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Autore: Nadie    10/01/2016    5 recensioni
Un giorno ha chiesto cosa fosse quell’amore ripetuto dai dischi in vinile di papà.
«Una cosa che aggiusta tutto.» gli hanno risposto.
«Come una super colla?»
«Proprio come una super colla.»
Adesso che il bambino che è stato lo ha abbandonato, capisce che gli hanno mentito.

[Ben e Prudence]
[La Legge del Resto - sentivo il bisogno di cambiar titolo]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Temporale '
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 24. La superficie delle cose
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Vado a fumarmi una sigaretta, torno subito.»
Occhi Bui si appresta a raggiungere l’uscita del ristorante, mentre le candele sui tavoli apparecchiati per due e i sorrisi di chi sa amarsi solo alle cene eleganti, gli fanno venire il voltastomaco.
Ed è grato agli Agosti freschi della sua Londra perché sono colmi di un’aria appuntita che sa cavargli via di dosso ogni pensiero. La stessa aria che, una volta fuggito via dalla sua finta bella serata, gli riempie i polmoni e gli soffia sul viso col suo fiato di brina.
Si merita quella seconda sigaretta quotidiana, soprattutto perché la disperata voglia alcolica si è aggrappata alla sua schiena con gli artigli e sono già tre giorni che chiude gli occhi e finge che l’acqua sia birra.
E allora si appoggia con la schiena ad un lampione e si fuma via la faticosa giornata e la squallida serata.
E non è fiero di se stesso.
Anche se ha spuntato un po’ la barba.
Anche se ha tagliato i capelli.
Anche se ha fasciato di nuovo la mano ferita.
Anche se si è vestito bene.
Non è fiero di se stesso.
Vorrebbe avere la freddezza utile a salvarlo dai ricordi, la stessa freddezza necessaria per voltare la pagina.
E invece è solo andato punto e capo senza sapere più quale storia scrivere.
«Tutto bene?»
Una voce femminile lo costringe a riemergere dall’abisso soffocante dei suoi pensieri, e il rumore ritmato dei tacchi alti sul marciapiede sembra pungergli insopportabilmente il cervello.
«Tutto bene, Ben?»
Occhi Bui alza per un momento lo sguardo e si ritrova di fronte una bella ragazza coi capelli corvini, la pelle bronzea ed un nome dal sapore importante, Isabella.
Isabella parla tanto e ascolta poco, le piacciono i tacchi alti e lo champagne ma non conosce, non immagina che, al di sotto della sua luccicante superficie, il mondo nasconda una periferia buia e sporca in cui niente va mai come vorresti, in cui si perde perché si deve perdere e non importa quanto buono o cattivo tu sia.
E gli piacerebbe sapere e potere ignorare quell’abisso sporco e disperato, ma il puzzo dei futuri bruciati e degli amori annegati gli è rimasto attaccato alla pelle, sotto ai vestiti.
Ed è un puzzo che non si può coprire, che non si lava via.
«Ben?»
«Sì?»
«C’è qualche problema?»
«Sì.»
«E quale?»
«Odio le sirene.»
Isabella lo guarda confusa. Isabella non capisce e non capirà perché ci sono certe cose che non si spiegano e non si capiscono.
Isabella non capirà perché nemmeno ci crede, alla sirene.
Ma c’è stato un ragazzo che se n’è ritrovata una accanto, seduta sulla panchina di una metropolitana buia come lo sono tutti i posti del mondo alle tre del mattino; buia come lo sono gli abissi sporchi dove le case restano senza luce e i figli senza padre.
E lui avrebbe dovuto voltarLe le spalle e tornare ad occupare il suo posto garantito in superficie, ma Lei aveva il nome di una canzone dei Beatles e due occhi che avrebbero potuto spegnere la luna e lui non poté farci nulla, quella sera. Non riuscì a non innamorarsene.
S’era innamorato dei suoi occhi verdi e delle sue labbra carnose e purpuree.
S’era innamorato del suo sorriso malinconico e della sua curiosità consumata.
E s’era innamorato del suo sguardo stanco, di chi non è abbastanza coraggioso da prendere un treno per un posto lontano e si ferma sulla panchina, a guardare chi parte e chi torna.
Il suo amore è sempre stato come un fiume in piena e l’immagine imprescindibile di Lei gli è rimasta ficcata in testa, a fargli male.
Ma non è più un male furioso: è un male disperato.
Lo stesso male disperato appiccicatoglisi addosso otto anni prima, lo stesso male disperato con cui si è svegliato ogni mattina ed è andato a letto ogni sera per quasi un decennio di tempo perduto.
Ha aspettato a lungo che il dolore si richiudesse nel suo guscio ma sa, sa perfettamente che le delusioni restano sempre da qualche parte in fondo alle tasche.
«Le sirene non esistono, Ben.»
Guarda Isabella, guarda Isabella e i suoi capelli scuri come la notte mentre il ricordo del passato inasprisce la sua concezione del presente, del futuro.
Guarda Isabella e vorrebbe poter vedere solo la superficie delle cose, poter credere alle verità assolute che la gente si mette in bocca e andrà tutto bene, Ben.
Ogni giorno può cambiare ogni cosa, Ben.
Niente si rompe irreparabilmente e nessuno si perde per sempre, Ben.
L’amore è una colla, Ben.
Le sirene non esistono, Ben.
Ma lui non è più un bambino che si fida delle parole, ormai è troppo grande per prestare ascolto alle rassicurazioni di chi non sa, non conosce, non ha visto ciò che ha visto lui.
E non ha sentito l’amore che ha sentito lui.
Ma del resto, nessuno è tanto stupido da innamorarsi di una sirena.
 
