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Autore: Emmastory    10/01/2016    2 recensioni
Heaven Palmer. Una ragazza semplice e nata da genitori amorevoli. Figlia unica ancora per poco. Ciò che l'aspetta è un nuovo arrivo in famiglia. Una bellissima sorellina che la renderà felice, ma che sarà anche la causa dei suoi tetri incubi. Qualcosa di strano aleggia in quella bambina, e come molti non faranno che ripetere, Gracie non è una bimba normale. La paura e l'amore si fonderanno, e solo i suoi amici più cari salveranno la giovane Heaven da un altrimenti funesto destino.
Genere: Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La-piccola-Grace-mod
La piccola Grace
Capitolo I
Membro di famiglia
Il mio nome è Heaven, e la mia vita poteva essere considerata priva di dolore e antagonisti. Ero figlia unica, nata da genitori molto fieri e orgogliosi di me. Ad ogni modo, e con lo scorrere del tempo, entrambi avevano deciso di desiderare un secondo figlio, così da essere felici e insegnarmi una lezione sull’essere responsabile. Sin dal giorno in cui hanno preso questa decisione, ho potuto dire addio ai privilegi datimi dalla solitudine. Ad essere sincera, l’idea di avere una sorellina mi allarga il cuore, ma nonostante questo, e forse data la mia giovane età, una parte di me non riesce ad accettarlo. Ora come ora, ho quattordici anni, e un’altra delle mie giornate scolastiche è giunta al termine. Lentamente, ripongo ognuno dei miei libri nel mio zaino, per poi scegliere di aprire la porta dell’aula e uscirne camminando al fianco di April, la mia migliore amica. Io e lei ci conosciamo sin dai tempi delle elementari, e il nostro rapporto non potrebbe essere migliore. Le voglio davvero bene, e so che sarebbe letteralmente pronta a sacrificare la sua stessa vita unicamente in nome della solida amicizia che ci lega sin dalla tenera età. Salutandola con un gesto della mano, sposto il mio sguardo dal suo viso alla strada, accorgendomi di aver ormai raggiunto la fermata degli autobus. Da quel momento in poi, attendo che il pullman passi a prendermi. Il mio viaggio verso casa ha quindi inizio, e una volta giunta alla mia destinazione, apro la porta di casa usando le mie chiavi, e richiudendola alle mie spalle con gran cura. “Bentornata.” Dice mia madre, salutandomi e tornando alle sue faccende domestiche. In questo preciso istante, è impegnata a preparare il pranzo, ma secondo il mio pensiero, qualcosa in lei sembra non quadrare. Tentando di liberare la mente da quel pensiero, raggiungo la mia stanza, sedendo alla mia scrivania e iniziando a fare i compiti. Una decina di minuti svanisce quindi dalla mia vita, e sento qualcuno fare il mio nome. Alzandomi in piedi, esco dalla mia stanza, per poi raggiungere il salotto ed accomodarmi sul divano di casa. “Dobbiamo parlarti.” Dissero i miei genitori, parlando all’unisono e apparendo incredibilmente seri. Mantenendo il silenzio, annuii lentamente, attendendo che iniziassero il loro discorso. “Sarai una sorella maggiore.” Esordì mia madre, sorridendo e alludendo alla sua condizione, fino a quel momento celata alla mia vista. “Cosa? Dite davvero?” chiesi, non potendo trattenere quella che sapevo essere una felicità a dir poco indescrivibile. Il mio interrogativo trovò una muta risposta nello sguardo di mio padre, i cui occhi brillavano per la contentezza. Appena un attimo dopo, scelsi di abbracciarli, congratulandomi di vero cuore con mia madre. Con il passare di un’intera ora, arrivò per tutti noi l’ora di pranzo, ed io consumai il mio pasto senza dire una parola. In quel momento, ero davvero felice, ma data la mia passione per il teatro, la musica e le arti in generale, avevo seppur lentamente imparato a dominare e nascondere le mie emozioni. Finito di pranzare, tornai nella mia stanza, sperando di avere tempo sufficiente a concentrarmi sui miei doveri