no» replicò suo padre mettendo finalmente via il giornale e massaggiandosi la testa. «Voglio che studi ora, Dana. È un tuo diritto, così come lo è per tuo fratello. E poi quando sarete andati via e non avrò nessuno per la maggior parte dell'anno a casa che cosa farò solo in questo grande appartamento? Senza contare che questo condominio ormai è abbandonato da molti anni, senza manutenzione e potrebbe crollarci addosso da un momento all'altro. No, no, preferisco avere i soldi, e investirli per voi, ragazzi.»
Dana abbassò lo sguardo e meditò per un po', sempre a braccia conserte. Poi chiese aspra: «Ne vale davvero la pena, papà? Quanti soldi riceverai? Saranno abbastanza?»
«Sono un bel po'. Sì, credo abbastanza per i prossimi anni.»
La nota adorante nella sua voce fece capire a Dana il «bel po’» poteva fare loro davvero comodo.
«Sei proprio deciso?» borbottò, scontenta.
Il padre annuì. «Sì. Quei soldi ci servono, a me e, soprattutto, a voi. Quindi, Dana, è inutile che fai tante storie. Ormai ho già venduto, e Raffaeli ci ha concesso di stare qui finché tu ed Elia non ripartirete per l’università. Io troverò una nuova casa da qualche parte nei dintorni. Lui, nel frattempo, farà partire i lavori di ristrutturazione nel resto dell’edificio senza disturbarci.»
«Che magnanimo!», bofonchiò Dana.
Suo padre le rivolse uno sguardo severo. «Cerca di fartelo piacere, perché domani torna a concludere e a visitare la casa con il geometra. E penso che ci sia anche suo nipote.»
«O-oh, sorellina, fossi in te ne approfitterei. Un bel rampollo d’alto borgo milanese!»
Dana gli sferrò un calcio in uno stinco, e la discussione si chiuse con Elia che sfoggiava la sua colorita collezione di insulti diretti alla sorella.
 