 
 
«Mi racconti qualcosa di te?»
La luce si infiltra con la forza del giorno che sorge tra le fessure della persiana, e il volto di Isabella appare trasognato in quell’oscurità violata.
«Sono una persona noiosa, Isabella.»
«Davvero?»
«Tremendamente noiosa.»
Non vuole raccontarsi perché di lui non è rimasto più nulla, sente d’essere diventato il torsolo di un uomo e la presenza, accanto a lui, di quella ragazza quasi lo infastidisce.
Sembra essersi stesa apposta al suo fianco, a ricordargli quello che non ha potuto avere, quello che ha perduto.
Pertanto si alza intorpidito dal letto e si riveste, con la lentezza di chi non si preoccupa affatto del tempo.
Di chi non percepisce affatto il tempo.
«A me non sembri noioso, ma annoiato.»
«Sono entrambe le cose.»
«E come mai?»
Occhi Bui allaccia la cintura del pantalone, mentre gli occhi di Isabella lo osservano attenti, desiderosi di decifrare il suo sguardo stanco, di comprendere il suo sguardo stanco.
Ha l’espressione di una gatta affamata, Isabella.
Affamata di cosa lui ancora non lo sa, ma spera non sia dell’amore che cercava anche Franziska.
L’amore di cui lui ha bruciato ogni scorta.
Dopo aver abbottonato la camicia, raccoglie da terra la giacca, mentre una sensazione di sporco gli intacca la coscienza. Ma dentro lui non è rimasto spazio per il senso di colpa, quindi muove qualche passo in direzione della porta mentre continua a percepire quegli occhi fastidiosi sulla pelle.
«Ci rivediamo?»
«Non lo so, Isabella. Non lo so.»
E se ne va.
 
 
 
È il primo pranzo della Domenica che passa in famiglia, la prima volta dopo quasi un mese in cui deve guardare sua madre negli occhi.
Ci aveva fatto l’abitudine, alle telefonate.
Si era quasi affezionato al gracchiare della linea e alle voci distorte, era stato per lungo tempo grato al filo invisibile del telefono che poteva, e sapeva celare il suo viso dallo sguardo di sua madre.
Lui conosce gli occhi di sua madre e sa che niente sfugge al suo sguardo, perché mentire di fronte a milioni di sconosciuti è semplice ma mentire a sua madre, che Dio lo salvi!
Già all’età di otto anni aveva rinunciato a raccontarle anche la più insignificante delle bugie, quando lei aveva scoperto che non esistevano partite di calcio pomeridiane insieme agli amici di scuola, ma lunghi pomeriggi di solitudine in paesini di campagna troppo lontani da casa, raggiunti con l’aiuto di un’instancabile bicicletta.
«Com’è stata la vacanza a Dublino?»
La cucina è avvolta da un tepore fastidioso, mentre sua madre controlla con occhio vigile il frutto della sua fatica mattutina, lasciato a cuocere nel forno.
Sono soli e lui vorrebbe tornare ad essere il bambino che è stato tanti anni prima, seduto al tavolo della cucina mentre leggeva ad alta voce una storia con il sottofondo di padelle e piatti, e dei ‘bravo’ e degli ‘attento alle virgole’ di sua madre, mai troppo stanca di ascoltarlo. Neanche dopo una lunga giornata di lavoro.
«Poteva andare meglio.»
«Tu e Franziska vi siete trovati male?»
«Io e Franziska ci siamo lasciati.»
Butta già l’ultimo sorso d’acqua rimasto nel bicchiere, mentre sua madre si volta a guardarlo con un’espressione che però non rivela affatto sorpresa.
«E tu stai bene?»
«Alla grande.»
Sua madre fa spallucce e sospira.
Occhi Bui sa che non è un buon segno, sa che lei sta pensando e riflettendo ma lui è così stanco, così stanco che prega lei capisca che non gli va di parlare.
Non gli va di spiegare.
«Che strano.»
«Cosa?»
«Hai lo sguardo innamorato.»
«Perché sono innamorato.»
«E chi è la fortunata?»
«La tua torta alle carote.»
Lei sorride. Lo stesso sorriso sfoderato ogni volta che, da bambino, lui le raccontava di incredibili goal mai segnati durante partite di calcio mai giocate.
 
 
 
 
Ti confesso, gentile lettore, che sono tremendamente imbarazzata per il ritardo con cui aggiorno.
Mai, mai prima d’ora avevo lasciato passare così tanto tempo.
Spero però che potrai perdonarmi, e che la mia totale disorganizzazione non ti abbia tolto il piacere di leggere di Ben e Prue.
Mi spiace moltissimo, davvero, ma il periodo attuale è più incasinato del solito e non posso neanche promettere un nuovo aggiornamento fulmineo.
Farò però del mio meglio per riuscire a pubblicare un nuovo capitolo in tempi civili.
Grazie, gentile lettore, del tempo che mi dedichi.
Grazie di cuore.
C.
 
P.S: Spero le foto di Astrid/Prudence e di Barny non scompaiano.
P.P.S: Oh Astrid! Come farà a venire così bene in ogni foto? 
  
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