Storie originali > Epico
Ricorda la storia  |      
Autore: theuncommonreader    06/01/2016    4 recensioni
Durante il volo eterno a cui il Fato lo ha condannato, re Tereo viene risucchiato da una forza misteriosa, che gli restituisce l'aspetto umano e lo precipita in un fiume di lava. Il dolore dell'acqua di fuoco sulla pelle è una sofferenza indicibile - eppure, miracolosamente, si ritrova vivo.
Le sue ali l'hanno guidato oltre le Colonne d'Ercole, nella sconosciuta immensità del regno dei Morti: un luogo dove chi vive non muore e chi è morto non vive; un luogo la cui Regina ama ricevere ospiti con una storia da raccontare.
---
"... Capita a volte che i Vivi ci facciano visita, per accidente o per volere del Fato.”
Quello non poteva che essere un segno che la sua causa era giusta.
“Di certo, allora, è il Destino che mi ha guidato da te per sottoporti le mie circostanze luttuose. Come ora faccio, sperando di trovare in te la pietà che altrove mi è stata negata.”

---
Partecipa al Contest "Bangsian Fantasy" indetto da grazianaarena e Najara87 e a "Cose Sbagliate" di Ynis sul forum di EFP.
Genere: Dark, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
la tomba del figlio

La Tomba del Figlio

 

 

 

 

 

 

L’urlo nero che gli schiacciava il petto spalancò la gabbia delle sue costole, si inerpicò su per la sua gola e da lì fuggì, andando a confondersi con la verde oscurità del volto malato di Urano [1].

Quando, d’improvviso, il suo corpo d’uccello si era mutato restituendogli l’antico aspetto, Tereo aveva creduto che la sofferenza provocata dalla fragile, sottile ossatura di bestia, che si frantumava e rimodellava al disotto della pelle ammantata di piume, dei muscoli, che si allungavano e tendevano su di essa, gli avrebbe levato il senno; pure tanto intensa, la rimpiangeva amaramente ora che l’acqua di fuoco si era chiusa sul suo capo come il sigillo di un’anfora di dolore.

Trascinato da una lenta corrente, il calore disumano che avrebbe dovuto devastargli la carne, bruciargli le ossa, lo lambiva soltanto, spietato, insinuandosi negli occhi strizzati, tra le labbra ancora spalancate nel grido.

Attorno a sé, udiva altri.

Prima solo vaghe strida lontane, poi, quando nel patimento ritrovò una briciola di ragione, più chiaramente: gli gridavano nelle orecchie immonde maledizioni senza parole, non troppo differenti da quell’unico suono ininterrotto che usciva da sé.

Li cercava alla cieca, questi altri sventurati che condividevano la sua sorte: le braccia ancora spalancate come ali, impacciate dal pesante mantello che avrebbe dovuto essere polvere eppure non lo era, allungava le dita per aggrapparsi a qualcosa, a qualcuno, senza che esse potessero trovare appiglio.

Si sentiva cozzare contro pietra spigolosa, ma le membra, nello strazio, erano addormentate: come se un esercito di formiche le percorresse in lungo e in largo, sotto il dolore cocente gli pareva di essere quasi che il fuoco lo solleticasse.

Ogni respiro era un singhiozzo di agonia, e l’aria stessa pareva bruciarlo da dentro. Si sentiva sciogliere come si scioglieva il grasso della bestia allo spiedo, si sentiva mangiare da quell’acqua in fiamme – eppure, non moriva.

 

 

Durò una vita, o forse più d’una.

In quella tortura senza fine, il tempo non aveva senso. A malapena esisteva lui: di vero c’era il dolore solamente, e il disperato pulsare del cervello nel cranio; il movimento convulso degli arti, il tendersi senza speranza delle dita.

Andò avanti a lungo e avrebbe continuato per sempre, ne era certo con quel poco che gli restava della ragione; fino a che, inaspettatamente, finì.

Finì con uno spunzone di roccia, reso viscido dal liquido ribollente che lo circondava da ogni parte, e il suo pugno chiuso su di esso. La lotta contro la corrente, lenta ma decisa a trascinarlo con sé, fu quella di un animale contro una vita peggiore della morte, tutto istinto e niente senno.

A malapena capiva di stare arrampicandosi su una parete, il corpo pesantissimo e le dita che tremavano violentemente. Per tutto il tempo urlò quell’urlo che non si era mai arrestato, la mente piena di un solo bisogno: fuggire.

 

 

Si accorse di essere riuscito a trascinarsi fuori dal fiume di fuoco solo quando il corpo toccò la roccia asciutta, misericordiosamente gelida contro la pelle martoriata – ma integra.

Sotto la guancia cotta dalle fiamme, anche la nuda pietra gli parve il più soffice dei guanciali.

 

 

Si risvegliò che, contro ogni previsione, era vivo.

Perlomeno, tale gli pareva di essere, anche se ogni respiro era un rantolo, ogni movimento, un gemito di dolore.

Cessò di lottare contro se stesso e il proprio corpo, e si limitò a concentrare le forze nel sollevare le palpebre serrate. Le ciglia erano come un filo sottile che le cuciva assieme.

Dopo un tempo che gli parve senza fine, scoprì di poter alzare una mano, che si portò al viso ancora bagnato. Sorprendentemente, quando stropicciò la pelle sottile con la punta delle dita, quella non venne via al loro tocco.

Se si sentiva addosso l’acqua infuocata, troppo calda anche se non più insopportabilmente bollente, ora che era lontano dai flutti. La avvertiva colare ovunque, sugli abiti pressati al corpo e sotto di essi; inzuppava il mantello che ancora gli pendeva dalla schiena e gli si era avvolto attorno alle membra come un bozzolo; appesantiva persino la spada che ancora gli gravava alla vita, assicurata al cinto del chitone.

Come un pulcino umido appena uscito dal guscio, Tereo tremava con violenza sul pavimento di roccia.

Aprì gli occhi, gemette la propria agonia e pianse.

 

 

Gli sovvenne, mentre le lacrime gli ferivano il viso, percorrendogli le guance e rimanendo sospese sugli zigomi affilati, che avrebbe dovuto essere morto; tuttavia, non lo era.

Alle orecchie ripresero ad arrivargli i suoni, ora che il suo unico urlo si era quietato senza che egli se ne fosse accorto. Tereo aggrottò la fronte, nonostante quel movimento gli provocasse dolore in cento e più maniere differenti.

La voce che sempre lo accompagnava stava tornando a fargli sentire la sua presenza, in un angolo della mente: dove? Dove?

Non lo sapeva ancora, ma certamente era un luogo di morte.

Sentiva l’acqua di fuoco ribollire poco lontano da lui, un rumore immondo come di un enorme stomaco che gorgogliava; non era stato vento, ma un respiro proveniente da fauci spalancate, quello che l’aveva risucchiato mentre volava, di una creatura troppo grossa anche solo per immaginarne le proporzioni.

Se era vivo, se il dolore stava svanendo tanto rapidamente, doveva essere per l’icore [2] che forte scorreva dentro di lui, persino più caldo di quella maledetta, terribile acqua.

Con una lentezza che lo spazientì si mise a sedere, evitando ancora di voltare il capo verso la fonte dei suoi dolori, che, con la coda dell’occhio, vedeva brillare del colore del sole che muore da quel lato dove l’oscurità si faceva meno impenetrabile.

Si fissò le mani, invece. Non ne percepiva che la sagoma, ma aveva dita – poteva muoverle, lunghe e forti, fatte per tenere la spada: le dita del guerriero che era stato… prima.

Non era un’illusione della sua mente impazzita o l’estrema speranza vana di uno la cui anima stesse per abbandonare il corpo: era di nuovo un essere umano. Un’energia come un fulmine lo attraversò dalla sommità del capo fino alle punte dei piedi. Per la prima volta da… aveva perso il conto dei giorni, si rimise eretto, pur vacillante sulle gambe troppo lunghe.

Era impossibile.

Doveva trattarsi di uno strano sogno nero, mandato da Hypnos [3] per prendersi gioco di lui una volta ancora: Tereo ruggì tutta la sua collera, al pensiero, la mano che afferrava la spada e la strappava via dalla cintura, sollevando la lama con l’intento di conficcarla nella pietra sotto di sé.

Così agitato, con l’arma levata sopra la testa, lo sguardo gli cadde alla sua sinistra – e la spada lo seguì, il metallo che rimbombava rumoroso sulla roccia.

La recuperò di istinto con uno scatto, non appena gli riuscì di riprendere fiato. Non voleva avvicinarsi, ma i passi lo guidarono senza che egli potesse opporre resistenza, nonostante il bisogno animale di fuggire via.

L’acqua di fuoco era davvero del colore delle fiamme di Helios.

Ribolliva rabbiosa ma scorreva con lentezza esasperante nel crepaccio di roccia nerissima che le faceva da letto, reso aranciato da quei flutti di sole liquido che si abbattevano sugli argini frastagliati di pietra, crudeli come punte di lancia. Terminavano in altissimi picchi puntati verso il cielo – la stessa parete su cui si era inerpicato, fumante di quella corrente.

Seguì con lo sguardo il profilo della crosta dall’aria letale, fino a perdervi l’occhio. Sembrava davvero una chiostra di denti leonini, la sommità dell’antro dove il fiume andava a nascondersi, svanendo forse sotto la terra – altra roccia celava alla vista il destino di quella tortura.

