Storie originali > Romantico
Segui la storia  |      
Autore: _Fox    06/01/2016    1 recensioni
Raccolta su contesto e personaggi di "Sunsetville: vietato superare la notte", mia originale nella sezione Romantico. Leggibile, credo, anche ex novo.
Ogni capitolo della raccolta racconta un personaggio e lo filtra tramite gli occhi analitici, caldi e comprensivi di Johnny, legato a ciascuno di loro da un momento o un dialogo particolare.
Prima OS: Johnny/Adam Junior McKenzie
La rabbia di Mc l’ho scoperta da poco, così come la disperazione. Mi ci sono abituato in fretta, in realtà, nonostante all’inizio non fossi preparato. La prima cosa che impari di AJ è la gelosia per la sua tristezza, il modo in cui se la tiene stretta, e il disprezzo per qualsiasi forma di compassione. A guardarlo, traspare nient’altro che un malessere di fondo, una sorta di nausea esistenziale che non chiede opinioni né comprensione. Quello che è successo ha stravolto un po’ di cose, ha creato squarci su di lui che nessuno osa ricucire, almeno per ora. Come una ferita infetta, speriamo tutti che spurghi e preghiamo che non porti una necrosi. Da quegli squarci lì, appunto, sgorga la disperazione, e dalla disperazione nasce la sicurezza con cui AJ raschia il fondo senza chiedere aiuto.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 
Note alla lettura, per chi non conoscesse la storia di riferimento:
AJ, il ragazzo al centro di questa Shot, è il migliore amico di Johnny. Un mese prima di quanto vien raccontato qui, la ragazza di AJ viene brutalmente uccisa assieme all'amante, Michael, anche lui amico di AJ e Johnny. Dall'omicidio, dunque, scaturisce il contenuto di questa One-Shot e molto di quello che viene raccontato nella storia di riferimento (che potete trovare qui).
Buona lettura (:

1
AJ




 
Mostro il documento falso all’omone all’ingresso, uno di quei buttafuori che si vedono spesso nei film, burberi e corpulenti, che di solito ti rovinano i piani del venerdì sera facendo da muro umano tra te e l’ingresso del locale. L’omone di questa sera mi fa passare - si chiama Rick, a quanto ho capito. Rick mi fa passare e la mia opinabile fede nel destino mi porta a dire che Rick sa che questo non è un venerdì come tutti gli altri. Olly, prima ancora di Rick, ha avuto un ruolo fondamentale in tutto questo: dopo quasi due anni, le sue abilità nella contraffazione di documenti d’identità si sono così affinate che entrare è stato fin troppo facile. 
Mi faccio strada tra uomini ubriachi, eccitati; le luci basse e rossastre danno a questo posto l’ultima pennellata di squallore. Non è proprio il posto in cui io e gli altri verremmo a divertirci, questo – soprattutto, non ci verrebbero le ragazze. Dalle strade di questo quartiere, i grattacieli di Sunsetville li vedi solo da lontano, ma comunque t’appaiono come i soliti giganti di vetro formicolanti di luce. Le case son meno curate, le luci  e le insegne dei negozi, in strada, ricordano un po’ i quartieri periferici di Tokyo ma, insegne, luci e degrado a parte,  lo squallore americano ha un’impronta tutta sua. Mi allento la cravatta e sbottono un po’ la camicia non per amalgamarmi agli uomini sfatti ed eccitati naufraghi sui tavoli, quanto più per respirare.  Avrei dovuto indossare questo completo per occasioni più liete, ma non importa. Scendere all’inferno con eleganza è ugualmente importante.
L’aria è satura di parole sporche e sguardi ancora più lerci, tutti per le ragazze quasi totalmente spoglie che danzano e ondeggiano su quella specie di palco. Non ci metto molto a trovarlo. Sceglie sempre lo stesso tavolo – uno di quelli in prima fila, posizione centrale. Da questi dettagli deduci il sottile egocentrismo di AJ: vuole un posto d’onore anche quando si tratta di toccare il fondo.
Mi siedo al tavolo senza salutarlo, lui fa lo stesso e continua a guardare la ragazza mezza nuda sul palco. Mi dice solo “Brown, eccoti”, come se fossi solo uscito a fumare. S’è fatto la barba finalmente, dopo giorni passati a bere e fumare qualsiasi cosa all’Indipendence; quando ha il viso curato è più facile vedere quella smorfia elegante che spaccia per un sorriso ubriaco.
M’allunga il pacchetto di Lucky Strike, già aperto e mezzo vuoto, assieme al gruzzolo di banconote da cinquanta dollari che aveva accumulato sul tavolo. “Divertiti un po’ anche tu.”
Dopo anni, sempre i soliti giochetti. Non è una ricorrenza, questa serata in un locale a luci rosse dimenticato da Dio – e forse anche dal sindaco della città -, ma certi atteggiamenti di Junior non mutano mai: avrebbe più probabilità di smettere di fumare che di smettere di fare il bastardo.
