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Autore: miss dark    12/03/2009    4 recensioni
Disegno farfalle morte sul mobile della cucina e le coloro con le parole che mio padre mi urla la sera a cena. Continua a gridare, ma io non l’ascolto e mi mangio le mani assieme al pane, mentre dalla radio esce ancora quel rumore acido di sottofondo che lo ha fatto diventare sordo.
Genere: Malinconico, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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F a b e l l a

Credo sia più un esperimento che un prodotto ben riuscito.

Non so precisamente cosa sia.

Mi direte voi, forse.

 

 

 

 

 

 

Disegno farfalle morte sul mobile della cucina e le coloro con le parole che mio padre mi urla la sera a cena. Continua a gridare, ma io non l’ascolto e mi mangio le mani assieme al pane, mentre dalla radio esce ancora quel rumore acido di sottofondo che lo ha fatto diventare sordo.

La mattina, prima dell’alba, sento mio fratello chiamarmi cantando una filastrocca sulla storia della Prussia, accompagnato dalla chitarra di plastica che gli regalarono quando aveva sette anni. Mi siedo, allora, sulle piastrelle nere del bagno e mentre lui mi rovescia l’acqua della doccia addosso, io tiro la coda al gatto per farmi graffiare.

Chissà perché a lui sono sempre state indigeste le farfalle morte. Forse perché, semplicemente, gli facevano pena così colorate ed immobili sul marciapiede davanti alla chiesa cittadina.

Le osservo tatuate sulle mie dita e mi sembrano dei supereroi in pensione che hanno accumulato troppi buchi nella calzamaglia, che hanno persino dimenticato la parola magica per poter volare sui grattacieli in fiamme senza bruciarsi il mantello.

Sono diventati piccoli modellini di plastica che io ho trovato nell’uovo di Pasqua di qualche anno fa. Li ho disposti sul mio comodino e con la carta colorata mi son fabbricata un vestito da cui, però, si sono sciolti i colori, un giorno di sole cocente in cui ero pacatamente sdraiata all’ombra di un lampione.

Tornai in quel luogo il giorno dopo, in cerca del lampione con cui avevo stretto amicizia chiacchierando dell’odore della pioggia e delle torte alla nocciola, ma lo avevano ormai abbattuto perché non sfidasse più il sole con la sua piccola candela consumata.

Avrei voluto farci l’amore, con quel sole abbagliante; avrei desiderato bearmi fra i suoi raggi dorati, ma il giorno in cui comprai i trampoli per raggiungerlo e sedurlo, quello mi spinse di nuovo a terra.

A pensarci adesso, forse la colpa fu delle mie occhiaie o magari della tempera nera che avevo ingoiato quella mattina.

 

Ho deciso di colorarmi gli occhi con i trucchi che usavo da bambina e di ritentare la fortuna.

Mentre li raccolgo dal pavimento polveroso e sporco sul quale li avevo gettati in una sera di maggio, i pupazzi sugli scaffali eccessivamente bianchi recitano una commedia francese che scioglie in lacrime le punte sensibili dei miei capelli spettinati.

Riesco a trovare un rossetto rosso ed accecante sotto il termosifone e con esso mi riempio, soddisfatta, le occhiaie e le guance smunte.

Indosso il mio vestito scolorito ed un cappello viola con sopra una matassa di lana gialla per presentare colorato ed allegro il mio corpo distrutto e sorretto a stento da pezzi di nastro adesivo.

Mi dirigo verso la tomba del mio lampione e rivolgo la faccia impiastricciata verso il cielo, diventato verde per un gioco di riflessi tra le nuvole.

Sarà perché ho comprato dei fiori a metà prezzo o, forse, perché il caldo ha fatto colare il mio trucco, fatto sta che il sole mi getta nuovamente sul porfido gelido di questa piazzetta deserta.

Mi sento molto come un cavaliere che ha perso l’elmo e con esso la testa, perché, da dove sono finita, il sole non si vede neanche.

Accanto a me v’è una farfalla morta con le ali accartocciate che mi dice quanto sembri un cadavere e quanto sia spenta, nonostante un falso sorriso continui a squarciarmi il volto.

Con quelle parole riesco a dipinger di nero i miei occhi eccessivamente anonimi e a trovare la forza per disegnare con la penna anche me stessa, su quel mobile in cucina.

Mio padre è ancora lì, che ride delle mie ferite e, evidentemente, non si è ancora accorto che, sulla sedia accanto a lui, io non ci sono più.

 

 

  
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