Doveva essere una terribile visione notturna, o l’icore nelle vene che tante volte lo aveva aiutato in battaglia doveva possedere una forza sconosciuta anche a lui stesso per avergli permesso di sopravvivere a tutto ciò.

Si ricordò in quel momento che c’erano stati anche altri: ne aveva sentite le grida, eppure, cercandoli nel fiume, non vedeva nessuno divorato dalla corrente.

Quando riuscì a staccarsi da quella vista, prese il coraggio di voltarsi indietro, là dove le vampe ancora fendevano l’oscurità in agguato.

Non era solo.

Batté le palpebre sugli occhi provati; portò le mani al volto e li stropicciò, sentendoli bruciare a contatto con la pelle dei polpastrelli. Quando tolse le dita, la figura era ancora lì. Piccola, dalle strane proporzioni, lo fissava seduta su un sasso, incombendo su di lui dall’alto.

Di un grigio fievole, baluginava vaga e, quando Tereo le si fece più vicino, si accorse che non toccava terra col piccolo corpo.

L’Ombra si alzo sulle gambe corte – qualcosa, in essa, ancora lo disturbava, ma i suoi contorni erano troppo vaghi per poter dire cosa. Era come se l’esile busto nudo fosse teso in avanti, tanto che il collo si piegava in maniera innaturale fino a scomparire sulle spalle esili; come se il capo gli sbucasse dal petto, sostenuto dalle braccine conserte.

Aspetta! gli gridò Tereo senza voce, affrettandosi ad assicurare la spada, trascinandosi il mantello fradicio e pesante mentre si slanciava nella sua scia.

L’avrebbe raggiunto, di chiunque si trattasse – Demone o Spirito, poiché non c’era nulla di umano nel modo in cui la roccia traspariva oltre il suo profilo nebuloso, nella maniera in cui la figuretta, voltategli le spalle, si inerpicava veloce sempre più in alto, come non sentisse fatica alcuna.

Per stargli dietro, Tereo doveva forzare quel corpo che una volta non aveva temuto rivali in qualunque esercizio fisico; come un giovane Eracle rinato a nuova vita, la forza gli scorreva nelle vene assieme a quel sangue dorato, dono di suo padre.

Ora, il proprio peso lo frenava, le dita si aggrappavano disperate alla pietra, prima viscida e poi più asciutta, ben poco saldamente. Nelle orecchie, il ribollire del fiume di fuoco si faceva più fievole, mentre il respiro più pesante; infine, sollevandosi sulle braccia, riuscì a trascinarsi fino a uno spiazzo piatto, dove tentò di recuperare il fiato perduto.

Dove? Dove?

Riaprì gli occhi che non ricordava di aver chiuso, leccandosi il sudore dalle labbra, dai peli della barba. Un viso vicinissimo al proprio lo fissava, talmente accostato che Tereo dovette allontanarsene un poco, con un sussulto.

Riconosceva quelle fattezze. Come non avrebbe potuto? Non erano che la versione paffuta delle proprie, come un riflesso del se stesso perduto: un visetto che aveva visto ridente e con l’orrore inciso sui tratti di infante per l’eternità.

Iti.

Tereo spalancò le labbra e perse ogni certezza di essere vivo.

 

 

Avrebbe desiderato tenerlo per mano, ma la propria carne non faceva che passargli attraverso. Camminando, non gli riusciva di distogliere l’attenzione dalle spalle prive di collo, dal capo reciso che sobbalzava sotto il braccio dell’Ombra ad ogni passo sulla scalinata dove lo stava conducendo con la sicurezza di chi conosceva bene il luogo.

Sono vivo? gli aveva domandato, quando i singhiozzi che l’avevano piegato in due avevano smesso di scuoterlo abbastanza da lasciarlo parlare. L’Ombra aveva preso il capo tra le manine amorose, tenendolo davanti a sé e scuotendolo su e giù, pallida imitazione di un assenso.

Un brivido di sollievo lo aveva percorso: vivo, per vendicare la morte ingiusta, per affondare la spada nell’assassina figlia di una cagna che aveva alzato la mano sul suo bambino.

Dove? aveva chiesto allora – l’unica parola che la mente fosse stata capace di concepire. Il suo fanciullino, così ubbidiente, così maciullato, si era prodigato per accontentarlo, trovare per lui una strada da percorrere.

Ora, con il volto malato della luna che si faceva sempre più vicino, Tereo sollevava un piede dopo l’altro sui gradini scavati nella roccia, una mano posata sulla parete tagliente alla propria destra.

La salita non aveva fine, Iti non aveva parole, il tormento di Tereo non aveva fondo.

Il cervello scoppiava di pensieri, tanto che si stupiva di non sentirli tracimare dalle orecchie, attraversate da un fischio acuto.

Se era vivo, e credeva di sì – Iti non gli aveva mai detto una menzogna da quando era uscito dallo sventurato ventre di sua madre, che i corvi facessero a brani il suo cadavere – e lui e suo figlio erano riuniti, non c’era che un nome da dare al terribile luogo che si stavano lentamente lasciando alle spalle, tanto tremendo che non bisognava pronunciarlo a voce alta.

Come fosse possibile non ne aveva proprio idea, per quanto ci si rompesse la testa. I suoi ricordi di uccello erano troppo vaghi per dar loro un senso, ma restava vivida la sensazione di venire risucchiato in basso da una forza troppo impetuosa per le sue ali troppo fragili.

Era dunque ragionevole pensare…

“Le hai viste, Iti, figlio mio? Tua… madre, e sua sorella.”

La piccola Ombra arrestò la sua scalata, voltando il viso, che spuntava sotto l’arco del braccio, senza che il resto delle membra si girasse con esso. Lo scosse da lato a lato, come un diniego.

Tereo si morse le labbra, per la prima volta assaggiando il sapore del proprio sangue. Non aveva controllato, ma, nonostante quel folle tuffo e l’arrampicata tremenda, il suo corpo sembrava privo di ferite. Una strana legge doveva regolare quel luogo, estranea a quella di Zeus divino; la stessa per cui aveva ripreso le umane fattezze, e le uniche piume che aveva addosso ricoprivano il mantello che gli sventolava sulla schiena.

L’eredità di famiglia: Iti lo aveva amato tanto, in vita, da farsi promettere, mentre saltava sulle sue ginocchia, di averlo in dono non appena fosse diventato uomo.

Non sarebbe divenuto, però, uomo, mai.

Uno stretto passaggio si parò davanti a loro, e Tereo l’imboccò camminando fiducioso nella scia di Iti.

Se Procne e Filomela vagavano in quello stesso luogo oscuro, Tereo le avrebbe trovate e avrebbe reciso le loro teste con la sua spada. Poi, le avrebbe gettate nel crepaccio da cui era venuto.

 

 

No, non Filomela; era Procne l’assassina del figlio, non la sorella dolce quanto il suo canto.

Eppure, entrambe erano sporche del sangue di Iti, che tutte e due avevano detto di amare. Cagne maledette.

 La sua mente oscillava come una bilancia squilibrata; intanto, lo stretto cubicolo in cui si erano infilati – l’unica luce quella opalescente dell’Ombra – giungeva al termine, conducendoli a… l’acqua.

Vera acqua, stavolta, un fiume dai flutti bianchi e del colore del bronzo ossidato. Il suo corso si diramava in una moltitudine di correnti più piccole, che si gettavano tutte nel fuoco al disotto, come fili di bava nei crateri della terra.

Pure lì erano soli, con lo scrociare delle cascate nelle orecchie; Tereo alzò lo sguardo verso l’alto, là da dove l’acqua aveva origine e precipitava con un sano tremendo giù per la roccia che sovrastava le pozze; la roccia non era più aranciata e incandescente, ma avvolta da aloni verdi e argentati, riflesso di Urano.

Tereo allungò la mano alla ricerca di quella di Iti. Non trovò che aria; procedettero avanti.

 

 

Erano tanto vicini al viso di Artemide che Tereo avrebbe potuto sfiorarlo con la punta delle dita.

Gettò uno sguardo in basso sull’abisso da cui era uscito come un neonato dal ventre di donna. Il crepaccio di acqua e di liquido fuoco lo ricambiò e le ossa di Tereo rabbrividirono sotto la pelle.

Voltò le spalle.

Dove? Dove?

 

 

Avanti ancora – forse per ore, forse per anni.

Artemide era tramontata. Helios non visitava quel luogo ed era come se il giorno fosse perennemente alla fine.

Nell’aria priva di vento, l’odore rancido di acquitrino stagnava fino a stordire, e l’umidità la rendeva pesante, era quasi come nuotare in una nuvola temporalesca. Nonostante ciò, il terreno su cui stavano in piedi era arido, la bassa vegetazione disseminata di sassi di un verde sporco e senza vita.

Tereo si guardava attorno, nella piana racchiusa da due colli che si arrotondavano aspri, i profili che si stagliavano contro il cielo nero.

Non erano più soli, ma centinaia come Iti si riunivano in una colonna scomposta. Fluivano da un buco – non poteva che chiamarlo tale – che si apriva sulla parete di una delle colline, e si assiepavano pigiati gli uni contro gli altri, senza davvero cozzare tra loro.

Dall’antro, una voce lontana sembrava incitarli a procedere, ma quelli si prendevano il loro tempo, avanzando con lentezza esasperante e nel più profondo caos.