scolastici. Andando alla ricerca dei compiti che mi erano stati assegnati, giravo freneticamente le pagine del mio diario scolastico, trovando una sorta di piccola nota su una delle stesse. Riflettendo, ricordai di averla scritta in un momento di noia, e leggendola, scoprii che mi avvertiva di una mia imminente lezione di teatro. Per quella che i miei genitori consideravano fortuna, la scuola che frequento offre numerose opportunità, ospitando anche alcuni club da frequentare nelle ore libere di una mattinata o nel pomeriggio. Date le mie numerose passioni per ciò che concerne il mondo dell’arte, ho scelto di unirmi al gruppo di teatro, sapendo che anche la maggior parte delle mie amiche ne fa orgogliosamente parte. Ora come ora, non lavoriamo a nessuna opera, ma nonostante tutto, e stando al parere del nostro insegnante, il signor Martin, il talento non manca a nessuna di noi. Ad ogni modo, il tempo scorre, e mentre sono occupata a studiare, il mio cellulare vibra, distraendomi dalla risoluzione di un complicato calcolo matematico. Istintivamente, poso lo sguardo sul display del mio telefonino, notando di aver ricevuto una chiamata. È April, che conoscendomi perfino meglio di se stessa, ci tiene ad essere sempre informata sugli ultimi avvenimenti scolastici. “Hai saputo? Mi chiese non appena risposi alla sua chiamata.” “Che succede? Raccontami tutto.” La incalzai, sperando che mi rivelasse quello che alle mie orecchie giungeva come una sorta di inconfessabile segreto. “Le ragazze dicono che il gruppo di teatro avrà un nuovo membro.” Rispose, per poi tacere in attesa di un mio parere a riguardo. “È fantastico!” le dissi, facendomi involontariamente sfuggire una risata. “Ci vediamo a scuola.” Continuai, notando la tarda ora di quel così caldo pomeriggio e ritrovandomi incredibilmente indietro con gli studi. Subito dopo aver salutato la mia amica, spensi il cellulare, riuscendo finalmente a trovare del tempo per studiare. Rimasi curva sui libri fino a sera, per poi scegliere di indossare il pigiama e infilarmi sotto le coperte. Poco prima di addormentarmi, fantasticai sull’aspetto che il mio fratellino o la mia sorellina avrebbe potuto avere. Inconsciamente, attendevo senza proferire parola, nascondevo la felicità che sapevo di provare e contando letteralmente i giorni che mi separavano dalla nascita di quello che sarebbe stato il membro più giovane della mia intera famiglia. Non riesco ancora a spiegarmene il perché, ma è come se qualcosa in me stia lentamente mutando. Improvvisamente, mi sento profondamente responsabile nei riguardi della dolce creatura che dimora proprio sotto il cuore di mia madre. Una donna meravigliosa, che amerà quel bambino come ha fatto con me nei giorni della mia infanzia, e come continua a fare ancora oggi. Quella sera, scivolai nel sonno con il sorriso sulle labbra, ben sapendo che avrei presto potuto accogliere un nuovo membro all’interno del mio splendido nucleo familiare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo II
Cambiamenti
Dando un concitato ritmo alle mie giornate, il tempo ha continuato a scorrere senza sosta, e con lo spuntare del sole in questa così radiosa mattina, arriviamo alla giornata odierna, che è completamente dissimile da ogni altra. Difatti, secondo il parere dei medici che hanno sotto controllo mia madre sin dal giorno in cui ha scoperto di essere in dolce attesa, lei dovrebbe essere ormai pronta a dare alla luce il suo nuovo bambino. La scorsa notte, entrambi i miei genitori hanno faticato a dormire, poiché mia madre continuava ad avvertire delle lancinanti fitte allo stomaco. Allarmato da quella vista e dalle sofferenze della moglie, mio padre mi ha svegliata, per poi ordinarmi di vestirmi e correre in auto. Senza proferire parola, ho deciso di obbedire, facendomi trovare seduta sul sedile posteriore della macchina. I miei genitori mi hanno