“Davvero hai intenzione di fare lo stronzo con me, Junior?” Come al solito, la mia è una domanda retorica: è il mio ruolo e mi piace sempre, da sempre, tranne le poche volte in cui riesce a farmi incazzare. Mi viene da sorridere e lo faccio perché, nonostante tutto, questo gioco tra noi mi ha sempre divertito: io so che il suo caratteraccio è più una scelta che un modo di essere e lui sa di non potermi convincere del contrario, perché le bugie non mi convincono mai; perciò c’è sempre questo gioco di ruoli e mi va bene, anche ora che siamo nel fango, AJ per affogarci e io per tirarcelo fuori.
Lui non risponde alla mia provocazione, beve un sorso di qualcosa. Conoscendolo, sarà whisky, ma non quello pregiato con cui s’è viziato negli ultimi due anni.
“Dio, dovrò tenermi alla larga da Kim almeno per un mese prima di poterla toccare di nuovo.” Perché è tutto così abietto che mi sembra di peccare, anche se è stata Kim a mandarmi qui, come le altre volte, dicendo Tocca a te, io non posso farcela.
“Quante storie.” AJ sembra uno di quegli ubriachi annoiati dalla forma di divertimento che si son scelti, ma si tiene in piedi perché la miseria vale più della noia. Afferra una banconota da cinquanta, si alza e mormora qualcosa alla ragazza ora china su di lui, poi affida i soldi al misero elastico che la suddetta vuole spacciare per biancheria. Urla porcherie che non ripeterò perché non voglio denunciare la profondità dell’abisso a cui si sta aggrappando con quella sua disperazione dissoluta e testarda – in fondo sono qui per trascinarlo via. Ma AJ vuole sempre giocare, che sia resa o resistenza, e rimarrà sempre un po’ bambino in questo: si prende un po’ di tempo per i capricci, tutto quello che può, perché lui sa – che io so – che non potrà ignorarmi per sempre.
Torna  sedersi, ruba una sigaretta al pacchetto e me lo porge di nuovo. Se l’accende, mi provoca un po’ con lo sguardo e io so – che lui sa – che dovrò farlo per forza, perché non mi seguirà mai se non mi sporco un po’ anch’io le mani di fango. Me ne accendo una e lo guardo; mi faccio un paio di calcoli su quanto tempo servirà prima che mi segua.
“Guardala.” Torna a guardare il palco; sento appena la sua voce al di sopra della musica. “Guarda come si muove. Anche Roxanne faceva così…” la ballerina è a gattoni e si atteggia in movimenti poco equivocabili. “Ora che ci penso, Roxy era anche più brava. Era proprio nata per fare la troia.” La ragazza gli scocca un cenno d’intesa accompagnato da un chiaro invito e vedo AJ ridere, questa volta di gusto. Vedo la sua gola vibrare e ne deduco il suono, nonostante ci sia troppo caos perché senta qualcosa. La sua risata è lunga, come quando si lascia travolgere dall’ironia e non vuole più smettere; è l’unica persona che conosco che per ironia ride davvero, con la stessa agilità con cui si ride per il solletico. Afferra un pugno di banconote e questa volta le lancia sul palco un po’ a casaccio.
“È la seconda volta in una settimana che vengo a prenderti qui, Junior. Se continui a spendere così, Adam Senior tornerà in territorio americano alla ricerca del figliol prodigo.” Inizio a sfotterlo un po’, rispondo all’ironia che lui ama con un’ironia che odia – alle mie battute non ha riso nemmeno una volta. Sul tavolo ci sono cenere sparsa e mozziconi spenti, il che è una chiara denuncia del disprezzo di Mc per il luogo. Faccio un cenno a una cameriera di passaggio e chiedo un posacenere per rimediare. Il mio fumo si mischia al suo e rende la sua figura opaca, ma non ho bisogno di guardarlo per sapere le sue espressioni e prevederne le reazioni: è pur sempre il 6 settembre, è passato solo un mese dall’omicidio e AJ il fondo l’ha toccato già, ma questa volta ha deciso di raschiarlo.
La mia provocazione gli arriva un po’ in ritardo, deduco, dato quanto ci mette a rispondermi. Il che mi fa pensare che quello che sta sorseggiando ora dev’essere almeno il terzo bicchiere di whisky a digiuno.
“Non mi va il gioco del fottuto Grillo Parlante, stronzo di un Brown.” Mi scocca un’occhiata annoiata, sbatte il bicchiere sul tavolo e prende un lungo tiro. Guarda il posacenere appena arrivato e, di proposito, cicca sul tavolo in legno. Questa è la fase delle provocazioni – perché c’è sempre una fase delle provocazioni – perciò prendo un sospiro, ordino un’acqua tonica e scrollo via la cenere nel piattino apposito. AJ intanto si gira di nuovo verso la spogliarellista per mormorare porcate e scialacquare denaro.
Guardo l’orologio. Sono le due di notte, è passata quasi mezz’ora e penso a Kim al Blues con gli altri, Kim che si fida così tanto di me da non avere il minimo dubbio sugli esiti della serata. Pensare alla fiducia di Kimberly m’infonde pazienza, soprattutto quando sono a corto di risorse a causa della testa di cazzo qui presente.