Il comandate in Tereo non avrebbe mai approvato tutto quel disordine, quasi quello di un mercato nei giorni di festa; era una folla silenziosa e priva di gaiezza, tuttavia, quella che formava un muro tra loro e qualunque cosa si celasse più avanti, sul loro cammino – non riusciva a vedere tanto lontano.

“Dove mi stai portando?” domandò a Iti, senza speranza di risposta. Non l’ottenne, infatti, e Tereo si morse la lingua, frustrato.

Non sentiva i morsi della sete; la fame, che non fosse di sangue traditore, era dimenticata: il suo stomaco era pesante, nel ventre, dove un macigno vivo si agitava in un mare di bile.

Attesero, Tereo scalpitando impaziente verso l’ignoto, Iti al suo fianco.

La mente di Tereo era lontana, staccata dal corpo, un nido che serpeggiava di dubbi e domande: quanto tempo era passato, dacché Iti…? Non riusciva a contare all’indietro. Forse una stagione, forse due: ricordava le giornate che si facevano più calde, e poi di nuovo più fredde mentre volava forsennato alle calcagna delle sue prede, deciso a non concedere loro un giorno di pace.

Gli Dei erano stati ingiusti. Non che Tereo fosse privo di colpe, ma erano stati Fato e Necessità [4] a condurlo alle sue scelte obbligate, e niente di quanto avesse fatto poteva essere paragonato all’assassinio di un fanciullo, allo scempio che era venuto dopo.

Un delitto che neppure le Erinni avrebbero potuto togliergli il piacere di punire con le proprie mani – così aveva pensato, fin quando quelle stesse mani non gli erano state sottratte, e l’unica arma rimasta era il becco di uccello che così somigliava alla spada al suo fianco.

Anche quello gli sarebbe andato bene, se fosse servito; e invece, l’una di giorno e l’altra di notte, lo titillavano col volo basso e col canto soave, sfuggendogli all’infinito.

Dove lo stavano portando i suoi passi? Odiava non sapere, e tamburellava con le dita sulle cosce pure se fremeva dalla voglia di frustare il Destino beffardo.

Una sensazione di gelo lo trapassò da parte a parte, staccandolo da quelle riflessioni oscure.

Sussultò violentemente, seguendo con lo sguardo l’Ombra che doveva essergli passata attraverso di gran carriera. La sagoma di un uomo allampanato correva senza posa sulla terra brulla, ricoperta d’erba friabile come sabbia, come avesse uno sciame delle più colleriche vespe di Nemesi alle calcagna. [5]

“Povero sventurato.”

Dalle Anime dall’aspetto tanto rarefatto si sarebbe aspettato una voce eterea, eco vuota di quella avuta in vita; invece, la vecchia che aveva pronunciato quelle parole aveva un timbro roco e profondo, che poco aveva a che fare con l’aspetto incorporeo.

“Questa attesa manderebbe il cervello di chiunque ai corvi. [6]” A replicare era stato un uomo giovane, una grossa ferita slabbrata del colore delle perle sul collo esile.

“Tenetevi stretti gli oboli: potrebbe tentare di rubarveli”, fece una donna che teneva per mano due fanciulline, poco più grandi di Iti; la pelle grigiastra era segnata dalle piaghe della malattia che doveva averle prese tutte.

Un insepolto.

Tereo riportò lo sguardo sulla folle corsa dell’Ombra, il viso sconvolto dalla pazzia; continuò imperterrito su per un pendio, dove altre Anime, da quel punto più in basso, parevano danzare, pazze come Menadi. [7]

Chinò il volto verso Iti, tanto placido e privo di emozione al proprio fianco.

Giammai, quell’onta. Giammai.

“Andiamo.”

Non poteva prenderlo per mano e trascinarlo; poteva però ignorare le proteste della colonna di Ombre, e lo fece, lasciandosele tutte dietro le spalle col bambino alle calcagna.

 

 

“Come sarebbe a dire, vecchio?”

La collera gli ribolliva dentro come l’acqua infuocata in quel crepaccio il cui pensiero ancora lo faceva tremare.

La creatura irosa che agitava il remo contro di lui avrebbe potuto scuotere i serpenti che gli pendevano dalle braccia secche fino a che Urano non avesse inghiottito Gea, per quello che lo riguardava; dopo l’abisso, niente poteva più spaventarlo. Tereo doveva andare avanti – e Iti sarebbe stato al suo fianco, con o senza il suo obolo.

“Siamo la progenie del grande Ares, miserabile barcaiolo”, sibilò, mentre colore affluiva alle guance azzurrognole del Demone, la torcia fissata all’altra estremità della barca che lo rendeva quasi violaceo alla vista. “Come osi negarci qualcosa?”

“Il divino Ares genera figli stolti, dunque.” Il vecchiaccio non pareva propenso ad avvicinarsi, per tutte le sue parole offensive: lo teneva a distanza con l’unico remo, dondolando sulla barca malmessa già per metà assiepata di Ombre che osservavano la scena.

“Non sarebbe il primo della sua stirpe. Te lo ripeto, dato che mi pari tardo di cervello: a te è concesso di passare, eccezionalmente; ma senza l’obolo, l’insepolto resterà qui.”

Tereo fumava per lo sdegno. La ragione gli diceva che avrebbe dovuto tentare di rabbonirlo, che si prendevano più mosche col miele che col vino aspro; prese un respiro profondo, provando a schiarire la mente annebbiata di rosso.

“Non conosci la pietà?” domandò, indicando con la sinistra libera il suo povero bambino, che ancora si teneva la testa sotto il braccio. Sentiva i suoi occhi su di sé, quello sguardo vuoto di allegria che non gli riusciva di sopportare.

“Non è che un fanciullo, non merita questo fato!”

“Come la maggior parte di quelli che vedi, ma non sono io a fare le regole e, seppure fosse, non mi interesserebbe. Io governo la barca. Per domandare grazie e piaceri, devi rivolgerti più in alto. Ora monta, vattene o affoga.”

Il vecchio scosse il capo, agitando il naso adunco come un’arma. Tereo era scosso da brividi, le guance macchiate di oltraggio. Le dita tremavano sull’elsa della spada. La liberò dal cinto e poi la puntò contro il nocchiero, pericolosamente vicino alla barba nera che gli ricopriva il mento e il collo rachitico.

“Le spade non possono niente, nel regno dei Morti.” Il tono del vecchio trasudava disprezzo. “Monta, vattene o affoga.”

Così vicino all’acqua, capiva cosa intendesse dire con quelle parole. Gettò un’occhiata brevissima oltre la spalla del Demone dalla schiena curva: una palude di acquitrini grigi e neri si stagliava di fronte a loro, ribollente di fango.

L’acqua era tanto torbida e fangosa che non se ne vedeva il fondo. Qualcosa pareva muoversi sotto della superficie, come dita pronte ad afferrare e a trascinare oltre il velo della fanghiglia; le Ombre sedute all’estremità della barca, illuminate dalla torcia, tremolavano, stringendosi le une alle altre per scansarsi dal bordo del legno consumato.

Non aveva altra soluzione che arrendersi, dunque. La sola idea gli bucava il cervello come la bile che si agitava nello stomaco.

Si voltò verso Iti, ancora ritto sulle gambe corte.

Suo figlio alzò la mano minuta, come per salutarlo.

 

 

Attraversa la porta d’ingresso e prosegui per la Piana degli Asfodeli. Dirigiti là dove il sole cala e la luce inizia.

La barca non aveva ancora cozzato con la terra ferma che già Tereo ne era disceso, lasciandosi alle spalle le grida del suo nocchiero. La fiumana di Ombre parve impallidire sotto la nuova luce che rischiarava l’aria – niente di più che una nebbia opaca, che pure gli colpiva gli occhi quasi acciecandolo, dopo l’oscurità profonda.

Si tuffò nel sentiero che gli si apriva di fronte – da lungi già vedeva l’enorme ingresso, una porta di pietra nera eretta in mezzo al nulla. Si domandò vagamente cosa sarebbe accaduto, se avesse tentato di attraversare il confine dai lati; nessuno pareva posto lì a sentinella, eppure, ubbidienti, le Ombre si incanalavano per il varco, senza che nulla venisse loro ordinato.

Tereo procedeva avanti.

A malapena si guardava attorno, la spada ancora in mano mentre correva tra le Ombre che neppure si curavano del suo passaggio. Ogni volta che ne trapassava una, era come immergersi in gelida acqua, ma Tereo, tutto preso verso la meta agognata – la porta che, enorme, pareva risucchiare quel grigio mare traslucido che erano le anime dei Morti – se ne curava ancora memo.

Riusciva già a vedere, oltre i cardini di oro massiccio, la Prateria che lo attendeva. In lontananza, le Anime vi scorrazzavano come galline nell’aria, avvolte in un alone grigiastro.

Era dunque quello il luogo di riposo per i mediocri. Non avrebbe mai creduto di doverlo vedere, Tereo, che per sé non aveva mai sognato che gli Elisi. Era figlio di un dio, dopotutto: erano il posto che gli spettava di diritto.

Iti non avrebbe mai avuto la possibilità di dare prova di meritarli, una volta diventato uomo.

Dove? Dove?

Procne e Filomela non erano mai abbastanza vicine.