raggiunta poco dopo, e da quel momento in poi, il nostro viaggio verso il più vicino ospedale ha avuto inizio. Fuori era buio pesto, ma per fortuna non faceva freddo. Intanto, il tempo scorreva, e mia madre continuava a lamentarsi. Il dolore che provava sembrava essere divenuto insopportabile. Al nostro arrivo, le sue urla risuonarono nei corridoi dell’intera struttura, e un’intera equipe medica si precipitò in suo soccorso. Passarono quindi le ore, e sentendo un’infermiera chiamare il mio nome dalla sala d’attesa, mi alzai in piedi limitandomi a seguirla, avvicinandomi quindi a mio padre, che con occhi colmi di gioia, guardava la sua tanto amata moglie, ora madre per la seconda volta. “È una bambina.” Ci disse uno dei medici, mentre mia madre era occupata a tenerla in braccio. “Come si chiama?” chiesi, avvicinandomi e posando il mio sguardo su quell’adorabile neonata. “Sarai tu a sceglierlo.” Disse mia madre, regalandomi un sorriso. A quelle parole, tacqui istintivamente, tornando a concentrarmi sulla mia nuova sorellina. Era appena nata, e ai miei attenti occhi appariva perfetta. Gli occhi azzurri come quelli di mia madre, e un viso tondo e paffuto, che ispirava gioia in qualunque persona la incontrasse. “Grace.” Dissi, tacendo nell’attesa di una sorta di approvazione. Lasciandosi sfuggire un’affatto amara lacrima, mia madre annuii, per poi chiedermi senza parlare di abbracciarla. Avvicinandomi, realizzai quel suo desiderio, e in quella stessa mattina, mia madre fu dimessa e dichiarata libera di poter tornare a casa. Durante il viaggio, non proferii parola, limitandomi ad ammirare il paesaggio e la strada che scivolavano via. Una volta arrivata a casa, mi rifugiai in quello che consideravo il mio nido, e sdraiandomi sul letto, afferrai il cellulare al solo scopo di comporre il numero di April. “Che mi racconti?” chiese, solo dopo avermi salutato.” Ho appena avuto una sorellina.” Risposi, non potendo evitare di sorridere. “Congratulazioni!” continuò, mostrandosi evidentemente felice per me. “Ti ringrazio.” Aggiunsi, per poi porle una domanda completamente differente. “Che si dice a scuola?” azzardai, sperando in una delle sue solite risposte ricche di dettagli. April mi conosce ormai da anni, ed è una ragazza dolce e gentile oltre che inguaribilmente romantica e pettegola. Ad ogni modo, quest’ultimo lato del suo carattere non mi tocca, poiché nonostante tutto, le voglio bene. “Avresti dovuto esserci.” Mi disse, con fare alquanto enigmatico. “Il nostro gruppo ha un nuovo membro, e lui vuole già conoscerti.” Continuò, rivelandomi il segreto che celava sin dall’inizio di quella nostra conversazione. “Di chi parli?” chiesi, spingendola a continuare a parlarmi. “Si chiama Nicholas, e gli ho parlato molto di te.” Ammise, per poi tacere e attendere che le fornissi una risposta. “Gentile da parte tua, ci vediamo.” Risposi, salutandola e ponendo fine a quella telefonata. Subito dopo, uscii dalla mia stanza, vedendo mia madre occupata a causa di Grace. “Posso aiutarti?” domandai, facendole una gentile offerta. “Mettila a letto.” Rispose, lasciando che prendessi in braccio la mia sorellina. Sorridendo, la accolsi fra le mie braccia, scegliendo quindi di adagiarla nella sua culla. La stessa, era stata posizionata nella mia stanza, così che io avessi avuto modo di controllarla assieme ai miei genitori durante la notte. Avendo cresciuto me prima di Grace, entrambi sanno cosa significhi avere un bambino, e ad essere sincera, non credo di averli mai sentiti lamentarsi riguardo all’intera faccenda. Guardando fuori dalla finestra, mi accorsi dell’arrivo della sera, e subito dopo la cena, decisi di andare a dormire. Mi addormentai con difficoltà dati i pianti della mia sorellina, ma nonostante tutto, la perdonai, riflettendo e porgendo l’altra guancia. Mi svegliai soltanto la mattina dopo. Mi sentivo stanca e priva di energie, ma ad ogni modo, mostrai la mia grande forza di volontà, andando a scuola come ogni giorno. Seppur lentamente, la mia vita si stava trasformando, ed io avrei dovuto accettare ognuno dei cambiamenti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo III