Il problema di Mc è che ama l’eccesso, lo ama a tal punto che non sa dire basta - lo ama così tanto che avrà rischiato di morire almeno tre volte negli ultimi dieci giorni - ma non sono qui per biasimarlo: non con una vita come la mia, non dopo tutto quello di cui AJ mi ha reso testimone. Perciò lascio che lanci altre banconote, che finisca la sigaretta e che mi accusi, con un’altra smorfia che vuol spacciare per sorriso, di non sapermi divertire; aspetto altri dieci minuti e qualche sorso d’acqua tonica e dico: “Andiamo a casa, Junior.” Poggio entrambi i gomiti sul tavolo e mi sporgo verso di lui, in modo che gli sia impossibile ignorarmi. “Ti porto a casa.” È un lavoro sporco, il mio, rischioso quanto quello di un artificiere, perché in questi momenti Mc è una dannata bomba a orologeria: si gonfia di silenzio, rancore, sensazioni represse, e non le sputa fuori fino a quando non lo avrai provocato a sufficienza. In teoria io dovrei disinnescarla, la bomba, ma con Junior non è così che si fa: non sarà mai in grado di rialzarsi se prima non crolla a terra. Preferirei non crollasse qui, però. Preferirei non si prendesse una malattia venerea o cose simili e che non attaccasse briga con questa manica di vecchi ubriaconi dalla vita sessuale insoddisfacente. Il mio compito è evitare tutto ciò, dunque, perché Junior non merita una vita sporca, non così sporca, anche se dimostra di volerla a tutti i costi.
Se c’è una cosa che ho capito, negli anni, è mi tocca anche essere giudice, perché AJ non è in grado di giudicarsi da sé, di scegliersi il bene e di scartare il male. Mettiamola così: se ci fosse una strada vera e propria per l’Inferno, a quest’ora sarei impegnato nell’inseguimento ad alta velocità della sua Range Rover.
“A far cosa, esattamente?” Eccolo che insorge. Finalmente si dimentica della spogliarellista, dei soldi e dello sfacelo tutt’attorno e si dedica a me soltanto. Il suo volto è distorto dall’alcol, dalle notti insonni e da tutto quello che mi sta tacendo. Gli occhi sono lucidi e arrossati, ma li vedo baluginare nonostante il fumo. “Per vedere Kim pentirsi della scelta ogni volta che mi guarda? Per sentirmi dire cose di cui sono perfettamente consapevole? Per avere la pietà degli altri? Rispondimi, Brown: per quale cazzo di motivo dovrei seguirti, esattamente?” Inclina un po’ il capo, lo fa sempre quando la sua curiosità è sincera. Non mi sorprende che anche questa volta, anche nel fango, anche sul fondo, sia una questione d’orgoglio, di aspettative deluse. In questo caso, quelle di Kim, che è rimasta con lui ma non è abbastanza forte da tollerarne le conseguenze, se le conseguenze son queste.
Non gli rispondo: la sua curiosità si fonda sulla speranza che almeno questa volta la risposta non sia quella che già conosce – anche lui fa domande retoriche, ma con la disperazione di chi non sa più ribaltare il gioco, mescolare le carte. Di nuovo il sorriso ironico, di nuovo la smorfia di amaro disgusto, poi il suo sguardo fa un salto rapido verso la cameriera di passaggio e AJ ruba un bicchiere di liquido bruno dal vassoio. Beve tutto d’un fiato, mi dedica una smorfia di disprezzo – fingiamo entrambi, di comune accordo, che quel disprezzo valga qualcosa - e volge di nuovo lo sguardo verso il palco.
“Non voglio vedere quella manica di idioti, cazzo. Preferisco star qui a guardare queste troie che imitano Roxanne.” Il turpiloquio, assieme al sorriso stirato che accompagna le sue parole, è la prima inequivocabile conferma di quanto sia ubriaco. Effettivamente, sarebbe meglio che Kim non vedesse tutto ciò: quando mi ha chiesto di cercarlo non aveva un’idea precisa di dove effettivamente si fosse cacciato; ormai son sicuro che AJ scelga questi locali per tenerla al sicuro dal suo lato peggiore. Fino a tal punto si odia e la ama.
L’espressione che assume guardando la ragazza lì sopra l’ho già vista: ce l’aveva addosso il giorno dei funerali, poi quella volta che l’ho beccato all’Indipendence a guardare il dannato videotape, due giorni dopo la sepoltura, e anche quando ho distrutto la cassetta sotto i suoi occhi col vecchio fermacarte di suo padre – l’unico oggetto in casa sua, oltre agli specchi, che avrebbe volentieri sacrificato. Solo adesso, seguendo il suo sguardo sul palco, mi accorgo che la ragazza ha lunghi capelli biondo cenere e gli occhi chiari dalla forma affilata.