 

 

Tereo procedeva avanti in una corsa forsennata quanto lo era stato il suo volo di uccello, gli occhi fissi oltre la soglia a cui si accostava sempre più.

Un rombo di tuono arrestò la sua marcia.

Sulle prime, disorientato, si guardò attorno senza capire, il suono che gli scuoteva il corpo come un dito pizzicava la corda di una lira.

Un attimo sospeso, prima che il mostro gli si parasse di fronte, grande quanto era grande la porta a cui, dopotutto, faceva la guardia.

Tereo indietreggiò di un passo mentre quello avanzava, lento nello spostare l’enorme massa scura del corpo muscoloso di mastino. Dal collo tre teste gemelle fiorivano, dai grugni allungati di lupo – così vicini alla propria faccia da poter contare le narici dei baffi erti come lance. Alte orecchie, affilate come punte di giavellotto, si muovevano nell’aria immobile, e una coda frustava l’aria, come un tronco di quercia.

Gli occhi erano gemme nere, prive del bianco – sei grossi diamanti cupi, tutti fissi su di lui, brucianti di rabbia.

Ecco il Guardiano della porta, terribile figlio di Tifone: Cerbero lo guardava come si guardava il più odiato tra i nemici.

Scappare fu il suo primo istinto, troppo veloce perché potesse castigarsi col pensiero.

Seguì con lo sguardo il profilo dei denti aguzzi che spuntavano dalle fauci, li immaginò dilaniargli la carne e, mentre univa la mano sinistra alla destra sull’elsa della spada, avvertì il metallo rabbrividire.

Prese un respiro profondo.

“Sono Tereo, figlio di Ares.”

La voce gli uscì dalla gola come un ruggito da una spelonca.

Tra le mani, la spada aveva arrestato il suo tremore: non poteva morire, il Fato non l’avrebbe permesso: il Flegetonte non lo aveva ucciso perché la sua causa era troppo nobile per poter fallire nel portarla a compimento; ugualmente, il Fato non l’avrebbe visto divorato tra le zanne di Cerbero.

Doveva essere così: non sarebbe morto prima di vedere il corpo straziato di Procne; da lui, o dalle Erinni.

Si chinò, indietreggiando di qualche passo, abbassando la spada per darle poi slancio. La bestia lo guardava fisso, le bocche digrignate sui denti gialli. Pure scostandosi, erano ancora così vicini l’uno all’altro che il fiato della creatura lo avvolgeva come una nebbia.

Tereo vagava con lo sguardo sui colli esposti, coperti di pelo ispido come setole di un cinghiale. La testa di mezzo, ragionò, doveva essere quella principale, colei che guidava le azioni dell’animale. Pure se la sua spada non era che uno stuzzicadenti, al confronto, se fosse riuscito a metterci abbastanza forza allora l’avrebbe ferito; forse non mortalmente ma abbastanza da sfuggire alle enormi fauci, agli artigli ricurvi delle zampe grandi come carri.

Arrivarci sarebbe stato il maggiore problema: la bestia si stava accovacciando a propria volta, i tre enormi capi abbassati e la coda per aria, come per balzare su di lui. Tereo già se lo vedeva sopra, a schiacciarlo con l’enorme corpo.

Non lo poteva permettere: era forte, ma non della forza di Eracle, per quanto bruciasse ammetterlo; non sarebbe riuscito a scrollarlo via, se gli fosse piombato addosso.

Doveva colpire lui per primo.

Si preparò a correre, a concentrare la forza sulle braccia, inclinando la lama della spada nella direzione che aveva più possibilità di ferire il punto prestabilito, là dove pulsava la vita – ma, proprio mentre stava per partire all’attacco, un sussulto attraversò l’enorme creatura.

Sotto lo sguardo pieno di stupore di Tereo, il cane drizzò le sei orecchie come verso un suono lontano; poi, scosse le sei teste, riottoso. Infine si rimise in piedi, i colli più esterni, dalle vene tese sotto la pelle, torti verso oltre la Porta.

Gli occhi di mezzo, invece, esitarono su di lui ancora per un attimo, ringhiandogli senza parole tutta la rabbia a stento trattenuta; poi, i capi di nuovo rivolti nella medesima direzione, Cerbero passò le rosee lingue sulle zanne snudate, come enormi petali carnosi, e chiuse le fauci. La terra non tremò sotto la sua mole, mentre il cane gli dava le nera schiena e si allontanava da lui lentamente, sventolando l’enorme coda in un grottesco saluto.

Il cuore che palpitava nel petto ricordandogli che era ancora vivo, Tereo si lasciò ricadere il braccio, ansante. Solo un attimo di riposo si concesse, frastornato com’era da quegli ultimi momenti; ancora sentiva il puzzo del fiato della bestia nelle narici, il mefitico odore della morte.

Si rimise diritto.

Non aveva senso alcuno, che l’avesse lasciato andare – un cervello di bestia non avrebbe potuto comprendere che lui era figlio di Ares – ma lui non poteva fermarsi.

Non aveva tempo da perdere oltre: ogni minuto che esitava, Iti doveva passarlo nello sfregio degli insepolti, lui che era stirpe divina, innocente bambino. L’ira gli diede le ali ai piedi: si tuffò oltre l’immensa porta, inghiottito dal grigio delle Ombre e dal bianco degli asfodeli

Dove? Dove, ora?

Correva, il mantello gonfio dietro la schiena, la spada in mano, senza guardare in faccia nessuna delle Ombre che occasionalmente attraversava senza riguardo, i loro volti annoiati, macchie informi ai suoi occhi concentrati su altro.

Di fronte a lui, la distesa di fiori costeggiata dai medesimi alberi che segnavano il viale dell’Ingresso, si distendeva fin dove lo sguardo poteva arrivare.

Tereo si portò accanto alla fila di tronchi candidi di salici e pioppi, riparandosi sotto i loro rami mentre da quella colonna si faceva guidare, là dove il sole calava, sulla terra dei Vivi, e in Averno nasceva la luce.

Quanto infinitamente immenso poteva essere il regno dei Morti?

 

 

Giorni passarono, o forse anni, prima che il pallore nebbioso sbocciasse in un incubo di luce.

Più intensa di quanto ne avesse mai avuto esperienza in Ellade o nella sua Tracia, pareva quasi di poterla toccare mentre gli si insinuava negli occhi disabituati, ormai, anche alla più lieve carezza di Helios.

Le palpebre ridotte a fessure, Tereo procedeva sempre avanti, trascinando le membra esauste; la spada nella destra, ne rivolgeva la punta verso la terra ammantata di asfodeli, di cui ad ogni passo faceva strage.

Non più riparato da salici e pioppi, avanzava scoperto lasciando che la luce priva di fonte lo inghiottisse.

Pure se muoversi così esposto andava contro ogni suo istinto o principio, la ragione gli diceva che difficilmente avrebbe incrociato, dopo Cerbero, un altro nemico di carne sul suo cammino: Demoni e Spiriti tormentavano, sì, i Mortali, ma nella terra dei Vivi; e ben poco avrebbero potuto contro di lui le Ombre, se non passargli attraverso.

Le sue vere nemiche, se poi lì erano giunte davvero, erano donne di quella specie codarda quanto gli uccelli di cui avevano preso l’aspetto; sapevano solo sfuggire dalle mani e trovare rifugio nell’ombra. Nondimeno, le dita erano salde sull’elsa e pronte a brandire la lama quanto lo permettevano i sensi alterati, il corpo sfiancato.

No, no: Procne, era colpa sua. Non di Filomela.

Dove? Dove?

Ad ogni falcata sentiva tornare in sé il vigore, mentre le mura si facevano vicine, incombendogli addosso col loro candore insopportabile; l’icore collerico di suo padre gli ribolliva in corpo, rombargli nelle orecchie, e avvertiva la propria ira premere nello spazio tra cranio e cervello e pulsare come un altro cuore.

Finalmente avrebbe potuto domandare quella giustizia che non gli era stata accordata, risanare il torto subito. Era persino disposto a non essere lui stesso a mietere l’anima della sua sposa empia, ad affondarle la spada nel seno e vederne sgorgare il sangue traditore fino all’ultima goccia; avrebbe sacrificato la propria soddisfazione, se gli avessero in cambio accordato una grazia per Iti.

Sì, si sarebbe rimesso nelle mani delle Sorelle Terribili [8]. Per sé, avrebbe chiesto solo di rompere la maledizione: in fin dei conti, al figlio di Ares poteva essere accordata quella clemenza – per dipiù per una punizione affatto meritata. Dov’era il male nel voler vendicare il figlio ammazzato? Dove? Dove?

Quel disgusto che non lo lasciava mai si fece di nuovo sentire, agitandoglisi nel ventre come una bestia viva. La bile gli salì alla gola, mentre, senza esitazione alcuna, varcava infine le maestose porte d’argento, più alte di quelle della reggia di Atene e, nel bagliore bianco, luminose come lastre di stella.

 

 

Il pavimento era gelido contro la fronte, i palmi, le ginocchia nude che vi teneva premuti. Il marmo era talmente lucido che poteva scorgervi il proprio viso riflesso – il naso affilato sul viso lungo, gli occhi segnati e la linea stretta delle labbra.

Un lieve tremito gli percorreva la schiena, ma tentava di restare immobile. Nel silenzio – li aveva intravisti, entrando a sguardo basso, e sapeva che c’era più d’uno con lui, nella sala – udiva passi lievi farsi vicini, lenti e cadenzati.