Recitare
La luminosa mattina mi ha incoraggiata ad aprire gli occhi, e sgusciando fuori dal letto, ho raggiunto la cucina e fatto colazione. Una tazza di bianco e fumante latte mi aspettava, così come una scatola di nutrienti cereali. Date le mie abitudini, ero in piedi di buon’ora, ragion per cui, sapevo bene di avere tempo sufficiente a prepararmi per la scuola. Una volta pronta, violai la porta di casa al solo scopo di salire sul primo pullman per la mia destinazione. Per mia fortuna, il viaggio non si rivelò lungo, ed io riuscii ad arrivare in aula con un leggero anticipo, avendo quindi modo di mantenere intatta la mia reputazione di studentessa modello. Alcuni minuti passarono, e il resto dei miei compagni fece il suo ingresso in aula. Non appena mi vide, April ne approfittò per salutarmi, ed io ricambiai affettuosamente. Ad ogni modo, la mia attenzione si spostò da lei a Nicholas, il nuovo e misterioso ragazzo di cui lei mi aveva parlato. Due occhi verdi come l’erba di un rigoglioso giardino, e un fisico asciutto che ogni atleta avrebbe certamente invidiato. Ignorando April, lo chiamai per nome, invitandolo quindi a sedersi accanto a me. Senza proferire parola, Nicholas non fece che guardarmi, scegliendo di sedersi nel banco accanto al mio. A quella reazione, non mi scomposi. Evidentemente, sapeva che April ed io eravamo grandi amiche, e a quanto sembrava, il suo intento non era quello di separarci. La campanella suonò squarciando il silenzio presente nei corridoi scolastici, e le lezioni ebbero inizio. Quelle che mi aspettavano, erano due consecutive ma stimolanti ore di storia, che seguii con grande interesse e senza distrazioni. Allo scadere delle stesse, un’ora di letteratura inglese, e poi, finalmente, l’intervallo. Ad essere sincera, il mio liceo poteva essere considerato diverso da ogni altro, poiché aveva adottato la stessa politica esistente in quelli americani. Per tale e semplice ragione, ogni studente era tenuto a trascorrere l’intervallo nella mensa scolastica. Alzandomi in piedi, lasciai il mio posto, e seguendo April, raggiunsi la mensa. Una volta arrivata, consumai il mio pasto senza proferire parola, per poi tornare in aula camminando al suo fianco. Le lezioni ripresero senza indugi, e con l’arrivo del pomeriggio, io e il resto delle mie compagne ci dedicammo all’attività che amavamo e che avevamo scelto, ovvero il teatro. Il signor Martin, nostro insegnante, era fiero di ognuna di noi, ma stando a quel che avevo avuto l’occasione di notare, sembrava preferire me al resto del gruppo. Avvicinandosi a noi, ci guardò negli occhi, per poi prendere fiato e iniziare a parlarci. “Metteremo in scena una famosissima opera.” Esordì, tacendo al solo scopo di studiare l’espressione dipinta sul volto di ognuna di noi. “I provini inizieranno domattina.” Disse, sorridendo e congedandosi da noi solo alla fine della lezione. Al suono della campanella scolastica, uscii camminando dall’auditorium, venendo fedelmente seguita da April, che faticando a seguire il mio passo, arrancava dietro di me. Istintivamente, mi fermai, vedendola respirare a pieni polmoni. “Non sei emozionata?” mi chiese, attendendo una mia risposta. “Moltissimo.” Risposi, lasciando che le mie labbra si dischiudessero in un sorriso. Riprendendo quindi a camminare, raggiunsi l’uscita della scuola, per poi telefonare a mia madre e aspettare che venisse a prendermi. Una decina di minuti più tardi, vidi la sua auto nel parcheggio, e raggiungendola, vi salii con grande agilità. “Non mi dici nulla?” indagò mia madre, guardandomi attraverso lo specchietto retrovisore. “Andremo