 
La mattina dopo Dana non aveva ancora smaltito la rabbia.
A dire il vero della casa si era lamentata almeno dieci volte più di suo padre ed Elia messi insieme negli anni passati. Quello che la infastidiva, però, era la transazione segreta di suo padre senza dirle niente. Insomma, era anche casa sua, no? Era adulta e maggiorenne, poteva avere almeno una lieve nota di voce in capitolo. Invece no, segretezza totale, neanche dovessero nascondersi dal KGB o, peggio, dalla guardia di finanza.
Sbuffò sul cespuglio mal potato di rose selvatiche che stava innaffiando e in quel momento suo fratello si affacciò dall’angolo e la raggiunse.
«Bel completino», sghignazzò e schivò agilmente la paletta da giardinaggio volata al suo commento.
Dana, contrariata, andò a raccoglierla pulendosi una mano nella salopette di jeans sdruciti che un tempo era stata di sua madre. «Sicuramente sono più vestita di quelle ragazzine a cui vai dietro.»
«Che c'è, sei invidiosa?»
Dana non rispose. «Dove hai preso quel cappello?», chiese, scorgendo un’entità nuova sulla testa del fratello: un borsalino elegante, grigio e impeccabile che, a suo parere, stonava alquanto sulla zazzera spettinata di Elia. Dana aveva un’insana quanto sviscerata passione per ogni genere di copricapo: l'unica mania che le rendeva tollerabili i pomeriggi di shopping a cui era trascinata dalle amiche.
Elia si toccò il copricapo con un sorriso astuto. «Regalo per papà.»
«E da parte di chi?», chiese Dana, bramosa.
«Raffaeli», fece lui prontamente.
Dana strabuzzò gli occhi. «E’ qui?»
«E' arrivato qui mezz’ora fa ed è appena andato via, ma tu sei troppo intenta a smaltire il broncio per accorgertene. C’era anche suo nipote», la informò.
«Ah sì?», disse lei incurante. «E che tipo è?»
Elia sorrise. «Un tipo fuori dalla tua portata, te l’assicuro!»
Dana scrollò le spalle e proseguì imperterrita la sua occupazione. «Perché non ti rendi utile e poti un po’ questo povero cespuglio, che sembra appena uscito da un film dell’orrore?»
«A che serve? Tanto non è più nemmeno casa nostra!»
«E questa ti sembra una buona scusa per lasciar andare tutto a catafascio?», si stizzì lei.
«Bah!», rispose lui conciso. Ecco, quella era una delle sue risposte preferite: «Bah!»; ottimo modo, per un pigro al cubo del suo genere, di disimpegnarsi dalle domande fastidiose.
Dana gli piantò in mano senza troppi complimenti la canna dell’acqua. «Almeno innaffia, rammollito!»
«Vammi a compare le sigarette ed eseguo, generalessa.»
Dana si accigliò. «Non sono mica la tua cameriera!», ribatté.
«Non sono mica il tuo giardiniere!», sbottò lui lasciando cadere la canna dell’acqua con mala creanza.
Il fiotto d'acqua inzuppò un anfibio di Dana fino alla suola prima che lei riuscisse a raccoglierla e indirizzarla altrove. «Guarda che hai fatto, imbecille!»
Elia scrollò le spalle. «E allora?»
Dana strinse i denti e gliela tese di nuovo. «Okay. In cambio» con un gesto noncurante, gli strappò il capello e se lo calcò sulla testa, «prendo questo.»
Elia sbuffò prendendo la canna dell'acqua. «Vedi appena torni se non me lo riprendo!»
Dana, del tutto incurante della minaccia, uscì dal giardino e percorse la strada di asfalto dissestato che portava alla cittadina sottostante. Da una delle poche case sulla via di campagna dove abitava la salutarono due ragazzine più giovani del suo liceo che prendevano il sole in giardino, e non appena passò oltre le sentì bisbigliare malevole. «Ma come si concia...!»
Dana era perfettamente consapevole di essere vestita degli abiti fuori moda della madre, con un anfibio bagnato che squittiva, i capelli raccolti alla buona in una corta treccia; e pure che la pelle abbronzata dell'estate le faceva saltar fuori ancor più lentiggini facendola quasi sembrare sfigurata da qualche dermatite; ma si sentì comunque perfettamente autorizzata a inserire le due nella sua personale lista nera e, memore che quelle mocciose solo una settimana prima l'avevano riempita di moine per farsi dare il numero di telefono di Elia, si appuntò con cura la risposta che avrebbe dato loro al prossimo tentativo di estorcerle informazioni su suo fratello.
Il bar all’angolo era in periferia, uno di quei locali con l'arredamento kitsch di una volta, le pareti mai ritinteggiate, i piattini sbeccati e dove l’età media degli avventori superava i settant’anni -eccetto il sabato sera. Come da previsione, ai tavolini disposti davanti all’ingresso c’erano i soliti quattro vecchi intenti a giocare a carte e raccontarsi barzellette dell’era giurassica; alzarono un attimo lo sguardo verso Dana, un paio salutarono con un cenno e uno si avventurò a chiedere se fosse vera la diceria che suo padre vendeva casa.
Giurerei che tutto il paese sia venuto a saperlo prima di me, pensò amareggiata scrollando le spalle in risposta ed entrando nel bar con le mani sprofondate nelle tasche.
Dentro, il locale era ombroso, con un sottofondo di musica vecchia di cinquant’anni e il ronzio fastidioso della vetrinetta dei gelati piuttosto datata. Dana nemmeno si voltò a vedere chi ci fosse ma andò dritta al bancone.
«Ehi, ciao!», fece, individuando il barista che le dava le spalle, intento a versare un espresso.
L’uomo si voltò. «Ciao Dana. Che ti serve?»
«Sigarette», rispose con un sorriso.
L’uomo annuì. «Elia, vero? E tu? Non vuoi niente?»
Dana posò lo sguardo sui gelati. In effetti il suo stomaco stava brontolando tanto da far impallidire un tirannosauro. «Beh, un gelato magari me lo prendo…»