Lo attendevano, anche se nessuno lo aveva annunciato.

Tereo sollevò appena il volto, arrischiando un’occhiata: scorse l’orlo di una veste diafana, talmente sottile da potere indovinare il profilo di caviglie delicate che celava al disotto.

Nel petto, il cuore fremeva, impazzito: intuiva chi si trovasse di fronte a lui. Neppure gli Dei osavano pronunciare il suo nome.

“Dopo tante peripezie, ti do il mio benvenuto nell’Erebo, Tereo, figlio di Ares.”

La sua voce era chiara e decisa alle proprie orecchie, bassa come le fusa di un felino; ogni parola sembrava rimbombare, nella stanza del trono e nel suo cranio. Dietro il timbro caldo, tuttavia, Tereo percepì una certa durezza di fondo, per nulla stemperata dalla gentilezza dei modi.

Nonostante il timore che era poco desideroso di ammettere, Tereo strinse i pugni. Si ricordò che quei convenevoli erano necessari mezzi per raggiungere il suo fine; nondimeno, perdere prezioso tempo in chiacchiere era estraneo alla sua natura. Ma a che pro farlo presente a un essere per cui il tempo a malapena esisteva?

“L’onore che concedi è grande, Oscura Regina [9], di accogliermi alla tua presenza.”

“Un’evenienza rara, seppur non unica,” replicò lei, quasi distrattamente. “Alzati, Re di Daulide. Ho piacere di guardarti in viso.”

Tereo sciolse si pugni e aprì le dita, allargandole sul pavimento e poi facendo forza sui palmi per rimettersi dritto. Quando fu di nuovo in piedi, gonfiò il petto sotto il mantello di piume, posò la destra sull’elsa della spada assicurata al cinto del chitone.

Ne approfittò per rubare un altro sguardo, stavolta alla sala.

In quel luogo dove il suo cammino lo aveva condotto, tutto era tanto candido da credere di essere immersi nella neve d’Olimpo: il marmo dei pavimenti si prolungava sui muri lisci, e fioriva in colonne nivee che si slanciavano verso un soffitto rivestito d’argento levigato, spruzzato di pietre preziose di tutti i colori del mantello di Eos [10] – tante che Tereo non sarebbe riuscito a contarle.

Solo un attimo si lasciò ammaliare da quella vista; poi, raddrizzò il collo e abbassò il mento, tenendo gli occhi ostinatamente fissi su un punto oltre un braccio della Dea, nudo e sottile, uno scialle drappeggiatovi dal gomito alla spalla.

Doveva essere alta almeno quanto lui, che svettava sugli uomini di quasi una testa. Con la coda dell’occhio intuiva il pallore dei suoi capelli, chiari come lino. Colei che di nome faceva l’Oscura Fanciulla, gli pareva fatta della stessa luce degli Elisi: fastidiosamente accecante.

Più indietro, altri volti li spiavano, figure disposte tra le colonne portanti e il rialzo dal pavimento da esse racchiuso. Lì si ergevano i due troni d’oro, imponenti e vuoti; non riusciva a discernere la lavorazione del prezioso metallo, ma intuiva minuti bassorilievi sulla superficie, come foglie sopra il pelo dell’acqua.

“Ho pure piacere che ricambi il mio sguardo, figlio di Ares.” La voce di lei non aveva perso la cortesia, ma Tereo ne assaggiò il taglio segreto, che gli strappò una lieve smorfia. Esitò prima di parlare e si odiò per averlo fatto.

“Se ti accontentassi, la tua bellezza mi toglierebbe il lume dagli occhi, o peggio, ne rimarrei folgorato: oltre alla vista, dovrei rinunciare alla vita, se non sono già morto.” [11]

“Questo potrebbe esser vero nelle terre aldilà delle Colonne [12], sì. Qui, abbiamo le nostre regole: guardarmi non ti ucciderà, perché ancora vivi; se poi lo facesse, quale luogo migliore, per abbandonare le tue mortali spoglie, della casa di Ade? Già una volta Caronte ti ha traghettato sulla sua barca da un lato all’altro dell’Acheronte, e nulla lo rende più intrattabile che fare lavoro doppio.”

Nessuno rise, e Tereo strinse le labbra.

“Ah, suvvia. Col mio sposo assente, la noia delle mie giornate mi è quasi mortale. Lasciate che mi spassi, quando ne ho l’occasione,” replicò la Regina al silenzio generale.

Tereo non sarebbe stato il divertimento di nessuno, fosse anche una Dea, né in vita né in morte.

“Se i miei casi fossero più lieti ti intratterrei meglio, Sovrana. Ringrazio cento volte i Venti per avermi trasportato nel tuo regno… pure se non comprendo come sia possibile.”

I suoi ricordi di uccello erano vaghi frammenti di immagini della grande distesa di Oceano, tanto blu da sembrare nero; isole che non figuravano su nessuna mappa di cui avesse memoria; un lembo di terra nerissimo, la fossa infinita dove la corrente l’aveva risucchiato, spezzandogli le ali e la volontà.

“Ci piace ricevere ospiti, e non interdiciamo a nessuno l’entrata, posto che trovi il passaggio – o che il passaggio trovi lui. Capita a volte che i Vivi ci facciano visita, per accidente o per volere del Fato.”

Quello non poteva che essere un segno che la sua causa era giusta.

“Di certo, allora, è il Destino che mi ha guidato da te per sottoporti le mie circostanze luttuose. Come ora faccio, sperando di trovare in te la pietà che altrove mi è stata negata.”

Le parole gli uscirono a fatica dalla bocca, incagliandosi nei denti. Non era mai stato un gran parlatore, se non coi soldati da incitare alla battaglia. Nell’impeto della guerra, i bei discorsi sgorgavano da lui come acqua di fonte; ma non gli era mai accaduto di essere così scrutinato da creature più simili al suo divino padre che a lui.

“Oh…” La replica di lei fu poco più che un sospiro. Infine, Tereo si decise a guardarla in volto, sfidando la Sorte, desideroso di trasmetterle la propria urgenza. Ammutolì con le labbra dischiuse, invece. Non sapeva bene cosa si fosse aspettato – il terribile viso di Thanathos, magari, oppure una bellezza da ferire il cuore.

Non furono i lineamenti, pure armoniosi, a colpirlo, ma gli occhi: orlato da un anello nero là dove confinava col bianco, il loro grigio temporalesco impallidiva, verso il foro al centro, nella sfumatura della nebbia, rendendoli quasi trasparenti. Aldilà di essi, un nemico invisibile sembrava scrutarlo come da una feritoia. [13]

La Regina batté le palpebre e l’impressione svanì.

“Parlami dunque delle doglie che ti affliggono, Re di Daulide. Non ci giungono nuove delle umane pene, se non per la bocca delle Ombre; a molte, Thanatos pare rubare, oltre al respiro, la lingua, tanto gelosamente costudiscono i loro ricordi segreti.”

Di nuovo, un lungo brivido lo attraversò. Tereo si piegò in avanti impercettibilmente, come una bestia pronta a scattare – o a inchinarsi.

“Signora, giungo con la preghiera di accogliere mio figlio, Iti, tra i tuoi asfodeli. Non era che un fanciullo di cinque autunni appena quando la sua madre perversa ne fece strage. Ora, egli si attarda tra le Ombre insepolte, morto troppo piccolo per aver nociuto ad alcuno o per provare il suo valore di uomo.”

Nel petto, il cuore era nella mano di un bambino dispettoso, che allargava e stringeva le dita attorno ad esso a piacimento; nello stomaco, qualcosa si agitava, gridando di poter uscire. La bile che tanto a fatica controllava gli diffuse in bocca il suo sapore acido.

“Domando questa grazia, e giustizia. Ho tentato di raddrizzare il torto di mia mano, ma gli Dei del Cielo sono stati clementi con le assassine, e non con le vittime; la madre feroce merita la punizione per chi fa strage dei parenti, l’ira delle Erinni. Ti supplico…,” mormorò a fatica. “Rinuncerò a darle io stesso la caccia, se manderai le Sorelle a punirla per il suo delitto. Mio figlio non ha fatto nulla, né io stesso se non quello che era giusto; io, che pure fui trasformato in uccello dagli Olimpi senza colpa, perché non c’è crudeltà nella mia vendetta legittima. Sciogli, Sovrana, le nostre maledizioni, tu che conosci la pietà.”

Chinò il capo, ansante. Il discorso lo aveva svuotato, e tenere a bada quella parte di sé che, impazzita, non faceva altro che cercare (dove? Dove?), diventava difficile.

Un silenzio grave regnò per qualche secondo; poi, una mano dalle lunghe dita si tese verso di lui, sollevandogli il mento senza neppure sfiorarlo davvero. Il volto della Regina era una maschera di premura.

“Che orribile storia mi hai raccontato, figlio di Ares. L’insania deve aver colto mio padre per aver condonato questo sopruso. Ma dimmi,” continua, e questa volta lo prese sottobraccio, quasi sorreggendolo mentre camminavano per l’enormità della sala (si portava addosso l’odore della menta [14] intrecciata nei capelli, che gli feriva il naso col profumo fresco quanto gli occhi la luce eccessiva). “… perché nomini due assassine, se poi affermi che solo la madre ne ha fatto scempio – sventurata la donna che rivolge la mano contro la propria progenie.”