in scena con il gruppo di teatro.” Ammisi, regalandole poi un secondo sorriso. “Io e tuo padre ci saremo.” Mi disse, dandomi una genuina speranza. Da quel momento in poi, assistetti al calare del silenzio, e una volta arrivata a casa, raggiunsi la mia stanza. Procedetti quindi ad accendere il mio computer, e affidandomi alla rete, mi collegai al sito dedicato alla nostra scuola, scoprendo che avremmo inscenato una versione differente della storica tragedia di  “Antonio e Cleopatra.” A quella vista, mi lasciai sfuggire un sorriso, scegliendo di informare April inviandole un messaggio. Lo ricevette alcuni minuti più tardi, ma nonostante questo non rispose. Stringendomi nelle spalle, spensi il cellulare, per poi iniziare a ripassare ognuna delle battute che avrei dovuto imparare a memoria. Il copione appariva pesante e voluminoso, ma la cosa non mi toccava. Per mia fortuna, aveva una buona memoria, e tale condizione deponeva certamente a mio favore. Ad ogni modo, la sera calò prima che riuscissi ad accorgermene, e stanchissima, mi ritrovai costretta ad andare a letto e dormire sperando di venire scelta per il ruolo più importante, ovvero quello della protagonista. Il sole spuntò la mattina seguente, nel giorno dei famigerati provini. Mi svegliai pronta e piena di energie, ma così tesa che per l’intera mattinata non riuscii a pensare ad altro. Quando arrivò l’ora prestabilita, mi precipitai nell’auditorium scolastico, venendo accolta dal professore e dal resto delle mie compagne. Fra queste, spiccavano April e Liberty, una mia grande amica e l’altra una semplice ragazza popolare e figlia di suo padre, alla quale non importava niente di nessuno. Le conoscevo entrambe sin dai tempi delle elementari, ma al contrario di April, Liberty non mi aveva mai rivolto una parola gentile. “Nervosa?” mi chiese April, sorridendo debolmente. “Non molto, tu?” risposi, rigirandole quindi la domanda.” Mantenendo il silenzio, la mia amica non rispose, e dopo alcuni minuti, l’insegnante si avvicinò a noi. “Siete pronte?” ci chiese, tacendo nell’attesa di una nostra risposta. Annuendo, regalammo un sorriso all’insegnante, e appena un attimo più tardi, April sentì chiamare il suo cognome. “Myers, inizierai tu.” Le disse il signor Martin, invitandola a salire sul palco e dare inizio al suo provino. Guardandola, notai che appariva tesa e nervosa, ragion per cui le sorrisi, sperando in tal modo di infonderle il coraggio che sembrava mancarle. Di lì a poco, ogni cosa cambiò. April si schiarì la voce, iniziando quindi a recitare ognuna delle battute che caratterizzavano il suo personaggio. La sua ansia sembrava essere scomparsa, risultando solo un lontano e vago ricordo. Ad ogni modo, il suo provino si concluse nello spazio di alcuni minuti, e fu allora che toccò a me. “Palmer.” Mi sentii chiamare, riconoscendo in quelle poche lettere il mio cognome, semplice e facile da ricordare. Obbedendo a quella sorta di ordine, mi alzai in piedi, e muovendo qualche deciso passo in avanti, raggiunsi il palco dell’auditorium scolastico. Una volta lì, accadde ciò che non avrei mai voluto. Per qualche strana ragione, mi sentii gelare, e le parole mi morirono in gola. Rimasi ferma come una statua a osservare, con occhi colmi di paura e terrore, la mia piccola platea, composta dall’insegnante e dal resto delle mie compagne. In silenzio, mi fissavano, attendendo l’inizio di quella che sarebbe stata la mia interpretazione. La loro attesa si rivelò vana, poiché anche investendo ogni grammo delle mie energie nel farlo, non riuscivo a concentrarmi né a parlare. In quel preciso istante, sentii le mie amiche ridere sommessamente, ed ebbi occasione di ascoltare i commenti e le critiche che muovevano nei miei riguardi. “Basta così.” Mi disse il signor Martin, avendo cura di far cessare il cicaleccio delle mie compagne. A quelle parole, guardai in