“Stai dando il peggio, Junior.” Non nomino Kim perché ci rimetterei la faccia e non è ancora il momento. Non nomino Kim perché non sono un bastardo, anche se lui non fa che ripetermelo, ma anche perché questo non è un gioco che si vince per contrasto. “È passato un mese, ormai. Stai finendo tutte le buone ragioni che ti rimangono.” Opto per la verità e so già che mi manderà a fanculo, ma fa tutto parte del piano, dell’ordine delle cose, di quella routine sporca a cui mi sono abituato anch’io dopo le ultime settimane. So anche che non uscirà dal locale finché non ne avrà voglia, e ne avrà voglia solo quando non potrà più raschiare il fondo a causa del dolore alle mani. È testardo, Mc, testardo nella sua voglia di distruggersi tanto quanto lo sono io nel volerlo ricomporre; quindi, come tutte le altre volte, l’esito è incerto nelle tempistiche – diventa una questione di resistenza. Non gli importa d’esser prevedibile quando, dopo la mia provocazione, sfoggia un dito medio e sbatte poi il pugno sul tavolo. “Fanculo, Brown. Non m’è rimasto altro, almeno tu dovresti saperlo. Fanculo.” Se non lo conoscessi, direi che l’odio che gli vedo negli occhi è per me e me soltanto. In realtà, questo per Junior non è un duello, quanto più lo scontro con un esercito di ricordi. Perciò prendo un respiro profondo, lo guardo dritto negli occhi e incasso.
“Metti la giacca, Mc. Intanto io pago il conto.”
Mi guarda furente. Deve aver creduto che la marea di banconote sul tavolo fossero un’ostentazione sufficiente a evitare un mio atto di gentilezza. Dagli occhi che ha, è chiaro che mi stia insultando in violento silenzio. Alla fine resto seduto, perché so che sta per sputar fuori qualcosa ed è un bene che, per una volta, parli di qualcosa che non riguardi Roxanne e di quanto le piacesse scopare. “Ho iniziato la terapia, lunedì. Tutta colpa di quella fottuta sentenza. Mi sembra di parlare con la tua versione femminile, Testa di Rame, sai? Tante chiacchiere e tanta serenità, ma in fondo non capisce un cazzo. Proprio come te.” Ride, torna al palcoscenico. “Loro  mi capiscono invece. Sanno che non ho bisogno di qualcuno che parli di cazzate, di cosa ho bisogno, di cosa esattamente  sto provando. Queste troie tirano fuori la mercanzia e tacciono, a differenza di Roxanne tacciono, e non mi dicono come cazzo dovrei sentirmi, cosa dovrei fare, come dovrei scoparle. Le ho scelte per questo. Ora hai capito perché ti trovo tremendamente insopportabile, Brown?”
Mi scocca una rapida occhiata, solo per sondare la mia reazione. Mi vede sorridere e la cosa lo irrita, tuttavia sa – che io so – che i suoi insulti sono pura catarsi, una banale facciata. Per lui son sempre stato un muro di gomma: il nostro coesistere in modo precisamente assurdo è iniziato quand’eravamo bambini e proprio non riusciamo a smettere. Non credo mi perdonerà mai per questo, come non mi perdonerà mai il voler sposare Kimberly.
Mi faccio perdonare tacendo. Ordino un’altra acqua tonica e attendo in silenzio. Il silenzio, così, diventa moneta di scambio e, più che con gratitudine, AJ mi ripaga con un’altra confessione:
“Non ho bisogno di sapere come dovrei sentirmi, come dovrebbe essere, cosa dovrei pensare. Navigo nella merda, Brown, e la merda è solo merda. Non c’è niente da capire.”
Non c’è niente da capire. Lo dice sempre, e forse ha ragione: non c’è niente capire perché la vita e i pensieri di AJ non li capirà mai nessuno; con lui ci saranno solo tentativi falliti, amore incondizionato e il raro successo di pochi testardi – e dell’unica eletta. Io m’accontento di sapere come tirarlo fuori dalla merda un passo alla volta. Per inciso: anche se fossi in grado di capire, AJ non me lo confesserebbe mai – perché so – che lui sa – che sarei imperdonabile.
Mc svuota il bicchiere e scivola lungo la sedia; si mette comodo e riprende a ignorarmi. La musica si attenua un po’, ora sento anche qualche risata lasciva dalla periferia della sala.
“Sai, Junior, secondo me la terapia è buona cosa. Magari ti trascinerà via da qui una volta per tutte e  non dovrò più tornar qui a raccattarti.” So già come reagirà, tuttavia non risparmio la provocazione. Voglio svegliarlo, distrarlo da questa miseria languida, voglio che abbia così tanta voglia di prendermi a pugni da doversi infilare la giacca e uscire di qui, anche se molto probabilmente non aspetterebbe che fossimo fuori entrambi per il primo cazzotto. Prevedere le sue reazioni un po’ mi diverte, ma mi fa anche sentire sicuro degli esiti. Certe abilità le affini dopo qualche anno, un bel po’ di casini e tanta, tanta pazienza.
“Cos’è, tutto questo ti stanca?” Il suo sorriso è affilato da un lieve disdegno. “Non ti ho chiesto di raggiungermi, Testa di Rame. Sono qui per raschiare il fondo, ed è sempre più divertente quando si è da soli.”
Mi portano la mia acqua tonica. È già stappata. La cameriera me la porge con una certa lascivia e attenta alla mia cravatta come se fosse un guinzaglio,  ma riesco a prendermi la mia bibita salvando il completo – e la coscienza. AJ intanto ha perso interesse per la ballerina, che già da un po’ lotta invano per le sue attenzioni – credo più per il fatto che sia il cliente più appetibile nella stanza che per le centinaia di dollari che le ha già infilato nelle mutande.