Non poteva mentire a una Dea, per quanto dolore gli portasse la verità.

Abbassò le palpebre, lasciandosi guidare dal tocco freddo della pelle di lei suo braccio. Mentre camminavano, il mantello di piume frusciava a ogni sfregamento sul marmo sotto i loro piedi.

“La mia sposa coinvolse nel delitto la sorella. Una creatura indebolita nel carattere dall’affetto fraterno, senza dubbio, ma che amava mio figlio e me sinceramente e che si è mostrata pentita del suo atto.”

Iti, Iti.

Mentre parlava, aveva pieni gli occhi non della colonna intarsiata di fronte a sé, ma di quelli grandi di Filomela.

Del pentimento che aveva letto in essi mentre Procne offriva alla sua vista il capo mozzato del suo unico figlio, l’erede di Daulide col viso uguale a quello del padre, tenendolo per le ciocche rosse dei capelli come si teneva una lepre sgozzata.

L’orrore, quando Procne gliela lanciò tra le mani, e Tereo l’afferrò per quelle guance piene che, in vita, si erano arrossate di piacere ad ogni suo sguardo; mentre allora, erano gelide e inerti, sotto i suoi palmi, l’espressione fissata nel terrore dei suoi ultimi momenti.

Tereo aveva fatto scorrere lo sguardo da Procne a Filomela, da Filomela a Procne, come un uccello impazzito: non c’era traccia della muta vittoria di sua moglie, sul viso esangue della sua amata. Una follia doveva esser stata, per lei, sicuramente avvelenata dalla malvagia sorella.

Che il verso che sfuggiva al suo becco di usignolo, mentre le dava la caccia tra i rami degli alberi, fosse il nome di suo figlio, non era segno sufficiente della sua volontà di espiare? [15]

“Terribili eventi hai vissuto.”

Una mano si posò sul suo avambraccio, ancora cotto dalle braci dell’acqua di fuoco; era delicata, al tatto, un conforto a cui Tereo si permise, non volendo, di appoggiarsi.

“Per quale motivo, però, trasformarti in uccello?” domandò lei un attimo dopo – o una vita più tardi, poiché era tanto perso nei propri pensieri, nel proprio dolore, da dimenticare dove si trovasse, o al cospetto di chi.

Si schiarì la gola seccata dal tanto parlare. Bramava un goccio di vino, ma nulla gli avevano offerto, e niente del regno dei Morti doveva essere accettato, se si voleva tornare indietro da dove si era venuti.

“Una volta presentatemi le povere spoglie di Iti, le due fuggirono. Io presi la spada,” nel dirlo, batté la destra libera sull’elsa. “Le rincorsi. Non è forse una vendetta giusta, quella contro l’assassino di un figlio?” domandò senza davvero chiedere, procedendo avanti. “Non è crudeltà, è la legge.”

Giravano in tondo, sfiorando la piccola folla senza attraversarla, e i loro passi rimbombavano sul marmo, il suono che saliva fino all’enorme soffitto dove rimbalzava sui loro capi. Occhi lo osservavano, ma Tereo ormai vi faceva poco caso. “Le due scellerate, trovandosi raggiunte, implorarono gli Dei di salvarle dal mio giusto castigo e quelli benevolmente lo concessero. Così divenni upupa: per tutto il mondo diedi loro la caccia, e oltre, venendo spinto dalle correnti… o dal Fato in questi luoghi.”

“Così come accadde a loro.”

“Divennero anch’esse uccelli, sì…”

“Mi comprendi male.”

Il braccio che stringeva il suo lo lasciò andare improvvisamente, e Tereo vacillò. La Regina gli voltò le spalle, percorrendo a passo lento la distanza da lui agli alti troni e Tereo seguì con gli occhi la sua schiena, lo strascico della veste che strisciava come una coda di serpente traslucido sui gradini che collegavano pavimento e rialzo.

Egli si portò la mano sinistra allo stomaco che gli si contorceva sotto la pelle, la destra che si aggrappava alla spada convulsamente, le dita che vi tamburellavano; nelle narici aleggiava ancora il profumo di menta.

“Ora che l’hai raccontata, la tua storia suona alle mie orecchie già sentita. Estremamente familiare, in effetti.” La Regina sedette, accomodando le vesti e intrecciando le dita all’altezza del ventre.

“Già due altre sventurate, precipitate per caso o per destino nel mio regno, vennero in questa sala e raccontarono gli stessi eventi – l’una col suo canto spezzato, l’altra senza parole.”

Tereo sguainò la lama.

Dove? Dove? domandava la sua mente di uccello, mentre staccava gli occhi dalla Regina per guardarsi attorno, in cerca di un viso familiare.

Chi lo guardava, lo osservava grave: quelle che sembravano donne bellissime, la pelle dalle sfumature azzurre e gli occhi rossi come le acque del Flegetonte; creature più maschie, angolose, dai volti in ombra, indecifrabili; chi non lo guardava, pareva annoiato.

Nessuno di essi era un viso conosciuto. Procne e Filomela si nascondevano, gli sfuggivano sempre.

Un grumo rosso di collera premette contro il suo buonsenso.

“Abbassa la spada, Tereo.”

L’autorità nella voce della Regina aveva un suono tutto nuovo, e non c’era più nulla del basso calore felino, in essa. “Le cerchi inutilmente tra questa mia gente: vennero prima di te; quanto prima non saprei dirti, ma abbastanza perché non siano più qui.”

Allora dove? Dove?

“Rammentaci cosa dissero, tu che hai la memoria più salda della mia, Ecate.”

Tereo riportò lo sguardo verso il trono, mentre un essere diverso si faceva avanti, sedendosi a propria volta accanto alla Regina. Combatté l’istinto di stropicciare gli occhi: sotto di essi, la figura cambiava continuamente, come vedere sbocciare a appassire un fiore impazzito. Un attimo era una giovane vergine; quello dopo, una madre segnata da rughe di affanno; e poi una vecchia, scheletrica e senza nessuno dei denti.

Quando parlò, la sua voce era come tuono.

“Tereo, re tracio di Daulide, figlio di Ares, si unì a Pandione di Atene contro Labdaco di Tebe. Per suggellare l’alleanza, un matrimonio fu celebrato, e la giovane Procne venne a Tereo, come sua sposa.”

Mentre lo raccontava, Tereo riusciva a riviverlo nella mente: il giorno in cui Procne gli era giunta, e lui aveva sollevato il velo scoprendo il capo scuro, la pelle bianca – gli occhi abbassati castamente. La rivide pure come l’ultima volta: i capelli scarmigliati e la gola macchiata del sangue del loro figlio. La mano sulla spada riprese a tremare.

“Le nozze avvennero sotto cattivi auspici: il parente aveva fatto guerra al parente. [16] Presto, però, nacque l’erede e giorni più sereni si consumarono; la moglie amava il marito, e il marito la rispettava. Ma ella sentiva il peso della solitudine e chiese al marito di condurre da lei la sorella amatissima.”

Nella mente, Procne gli teneva il viso tra le mani morbidissime di regina, posandogli teneri baci sul naso, sulle labbra.

“Ti scongiuro, mio sposo.”

“Il Re non era un cattivo uomo. Si mise in viaggio per compiacerla e giunse alla reggia del padre di lei, ma lì incontrò il suo destino e arse d’amore per Filomela sorella di Procne.”

Era stato il suo canto, ad attirarlo – un imeneo, combinazione, come se lo chiamasse a sé come uno sposo. Dolcissimo alle sue orecchie, gli si era insinuato sino al cuore. Non aveva avvertito la freccia di Eros che penetrava nella carne, ma per la ferita slabbrata della passione non c’era stata cura.

Filomela, piccola e scura, non era bella quanto Procne.

Non aveva le sue forme sbocciate, il suo volto delicato, la sua grazia nell’incedere. Camminava quasi saltellando, invece, e i suoi ricci né biondi né neri sobbalzavano con lei a ogni passo vivace; il suo viso era quasi incavato tanto i tratti erano decisi, e la pelle non era bianca ma del colore delle olive.

I suoi occhi, però, parlavano senza parole – e le sue guance rosse, quando lo incrociava, il suo tremore al suo tocco.

“Innamorato della fanciulla, il Re la prese con sé. Durante il viaggio, ordinò in segreto che la moglie fosse imprigionata, e che giungesse loro la notizia della sua morte.”

Questa volta, avvertì una fitta di vergogna.

Non ne andava fiero, ma non aveva avuto scampo. Gli avevano dato la sposa sbagliata, d’altronde: avrebbe ripudiato cento Procne, per una sola notte con Filomela, ma quella giovane ostinata non gli avrebbe concesso neppure una carezza sapendo di far torto alla sorella, se quella viveva.

Procne era stata una buona moglie, d’altra parte – così aveva creduto allora: ucciderla sarebbe stata ingiustizia. Se solo non fosse stato tanto magnanimo.

“Ingannai Filomela, non lo nego,” fece, interrompendo la terribile Dea cangiante. “Ma chi di noi non è folle, in amore? Procne aveva tutto quello che poteva desiderare: buon cibo, splendidi abiti, abili servitrici. Per Iti era tempo di lasciare le gonne e iniziare a imparare la guerra: avrebbe rinunciato a lui ugualmente.” [17]

Se l’era ripetuto allo spasimo, e suonava tutto giusto in quel momento, come era suonato allora.