«Gusto?»
«Solito», fu la risposta. 
L’uomo sapeva benissimo che l’unico che le piaceva era il cioccolato. Le servì una porzione abbondante mentre lei frugava le tasche raccattando un po’ di monete. «Bel cappello», si complimentò quando la ragazza lo pagò.
Dana sorrise, si guardò intorno alla ricerca di un posto dove sedersi e vide un tizio che la stava guardando dalla saletta fumatori oltre il bancone. 
In realtà "tizio" era una parola generica per lui. 
Molto generica, si corresse Dana guardandolo meglio. 
Troppo generica, decise infine, quando lo ebbe visto bene. 
Perché il tizio in questione era incredibilmente biondo, incredibilmente elegante, incredibilmente bello e, soprattutto, incredibilmente fuori posto.
Dana valutò che dovesse avere più anni di suo fratello, ma di sicuro meno di trenta. E anche che dovesse avere molti più soldi di suo fratello, e anche di lei, suo padre e chiunque conoscesse messi insieme, almeno a giudicare dal guardaroba che gridava io-costo-come-due-anni-di-stipendio-di-un-lurido-operaio. E anche che doveva esserne ben consapevole, considerata l’espressione da snob che aveva dipinta in faccia e che non le piacque neanche un po’. La cosa più strana, però, era un’altra: che ci faceva lì, nell’ultimo circolo dei pensionati terminali, un tipo così?
Non appena si accorse che Dana lo stava fissando, il ragazzo in questione le sorrise da dietro la cortina di fumo della sua sigaretta. E, ovviamente, un tizio così non poteva avere un sorriso comune, vero? No, due file di denti così dritti che sembrava che madre natura dovesse aver usato squadra e righello a farli, e così scintillanti che nemmeno se fossero stati lucidati con il Vetril avrebbero potuto brillare di più.
Dana non rispose: una sana educazione paterna le aveva inculcato che da gente così era meglio guardarsi spalle, schiena e fondoschiena. Sì, fondoschiena, quella era una delle parti più esposte a sguardi, e non solo, di gente di quel calibro. Tirò dritto verso il primo sgabello che trovò e si mise a gustare il gelato in santa pace... pace destinata a non durare a lungo, giacché proprio in quel momento dal bagno se ne uscì un altro personaggio fuori posto almeno quanto il primo, a parte l’età, che magari poteva concordare con quella media del locale.
L’uomo in questione aveva capelli bianchi, abiti che Dana aveva visto indossare solo al matrimonio di sua cugina di secondo grado tre anni prima, e scarpe che squittivano sul pavimento sporco tanto erano rigide; e anche lui, non appena la vide, la fissò e poi sorrise.
Dana s’infastidì: un conto è se ti sorride un ragazzo, un altro se lo fa uno che avrà si e no il triplo dei tuoi anni.
«Ciao», disse l’uomo.
E cercava anche di attaccare bottone!
«Buongiorno», salutò, rigida.
«Tu sei la figlia di Maniani o sbaglio? Sono Raffaeli», aggiunse, vedendo la sua espressione sospettosa.
«Ah, sono io», rispose lei senza abbandonare l’aria diffidente.
«Sono felice di conoscerti, prima non ti avevo visto», proseguì lui tendendo la mano.
Dana gliela strinse, consapevole che aveva le dita macchiate di cioccolato. «Mi dispiace, ero in giardino.»
«Sì, tuo padre ha detto che probabilmente stavi facendo giardinaggio. Ah, e questo è mio nipote, lo conosci?», aggiunse, indicando il tizio incredibilmente biondo, bello, elegante, eccetera seduto lì vicino.
«No», rispose Dana laconica.
Il ragazzo si alzò e le fece di nuovo un sorriso da Vetril. «Piacere, Massimo», si presentò allungando anche lui una mano.
Almeno era educato. Dana si alzò a sua volta. «Dana», disse semplicemente, dandogli la sua, sempre macchiata di cioccolato. 
«Bel cappello», aggiunse poi il ragazzo, con un cenno.
Dana sorrise. «Già, è nuovo.»
Anche il ragazzo sorrise. «Mi pareva.»
Suo zio -o nonno, Dana non era ancora riuscita a capire il loro grado di parentela- s’intromise. «E’ tardi, Max, dobbiamo tornare in albergo.»
«State in albergo?», chiese Dana.
Massimo annuì. «Al Torrelago.»
«Bel posto», si complimentò lei. Un quattro stelle era troppo banale, eh?
«Già», annuì Raffaeli. «E’ stato un piacere conoscerti. Se tu o tuo fratello voleste venire a trovarci vi aspettiamo.»
«Grazie, glielo dirò. Arrivederci.»
«Arrivederci», rispose Raffaeli, uscendo.
«Ciao Dana», la salutò Massimo.
«Ciao Massimo», rispose Dana, sempre sul chi vive.
Lui sorrise. «Max.»
«Max», ripetè Dana sorridendo a sua volta. 
Beh, forse non era così male. Certo, indiscutibilmente un tiratissimo, corteggiatissimo e ricchissimo rampollo di famiglia borghese, ma non sembrava antipatico. Forse poteva farci amicizia. Forse. Guardandosi bene spalle, schiena, fondoschiena, certo, ma forse sì.



Note:
Spero che l'inizio vi abbia incuriosito.
So che l'inizio possa parervi scontato, con il solito bello, ricco e snob e la ragazza alternativa, solitaria e controcorrente ma vi assicuro che Dana e Max vi offriranno una storia tutt'altro che melensa e senza colpi di scena ;)
I personaggi di questa storia sono tutti fittizi e all'epoca in cui la scrissi nella mia giovanile ingenuità credevo di aver creato persone dai tratti strani, tavolta esagerati o impossibili, poco compatibili alla vita reale. Oggi, dopo aver conosciuto esemplari della specie umana di tutti i tipi, mi sono ricreduta e dò ragione a chi dice che la realtà supera di molto la fantasia. Per fortuna. O forse no?
Lasciatemi la vostra opinione, sono curiosa di sapere cosa ne pensate voi. A presto!

Mue
 
   
 
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