“Kim pensa io sia un caso perso, ormai. Lo vedo da come mi guarda.” Gioca col bicchiere, ne guarda il contenuto quasi divertito. Se non fosse AJ, direi che si tratta di autocommiserazione. “Sono la sua prima delusione. Son sempre stato più bravo di te in questo. Almeno in questo.” Inutile specificare quanto lui trovi la cosa divertente. Dopo un po’ l’ironia di Mc ti entra nelle ossa, arrivi a prevederla. Completa la scena accendendo una sigaretta e mi porge il pacchetto – di nuovo alla ricerca di una connessione. Lo imito e mi faccio passare l’accendino – gesti allenati, i nostri – ed eccoci alla seconda sigaretta insieme, quella che avrebbe esaurito l’attesa.
“È stata Kim a mandarmi qui, Junior, prima che prendessi io l’iniziativa. E sappiamo entrambi che Kimberly non combatte mai cause perse.” Poggio la bottiglia, espiro il fumo e m’avvicino, in modo che non possa far finta di non sentire. “Ma non può andare avanti così. Perciò, Mc, io e te ora finiamo questa sigaretta e ce ne andiamo. Sai bene che questo giochino non può finire con te che bruci tutti i soldi su questo tavolo.”
L’ennesima risata lo scuote, alimentata dall’alcol. Devo scostarmi per evitare che mi colpisca e che mi bruci il completo con la sua sigaretta. “Non dire cazzate, Brown. Sai bene che non esiste modo più soddisfacente di sbeffeggiare mio padre che scialacquare il suo caro denaro.” È prevedibile che mi provochi ancora: raccoglie con precaria teatralità tutte le banconote sul tavolo e le lancia una a una sulla ragazza, di nuovo china verso di lui, che ne afferra il più possibile e gli fa l’occhiolino. Sono entrato qui certo che non sarei arrivato al punto di dover impedire fisicamente un rapporto carnale, ma per come si stanno mettendo le cose il rischio è grosso e gli esiti più incerti di quello che speravo. È questa la piccola vittoria di AJ: manda a puttane qualsiasi strategia, tutte le statistiche falliscono. Se sceglie il precipizio, non esiste nulla che possa impedirgli di cadere: per riportarlo a galla devi precipitare con lui. Nelle ultime settimane son precipitato molte volte, forse troppe, e va bene così, come è andata bene tutte le altre volte, questo finché non scelgo d’incazzarmi. A questo punto so – che lui sa – che la scelta è mia, perché sono l’unico lucido abbastanza da poter scegliere. Infatti:
“Ora, Brown, le alternative in questa serata di merda sono due: vattene o fammi compagnia. Non mi serve un cazzo di moralizzatore. Non mi serve nessuno a ricordarmi quanto io stia sbagliando. Il mio amico s’è scopato la mia ragazza, nella morale non credo più.”
Lascio che parli, lascio che arrivi alla domanda cruciale. Perché io so – che lui sa –  che alla fine è di nuovo retorica, ché alla fine di questa notte saremo ancora in due, incerto è solo il luogo. È tutto un gioco di resistenza, come piace a lui. C’è solo da stabilire a chi toccherà il sacrificio.
“Allora, resti?”
 
 
 
 
 
 
 
La prima cosa che mi vien da pensare è che ho fatto la scelta giusta ma Kim avrebbe fatto comunque di meglio. Ma ovviamente si parla di Kimberly, si parla di Mc, e ci sarà sempre un momento, non importa quanto breve, in cui non sarò all’altezza, e va bene così. È giusto così.
Non mi pento di aver perso la pazienza: AJ lo si salva solo dimenticando il compromesso, perché dimenticando i compromessi AJ si condanna. Siamo usciti dal locale, ho il suo braccio attorno al collo per tenerlo in piedi. Saluto Rick il buttafuori, mentalmente lo ringrazio e mi auguro, senza pretese, che quella sia l’ultima volta. AJ è un peso morto alla mia destra, lo sento grugnire dal disappunto. È questione di minuti. Tra un paio di conati ritroverà l’equilibrio e riuscirà a parlare il poco che serve per darmi del bastardo, perché sono il solito guastafeste e non so divertirmi. Non è solo l’alcol ad ammutolirlo: perdo la pazienza di rado, ma quando accade la ricompensa è l’eccezionale mansuetudine di AJ, la tipica resa disperata di chi non sa dirsi Basta così. E va bene. Kim avrebbe fatto meglio, Kim avrebbe preferito non si ubriacasse e che non lo stordissi con un pugno per tirarlo fuori da un bordello, ma va bene così.
“Sei… sei un lurido…” Eccolo che prova a parlare. C’è riuscito con successo giusto un attimo fa, quando gli ho detto Resto con te, Mc, ma tu vieni con me e ho dovuto assestare il miglior gancio destro della mia vita per saltare la fase delle obiezioni e passare direttamente all’uscita dal locale. Con una delle sue risate isteriche infiammate dall’alcol, mi ha dato del bastardo – di nuovo – e ha chiesto il numero della spogliarellista, perché gli ricordava Roxanne – da ubriaco, è ovvio che abbia sentito l’esigenza di specificarlo.