“Mia moglie… lei pure aveva ingannato me, tuttavia…” sussurrò, e il suo sussurro rimbombò contro il soffitto. “Mi aveva fatto credere di essere una buona sposa, una donna onesta, ma non faceva altro che lamentarsi per la lontananza dal palazzo.”

Discorsi insopportabili che perforavano il cervello, stridule preghiere: era colpa di lei se aveva trovato un modo solo per farla tacere. Una donna era proprietà del marito, dopotutto.

“Tereo le tagliò la lingua con la sua spada. Alla giovane sorella aveva già tolto con la forza la verginità, e quella si convinse a sposarlo.”

Un dio dovette prenderlo per i capelli perché non si lanciasse contro la Dea giovane e vecchia, a quella calunnia.

“Filomela mi amava!”

Se gli aveva opposto resistenza, quella prima volta nella stalla, era stato solo per candore virginale.

Non aveva immaginato la voluttà con cui gli aveva offerto il suo corpo in occasioni più liete; come la pelle fremesse sotto le sue dita, il petto che si alzava ed abbassava lento.

Tereo scosse il capo, guardando da una parte all’altra del salone. La Dea continuava a parlare. Il viso della Regina non mostrava emozione.

“La legittima sposa è una creatura ingegnosa. Il marito le aveva tolto la parola, ma non le mani. Abile tessitrice, fece avere un messaggio alla sorella scritto col filo rosso sul suo peplo nuziale.”

Così, aveva fatto. Avrebbe dovuto recidere ogni suo arto, farla a brani come lei aveva...

“Quella lesse il messaggio sulla trama della stoffa, venne a sapere che la sorella era viva e la liberò, travestita da adoratrice di Dioniso.”

Riusciva ad immaginare Filomela, quella notte che i monti risuonavano di strumenti di bronzo: il capo coperto di vite, la pelle di cervo al fianco e in mano la lancia della cacciatrice. [18] La vedeva come uno splendido predatore, mentre si preparava a colpirlo alle spalle.

“Riunite, le sorelle studiarono un piano. Follia si impossessò della sposa ingiustamente tradita, che prese il sopravvento sul naturale amore di madre. Il figlio le tendeva le braccia, ma lei lo ferì ugualmente.”

Il suo intero corpo sembrava impazzire. Lo stomaco si contorceva come un serpente vivo, la spada gli tremava in mano come una foglia nel vento d’autunno, e lacrime gli inumidivano gli occhi.

Ecate dei crocicchi non esitò neanche un attimo.

“Assieme, le due donne fecero a pezzi il bambino. Recisero il capo, bollirono e arrostirono il povero corpo. Con un pretesto, egli divenne il banchetto del padre – e suo padre la tomba del figlio.”

La carne sotto i denti, così tenera, così saporita di spezie – il ricordo gli toglieva il senno e il sonno. Tereo si chinò, rovesciando il contenuto dello stomaco sul candido marmo. Convulsioni lo scossero tutto, dal profondo di sé, mentre lacrime rotolavano sul suo volto, sparivano nella barba rossa, lorda di bile.

Nessuno si fece avanti per prestargli aiuto, quando cadde in ginocchio, i palmi che cozzavano contro il pavimento.

Solo i suoi grugniti e i suoi gemiti rompevano la quiete.

“Mi somigliava...” mormorò, quando ritrovò la voce. “Aveva il mio viso, l’esatta sfumatura dei miei ricci. Sarebbe diventato un grande condottiero, d’animo fiero e con l’icore di Ares forte nelle vene.”

Sussultava violentemente, scosso da singhiozzi senza suono, ora, le palpebre una morsa sugli occhi strizzati.

“E quella figlia di una cagna immonda…”

“Non posso che concordare con te sull’orrore di questo delitto.”

La Regina tornò a parlare. “Un delitto commesso da entrambe le sorelle, e che entrambe dovranno espiare quando il loro tempo sulla terra dei Vivi si sarà esaurito. Come tu dovrai espiare i tuoi.”

Tereo strinse i pugni, tendendo la pelle sulle nocche.

“Hai avuto un assaggio di cosa ti aspetta, precipitando nel Flegetonte. [19] Il Destino ha modi curiosi. Non potrai sfuggire, qualunque punizione sarà decisa per te, dopo la tua morte.”

Il nero crepaccio che sembrava volerlo, bramare di consumarlo – la lenta corrente dell’acqua infuocata, la tortura senza fine di quel tocco sulla pelle: un singulto gli sfuggì, al ricordo della sofferenza indicibile, del cielo malato e la luna spietata quanto il volto della Fanciulla Oscura.

“Ti ho mentito, prima. Avevamo già discusso questo tuo caso quando accadde. Dimentichi che le Dionisie si celebrano nella mia stagione [20]; ne ero venuta a conoscenza, e i miei Giudici a lungo si sono interrogati su quale pena importi, terminata la tua esistenza umana.”

Sollevò un sopracciglio. “Spetterà al Custode delle Chiavi [21] darti il verdetto, ma l’ho visto crucciato al pensiero. Radamanto insiste che la tua violenza è difesa contro la violenza di Procne e Filomela [22]; ma forse che la loro vendetta, per quanto tremenda, non è conseguenza della tua crudeltà verso due sorelle che tanto si amano?”

La rabbia di Tereo non aveva parole.

“D’altra parte, che Iti sia divenuto l’innocente vittima sacrificale non può essere dimenticato. Le colpe dei padri ricadono sui figli. Cosa è giusto e cosa è sbagliato? Un dilemma da affrontare in futuro; più pressante è sapere cosa tu deciderai di fare, ora, Re di Daulide.”

Tereo rizzò le orecchie, sollevandosi sulle ginocchia e passandosi rudemente un polso contro la bocca insozzata.

“Decidere…?”

Lei gli rivolse cenno del capo.

“Ancora vivi. Non è possibile che tu resti nel mio regno. Se molteplici sono i modi di entrare, per lasciare questi lidi non vi sono che due sole maniere.”

Il tremore non si era ancora arrestato, ma Tereo strinse i denti racimolando la dignità. Era figlio del divino Ares.

La Regina districò le dita unite e levò la destra in aria.

“Hai di fronte a te due strade. Varcata la soglia della reggia, puoi voltare le spalle alle sue mura e procedere nella direzione in cui il sole sorge. Sempre avanti, quando gli asfodeli finiscono e dove vedi brillare il fuoco del Flegetonte, oltre il fiume scorgerai la Porta d’Avorio. Se ti perderai, le Ombre ti indicheranno la via, ma ne dubito; attraversata quella, sarai di nuovo tra i Vivi.”

La Dea tacque, abbassando la mano. “Poiché non ho potere nella tua terra, la maledizione riprenderà il suo corso, e il tuo corpo tornerà d’uccello. Se invece, uscendo dal palazzo, andrai dritto davanti a te là dove il sole cala, ti si pareranno di fronte due fiumi di luce. Immergendoti nelle loro acque, rinuncerai per sempre a questo tuo corpo.”

“Hai detto, Regina, che nel tuo regno non si può morire.”

“Ho detto, Mortale, che la mia vista non ti avrebbe ucciso, e sei ancora qui. Non si può morire, nell’Averno, ma si può rinunciare al proprio involucro di carne tuffandosi nelle acque del Lete e del Mnemosine, che scorrono attorno agli Elisi. Solitamente, solo alle Ombre più pure è consentito l’accesso a quei luoghi; poiché sei vivo, però, il tuo spirito ancora non appartiene a me e al mio sposo. Dalla casa di Ade non può uscire nulla che abbia corpo, se non dalla Porta d’Avorio: le altre vie sono chiuse. Se invece si tratta solo di spirito…”

Il tono tagliente e grave a un tempo, la Regina si alzò e la sua corte la imitò prontamente; solo la Dea giovane e vecchia rimase seduta, dondolando il corpo mutevole avanti e indietro.

 “Scelti che tu abbia i Fiumi, rinascerai a nuova vita; bagnati nei flutti del ramo sinistro e dimenticherai tuo figlio e il suo amore per lui; la tua vendetta ma anche i tuoi immondi delitti.”

Il viso di lei ebbe un fremito indecifrabile, mentre seguitava il discorso.

“Dovessi, invece, decidere per il ramo destro, comunque otterrai un nuovo corpo, e una mente che manterrà le memorie della vita passata, il tuo tempo con Iti e l’amore per Filomela; ma la tua collera per Procne non avrà fine, né svanirà il sapore della carne del tuo bambino sulla lingua.”

Tereo avrebbe desiderato potersi lacerare. Aprì la bocca per parlare, ma la Regina non aveva finito.

“Bada bene che è una gran concessione, quella che ti viene fatta. Se ti è data facoltà di scegliere il tuo destino, è solo per l’amore che porto per Ares, che, come Efesto, ha garantito per la propria discendenza: saputo che i vostri voli vi avevano guidato su queste rive, entrambi hanno domandato di intercedere per i loro congiunti.” Fece una pausa. “Poiché, tuttavia, non permetterò che io e il mio sposo veniamo defraudati dei nostri diritti, dovessi tu pure vivere la più pia delle esistenze, una volta morto sconterai la pena che ti spetta per la tua violenza verso le figlie di Pandione.”

Il terrore quasi lo rendeva cieco. Non poteva permetterselo. Prese un respiro rotto.