Si ribella alla mia presa; dalla geometria distorta delle sue labbra deduco che abbia fin troppo chiaro l’insulto ma non sia ancora in grado di pronunciarlo.
“Sei ripetitivo, Junior.” La rabbia s’è estinta col mio gancio destro, poco fa, e mi ha lasciato solo un lieve dolore alle nocche, quindi prenderlo in giro è di nuovo fin troppo facile. Mi caccio le mani in tasca e lascio che si goda la prima ondata di conati. Si appoggia contro un’auto e vomita alcol e succhi gastrici. Eccoci alla seconda fase, quella in cui lui sbraita e lotta per restare sul fondo, per tenersi stretto il baratro, con la lucidità disperata che solo il whisky può offrire. A me adesso non resta che ascoltare, perché fa parte del gioco, fa parte del ruolo – perché è l’unica forma di rispetto che Mc – da sobrio – apprezzerebbe. Perciò non c’è più resistenza, o compromesso. Ora a me tocca attendere che la bomba scoppi e a Junior tocca il dolore dell’esplosione. È così che deve andare e non posso evitarlo, eppure, almeno questa volta, vorrei non essere un muro di gomma, così da tenermi stretto un po’ dei suoi colpi e dargli almeno il trionfo di qualche frattura.
 
 
 
Anche da ubriaco, Mc è una roccia: è così orgoglioso da tenersi stretto il poco equilibrio utile a non crollare nella sporcizia e, soprattutto, a non chiedere aiuto.
“Sei un lurido bastardo. Lurido… bastardo… di un Brown. Tu dovevi… tu non hai il diritto di…” Si tira su, continua a camminare e non ci provo nemmeno a indicargli dove ho parcheggiato l’auto. Lo vedo gesticolare come fa sempre quando è in preda alla rabbia.
La rabbia di Mc l’ho scoperta da poco, così come la disperazione. Mi ci sono abituato in fretta, in realtà, nonostante all’inizio non fossi preparato. La prima cosa che impari di AJ è la gelosia per la sua tristezza, il modo in cui se la tiene stretta, e il disprezzo per qualsiasi forma di compassione. A guardarlo, traspare nient’altro che un malessere di fondo, una sorta di nausea esistenziale che non chiede opinioni né comprensione. Quello che è successo ha stravolto un po’ di cose, ha creato squarci su di lui che nessuno osa ricucire, almeno per ora. Come una ferita infetta, speriamo tutti che spurghi e preghiamo che non porti una necrosi. Da quegli squarci lì, appunto, sgorga la disperazione, e dalla disperazione nasce la sicurezza con cui AJ raschia il fondo senza chiedere aiuto. E io so come funzionano queste cose, io so come funziona lui, perciò non mi aspetto nient’altro che questo, né prego che finisca. Finirà quando deve, e finché non deve va bene così e io attendo. Soprattutto a questo punto della notte – e delle tante prima di questa che ho messo in valigia.
Per la sua rabbia, quella vera, devo aspettare un altro paio di conati – quel che serve perché ritrovi un po’ di stabilità.
Il quartiere è illuminato da sporche luci al neon dai bagliori azzurrognoli, c’è odore di umori e spazzatura dimenticata e un’eco lontana di squallore proveniente dal locale. Lo inseguo per una manciata di passi e mi fermo quando Mc s’addossa al muro e si piega per scaricare lo stomaco ancora una volta. Si tira su lentamente, ma con movimenti precisi, e quando finalmente riesce a guardarmi i suoi occhi sono arrossati, iniettati di rabbia. Anche questo l’ho previsto, come ho previsto il momento di questa notte in cui mi sarebbe toccato il ruolo di capro espiatorio. Per questo taccio, aspetto che lui parli e prego, per solo amore di Kim, di non essere costretto a perdere ancora la pazienza, a usare il senno: per come stanno le cose adesso, è meglio che AJ esploda con verità.
“Mi hai colpito sul serio? Mi hai dato un cazzo di pugno, schifoso pezzo di merda?!” La sua voce è acuta e raschiata e non si sente nient’altro. Ecco il primo spintone che non mi smuove e da cui AJ si riprende con un paio di passi oscillanti. “Chi cazzo ti credi di essere Brown? Cosa cazzo credi di capire?”
“Sai bene quanto mi freghi di capire, Junior.” Non è più divertente, ora  – questo è uno dei rari momenti in cui non mascheriamo la verità con l’ironia: io non ne ho più e anche Mc ha esaurito le scorte. “Ma sai che dovevo venire. Dovevo farlo. Finché lo farai tu lo farò anch’io.” Non mi aspetto che capisca tutto quello che gli sto dicendo, per questo l’agilità con cui assimila e ripudia le mie parole mi sorprende.
“Fanculo, John, fanculo! Sei una cazzo di delusione, anche tu una cazzo di delusione!” Con un gesto del braccio trafigge l’aria, sicuramente per un errato calcolo delle distanze. Sarebbe stato un altro spintone, lo so, ma AJ è troppo distante e vacilla. “Cosa ti aspetti, eh? Dimmelo, cazzo! Dimmelo! Perché anche tu ti aspetti qualcosa, come tutti gli altri figli di puttana che ti hanno mandato qui a raccattarmi!” Mi dà le spalle e muove qualche passo, barcolla tra il marciapiede e l’asfalto. Gli vado dietro, mani in tasca e respiri regolari in petto. Perde l’equilibrio, si salva appoggiandosi a un’altra auto e trova subito la spinta per riafferrare il baricentro. “Cosa cazzo pretendete di capire voi? E tu, Brown, sempre così convinto di cos’è giusto! Mi fai schifo, cazzo! Mi fate schifo tu e il fottuto senso di giustizia che vanti! Perché non capisci? Perché almeno tu non capisci che non me ne frega più un cazzo di fare la cosa giusta? Non ti basta quello che hai visto finora, ostinato figlio di puttana che non sei altro? Non ti basta? Cosa cazzo devo fare perché mi lasci in pace, eh?! Cosa devo fare perché mi lasciate morire come cazzo mi pare?” Mi raggiunge, lo sento arrivare e tengo le mani in tasca, sempre le mani in tasca. Sono un muro di gomma e per una volta vorrei esser cemento. Mi lascio dare una spinta, poi un’altra, recupero l’equilibrio in un niente; aspetto che perda tutto il fiato che ha per urlare e che sia costretto a prendere aria.
Non parlo, certo non perché non ci sia nulla da dire. So bene che anche le parole più giuste sarebbero per lui blasfeme, so che non potrò dire nulla che cambi le cose, anche perché non voglio cambiarle. Il dolore è una croce individuale e manifestarlo è un diritto, e AJ lo fa così, per coerenza e per naturale inclinazione. Mi sforzo di tacere, lo faccio per lui, ma so bene che il mio silenzio verrà presto massacrato dalle sue provocazioni. Infatti mi guarda mentre recupera fiato, e da come lo fa capisco che in questo momento sono solo una delle tante cose che vorrebbe distruggere. “Parla, cazzo! Parla! Dimmi perché tutto questo è sbagliato! Dimmi perché cazzo vuoi togliermi anche il fottuto diritto di soffrire!”
“Ascolta, Junior.” Levo le mani in alto perché il suo sguardo è così scavato dalla rabbia che mi sembra stia per spararmi. Non voglio calmarlo, né zittirlo. Voglio che sia libero in questo, almeno in questo, ma voglio anche che non ne muoia. Per questo parlo, e così divento bersaglio. “È giusto che ti senta così, è giusto, okay?” Non mi sfugge il disgusto che gli esplode in viso al suono del mio aggettivo. Non lo biasimo, dopo ciò che è successo non lo biasimo, ma io so che devo continuare. Devo dirgli che è esattamente così che ci si dovrebbe sentire, che è giusto al di là di qualsiasi prospettiva morale. Devo dirgli che non sono qui per correggerlo, o ammanettarlo con giudizi facili. Devo dirgli che non mi aspetto altro da lui, perché è giusto che almeno io mi aspetti da lui che sia solo se stesso. “So cosa vuoi ora, so che vorresti bere ancora fino a intossicarti e poi morire tra le puttane, okay? L’ho capito, cazzo, l’ho capito. Ma non sei solo abbastanza da permetterti che finisca così, capisci? È giusto che tu voglia morire, adesso, ma non è giusto che tu muoia. Capsici, Mc? Non lo è ora, non lo sarà domani, né tutti gli altri giorni in cui Roxanne e Michael ti sembreranno una buona ragione per morire, va bene? Io sono qui solo perché non t’ammazzi e per riportarti a casa, Mc. Quanto al resto, potrai girare tutti i bordelli che vuoi. Me li girerò tutti anche io.”
Ci mette un paio di secondi in più per bersi tutte le mie parole, poi le vedo scorrere una a una sul velo arrossato dei suoi occhi e istante dopo istante la sua espressione è sempre più ibrida, fino a che non diventa un compendio perfetto di rabbia, disperazione e sdegno. L’adrenalina gli fa da baricentro quando s’avvicina rapido, per una volta preciso nello spingermi via con forza. “Fanculo, fanculo, fanculo!” Urla così tanto che la voce gli si strappa come stoffa. Vuole farsi spazio quindi, com’è prevedibile, mi spinge via dal palco. Si passa le mani tra i capelli, s’accartoccia e quando si rimette in piedi vedo le lacrime. È la prima volta in otto anni e io so cosa è giusto, ma non cosa dire.
“Fa tutto schifo, cazzo! Schifo! Mi chiedi di tornare, ma per cosa? Rispondi! Rispondi!” Mi punta il dito contro, poi si guarda in torno alla ricerca di qualcosa da colpire. Non trova nulla e urla. Piange e urla. “Se ne vanno sempre via tutti, in un modo o nell’altro! Cosa c’è da salvare, eh? Dimmelo! Dimmelo! Cosa c’è da salvare?!” Si avvicina per uno spintone, lascio che mi porti via un po’ d’equilibrio e provo ad afferrarlo, ma si è già allontanato verso la prima macchina a portata di mano. Inizia a tirar pugni contro un finestrino finché non vede la prima frattura nel vetro. “L’unica persona che mi abbia amato davvero è morta, Brown, e l’unica che ho amato io era una dannata troia ed è morta anche lei, cazzo, prima che riuscissi a odiarla! Dimmi che giustizia c’è in questo! Dimmelo, tu che ci credi tanto! Dimmi che giustizia c’è se nemmeno l’uomo che mi ha dato la vita e questo schifoso nome del cazzo è qui a raccogliere i cocci!”