“Quello è il tuo futuro lontano. Preoccupati del presente.”

Tereo tacque, cercando dentro di sé la calma che gli era tanto più difficile da afferrare, con l’ombra del crepaccio in agguato schiacciata solo da quella voce che sempre lo tormentava con una sola domanda.

Il cervello, frenetico, lavorava nella scatola del cranio.

Aveva detto voi.

Dove? Dove?

“Hai altro da dirmi, figlio di Ares?”

Doveva tenerlo a bada ancora un poco; ancora per un attimo, e poi la caccia sarebbe ripresa: prima, di tutto, Iti.

“Mio figlio, chiedo per lui la grazia.”

Un’altra pausa greve, mentre Tereo teneva sospeso il respiro nel petto. La Regina si piegò come a un cenno invisibile, mentre le labbra frenetiche della Dea giovane e vecchia si muovevano, vicinissime al suo orecchio.

“Manderò un mio servo da quello sventurato re di Atene nel sonno, con un messaggio pietoso. Troverà il capo di Iti lì dove è rotolato, e gli darà la giusta sepoltura; tuo figlio riceverà l’obolo e attraverserà l’Acheronte quando potrà mostrare al Barcaiolo il volto di mia madre. [23]”

Il sollievo gli si diffuse in corpo, caldo come il brodo in una notte invernale. Si rimise in piedi, sollevando il capo con fierezza, vacillando appena.

“Non ci sono sacrifici che possano mostrarti la mia gratitudine, Oscura Regina,” mormorò, il cuore lontano, teso verso la piccola Ombra con la testa sotto il braccio paffuto. Due lacrime grasse gli scesero dai lati degli occhi, scomparendo nella barba. Inghiottì muco e bile.

“Non sono una sovrana crudele, pure se nel tuo caso, forse meriteresti di essere pagato con la stessa moneta che offri. Ti faccio quest’ultimo favore, non per Ares, ma perché sia io che te abbiamo entrambi portato in grembo i nostri figli.”

A quella frustrata, Tereo sussultò forte.

“Affrettati ad andare. Il mio sposo potrebbe non essere altrettanto clemente.”

Un ultimo sguardo, poi la Regina staccò gli occhi da lui, riportandoli alla sua corte. “Così è deciso...”

“Un istante ancora!”

Non fu brusca nel voltarsi di nuovo, ma nel suo silenzio c’era sorpresa per la sua impudenza.

L’aveva detto lei: non poteva ucciderlo o torturarlo più di quanto non avesse già fatto il Fato; doveva sapere dove. Il respiro accelerato, Tereo si leccò le labbra riarse, dal sapore disgustoso.

 “Le due sorelle, cosa hanno scelto loro?”

C’era quasi pietà nell’occhiata che ricevette in muta risposta.

“Nessun Vivente ha lasciato l’Averno, da quando il figlio della Musa scese a riscattare l’anima della sua amata. Un corpo, ha divorato il Lete, un corpo, il Mnemosine. Ora lasciaci. Che la tua vista non ci offenda oltre.”

 

Tra le Ombre grigie, una figura di viva carne corre tra gli asfodeli. Si slancia in avanti, la spada sguainata e un mantello di piume gonfio alle spalle, come una vela nera e bianca.

In lontananza, avvolti nell’insopportabile luce d’Elisio, i Fiumi lo chiamano.

 

Fin

 

 

 

 

NOTE

 

[1]: Nella mitologia greca, la personificazione del cielo.

[2]: Nella mitologia greca, l’equivalente divino del sangue. Viene definito di colore dorato o trasparente.

[3]: La divinità del sonno che risiede nell’Averno assieme al gemello, Thanatos. Viene rappresentato come un giovane dal capo alato. Suoi servi sono i Sogni, chiamati neri quando diventano incubi.

[4]: Fato e Necessità sono qui intese come le divinità che regolano la vita dell’Uomo.

[5]: Nemesi è la personificazione femminile della vendetta.

[6]: “Andare ai corvi” è l’equivalente in greco antico di “andare a quel paese”, “andare a farsi benedire”. Con questo insulto si intende augurare, all’offeso, una morte priva di sepoltura.

[7]: Le seguaci di Dioniso che, possedute dal dio, perdono il senno sotto gli effetti del vino.

[8]: Un epiteto delle tre Erinni.

[9]: Un epiteto, così come “Fanciulla Oscura”, di Persefone.

[10]: Eos, personificazione dell’alba, indossava un mantello dei colori dell’iride che all’occhio umano appariva come l’arcobaleno.

[11]: Posare gli occhi su un dio o una dea nella sua forma reale poteva provocare la perdita della vista (a seconda delle interpretazioni, come naturale conseguenza o per volere della divinità coinvolta), o persino la vita, come accadde a Semele, madre di Dioniso, che morì di spavento quando Zeus le comparve in tutta la sua potenza.

[12]: Le Colonne d’Ercole, individuate per convenzione nello stretto che separa l’estremo sud della Spagna e le cose occidentali del Marocco, rappresentavano il limite della conoscenza umana e la fine fisica del mondo.

[13]: Anticamente, si credeva che l’occhio fosse formato da due involucri concentrici contenenti liquido, rispettivamente il “bianco”, o sclera, e l’iride. Poiché Tereo non ha conoscenze mediche specifiche, ho pensato che potesse ricollegare la forma dell’iride a quella di un disco, immagine di riferimento per il “cerchio” nell’Antica Grecia.

[14]: Secondo alcune versioni, quando Minte o Minta, ninfa dell’Averno, si vantò che avrebbe sostituito presto Persefone nel letto di Ares, la dea si vendicò tramutandola in una pianta di menta. Ho immaginato che Persefone intrecci le foglie tra i capelli a perpetuo ricordo di quell’evento.

[15]: Il verso dell’usignolo in greco viene trascritto come “Itu, Itu”; si tratta della forma originale del nome di Iti, al vocativo. Secondo il mito, Filomela è condannata a pronunciare il nome del bambino in segno di contrizione per il suo assassinio. Altre versioni la sostituiscono con Procne.

[16]: Tereo e Labdaco erano entrambi discendenti di Ares: Tereo in quanto suo figlio, Labdaco in quanto discendente di Armonia, figlia di Ares e Afrodite. Mettersi contro un proprio parente era una violazione della legge non scritta che regolava la vita nell’Antica Grecia.

[17]: Dopo i cinque anni i bambini maschi, che fino a quell’età erano affidati alle cure della madre insieme alle femmine, passavano sotto il patrocinio del padre per essere educati alla vita adulta.

[18]: Una citazione quasi totale da Ovidio, precisamente dal canto VI delle Metamorfosi.

[19]: Secondo le fonti, nel Flegetonte venivano puniti i violenti contro i parenti.

[20]: Le grandi feste dedicate Dioniso venivano celebrate in primavera, periodo dell’anno che Persefone, personificazione della stagione nei panni di Kore, passava con la madre.

[21]: Si riferisce ad Eaco, custode delle chiavi dell’Averno che si occupava di giudicare gli europei dell’est.

[22]: Radamanto, fratello di Minosse, era famoso in vita per aver promulgato una legge sulla legittima difesa.

[23]: L’obolo che veniva posto sotto la lingua dei cadaveri per pagare il passaggio a Caronte portava impresso il viso di Demetra.

 

POSTFAZIONE

 

Qualche parola su questo lavoro, che prende spunto dall’episodio della trasformazione di Tereo, Procne e Filomela rispettivamente in upupa, rondine e usignolo, citato da vari autori antichi tra cui Apollodoro, Igino e Ovidio.

La versione del mito che ho scelto è quella dell’interpretazione di Rupert Graves, che vede Tereo, re di origini trace stabilitosi a Daulide, nella Focide, sposare Procne, figlia di Pandione, suo alleato contro Labdaco. La coppia ha un figlio di nome Iti, ma dopo cinque anni la felicità coniugale ha fine quando Tereo si innamora di Filomela, sorella di Procne, che dovrebbe condurre dalla sorella.

Secondo l’interpretazione di Graves, Filomela diviene l’usignolo che, pentito, chiama il nome del bambino ucciso; Procne è la rondine, uccello che non ha verso perché privo della lingua, così come ne viene privata Procne da Tereo (in altre versioni, le due si scambiano di ruolo). Tereo viene tramutato nell’upupa, il cui verso “Pou, Pou”, in greco “Dove? Dove?”, ricalca la domanda del Re alla ricerca forsennata delle due assassine.

Mi sono altresì rifatta ad Ovidio per alcuni dettagli, come le tempistiche dei fatti e l’assassinio compiuto durante le Dionisie.

Per quanto riguarda l’Averno, le fonti principali sono quelle antiche, principalmente Omero e Platone, dando una mia interpretazione circa il processo di accoglienza degli ospiti viventi e una rivisitazione di quello di reincarnazione grazie alle acque del Lete e del Mnemosine.

I ritratti delle divinità sono dedotti dagl’inni orfici per quanto riguarda Persefone ed Ecate e alla mitologia etrusca per Caronte.

Il titolo è altresì una citazione da Ovidio: nel testo delle Metamorfosi, Tereo, venuto a sapere di avere ingerito la carne di Iti, chiama se stesso “miserabile tomba del figlio”.

 

 

 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Epico / Vai alla pagina dell'autore: theuncommonreader