La voce gli muore e io lo guardo senza il coraggio di parlare e so che non avrei nemmeno il tempo di farlo, perché questa è la fase finale. Nonostante gli imperativi con cui ha voluto tirarmi fuori dal silenzio, AJ non aspetta e mi si scaraventa contro, di lui vedo solo la macchia nera della giacca e un lampo biondo mentre corre verso di me e mi getta a terra. Batto la testa. Ho le mani libere, ma non lo fermo: lascio che sferri il primo gancio, poi il secondo e il terzo, lascio che mi afferri per il colletto della giacca e urli ancora “Parlami! Parlami!”.
La verità è che sono entrato in quel locale sapendo che ci sarebbe stato almeno un momento, prima che la notte s’esaurisse, in cui avrei dovuto scegliere se difendermi o lasciarmi distruggere. Il punto è che della pelle non m’importa poi tanto, prima o poi guarisce. Non baderò ai lividi e al gonfiore, domani, né alla costola che molto probabilmente Junior m’ha incrinato scagliandomi a terra. La scelta, in momenti come questo, non è mai ovvia, perché la rabbia di Mc è sempre la stessa e sempre più viva. Se non si parlasse di lui, direi che è alimentata dall’odio. Non sai mai quanto durerà, quanti colpi sarà in grado di sferrare nonostante l’alcol e il dolore alle nocche. Questo è al di fuori di qualsiasi statistica e della più pura fede negli esiti. Perciò mi preparo, raccolgo le energie per ribaltare la situazione. La lucidità mi dà un vantaggio importante, perché riesco a passare sopra di lui prima che Mc se ne accorga. Carico il pugno, lo levo più in alto che posso e son pronto a tirare, ma prima lo guardo. Aspetto il momento – come il pescatore disperato nel cuore della tempesta – e per fortuna lo vedo: sul suo viso ci sono ancora i lasciti della rabbia – il rossore della pelle e la bocca stirata in un umano ruggito. Poi lo sguardo muta e io respiro, lascio che l’adrenalina si spenga e si spegne anche lui. La rabbia si riavvolge come un gomitolo nero e gli libera gli occhi; proprio di lì esce la disperazione. Mc ora trattiene il fiato e, ancora col pugno levato, lo guardo piangere – ora con tutto il viso, senza urla. Della sua voce resta solo un gemito di agonia. Un paio di singhiozzi gli percuotono il petto e lo sento rilassarsi sotto di me. Abbandona un braccio sul suo viso perché è troppo, davvero troppo, per il suo orgoglio. Gli sorrido come non ho fatto mai, senza ironia, o divertimento o provocazione. Gli sorrido – forse con un po’ di tracotanza, perché sorrisi come quello che gli offro appartengono solo a chi c’è già passato e abbraccia un dolore che riconosce. Abbasso il pugno, gli sistemo la giacca e la camicia ormai lorda, anche se è ancora bello e sdraiato per terra.
Mi sposto, crollo a terra anch’io. Mi sdraio accanto a lui e mi sbottono la giacca, mi strofino un po’ sull’asfalto per macchiarla un po’ – mi sporco di fango anche io. “Passerà, Junior. Non subito, ma passerà. E da me non avrai un briciolo di compassione, giuro, ma sappi che sette anni fa ho deciso che mi farai da testimone alle nozze, quindi non ho la minima intenzione di seppellirti prima del mio matrimonio.”
Piange ancora, ma meno di prima. E io vado avanti, perché è giusto, perché non c’è fretta e perché sono dannatamente bravo ad aspettare.
“Perciò, ora staremo qui altri dieci minuti, tu ti riprenderai, ti alzerai con me e ti farai portare a casa.” Guardo il cielo, è un favore che gli faccio. È macchiato da qualche nuvola e dalle luci sporche del quartiere, ma sembra comunque che la luna splenda più di qualsiasi raggio di sole dopo la tempesta. “A casa ficcherai la tua bionda testa di cazzo sotto la doccia, poi mi farò la doccia anch’io e mi presterai una di quelle camicie che paghi caro, più un paio dei tuoi jeans. Ti berrai un tè caldo, ti metterai a letto e non aprirai più bocca fino a domattina. E spera che non ci vogliano dei punti per quello che mi hai combinato alla faccia.” Tiro fuori il pacchetto di Lucky Strike dal taschino, prendo la mia sigaretta, l’accendo e poi tiro fuori la sua. Gliela lascio sul petto assieme all’accendino. Si copre ancora il viso con una mano arrossata dai colpi, ma sa – che io so – che mi sta ascoltando. “Questa volta hai comprato l’acqua tonica, vero?”
 





 
 ____

 
Grazie a chi avrà voluto leggere, davvero. Un ringraziamento sentito anche a chi sarà tanto di buon cuore da voler lasciare un commentino. :) Mi defilo, adesso, ma prima vi lascio i miei contatti. Alla prossima!

                                                                        Gruppo Autrice | Sunsetville: Eye Contact
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: _Fox