terra con fare sconsolato, per poi alzare gli occhi e scendere i quattro scalini che conducevano al palco, tornando a sedermi in un angolo. Subito dopo, sospirai, perdendomi e naufragando nel vasto oceano dei miei pensieri. Avvilita, non ascoltai il resto dei provini, scegliendo unicamente di estraniarmi dalla realtà e rintanarmi in quello che consideravo il mio piccolo mondo. Ad un tratto, un suono mi ridestò dal flusso di sentimenti che turbinavano nel mio animo. La campanella stava suonando, e guardandomi intorno, vidi April corrermi incontro. Era felice, e non sembrava riuscire a contenersi. Gli occhi le brillavano, e faticava perfino a parlare. “Sarò Cleopatra!” mi disse, in tono gioviale. “Ottimo lavoro.” Le risposi, complimentandomi con fare poco convincente.” “Cos’hai?” chiese, mostrandosi istintivamente preoccupata per me. “Non è niente.” Mentii, per poi scivolare nel silenzio e avviarmi verso l’uscita dell’auditorium. Non contenta di quella così misera risposta, April mi chiamò per nome, iniziando quindi a seguirmi. “Heaven…” Soffiò, raggiungendomi e costringendomi a voltarmi. “Ho detto che non è niente.” Continuai, con aria seccata. Data la mia reazione, April desistette dal convincermi a parlare, lasciandomi da sola e vedendomi ignorarla per il resto della giornata. Le lezioni finirono in fretta, ed io andai a casa non esprimendo desiderio dissimile dalla solitudine. In fin dei conti, sapevo bene di non chiedere molto, solo un luogo dove rimanere da sola e con i miei sentimenti come unica compagnia. Entrando in casa, raggiunsi la mia stanza, e sedendomi sul letto, iniziai ad ascoltare della musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. Per mia fortuna, il mio rimedio contro la rabbia sortì l’effetto sperato. Con l’arrivo del pomeriggio, presi in mano il mio cellulare, e componendo il numero di April, decisi di telefonarle. “Volevo scusarmi per stamattina.” Dissi, non appena rispose alla chiamata. “Qual era il problema?” chiese, lasciando che il suo lato dolce e premuroso avesse la meglio su di lei. “Tutto sembra andar male in questi giorni.” Risposi, per poi abbandonarmi ad un cupo sospiro. “Che vuoi dire?” continuò lei, attendendo una mia risposta. “Tu sei diventata una stella, Nicholas non vuole parlarmi, e una stupida bambina rovinerà tutto!” dissi, sfogando ingiustamente su di lei ogni mia frustrazione. “Ti capisco.” Mi disse, facendo uso di una calma che definirei mostruosa. “Non essere così dura con te stessa.” Aggiunse, scivolando poi nel silenzio. Riprendendo la parola, la ringraziai dei suoi consigli, per poi tacere e mettere fine a quella telefonata. Andando a letto, compresi che April aveva ragione. Avevo preso ogni cosa troppo seriamente, finendo per far uscire dal mio corpo tutta la mia rabbia nel peggiore dei modi. Il tempo continuò quindi a scorrere, ed io caddi preda di un profondo sonno, addormentandomi con la speranza di un domani migliore.
Capitolo IV
Le luci della ribalta
Una nuova giornata scolastica aveva per me inizio, ed io mi lasciavo accompagnare da mia madre come ogni giorno. Il viaggio in auto non si rivelò lungo, e alla fine dello stesso, lasciai che mia madre fermasse la macchina prima di scenderne con agilità. Subito dopo, la salutai con un cenno della mano, per poi scegliere di entrarvi e incontrare i miei amici. Camminando, mi feci strada negli ampi corridoi scolastici, evitando la massa di studenti che ostruiva il mio cammino. Il tempo scorreva, e ogni mio passo diventava più pesante e difficile. Il mio zaino appariva più pesante del solito dati i voluminosi testi che sono costretta a portare con me ogni giorno. I minuti si susseguivano, e dopo un tempo interminabile arrivai alla fine del corridoio, scegliendo di afferrare la maniglia della porta dell’aula e abbassarla al solo scopo di entrare. Ero in palese ritardo, ma il silenzio regnava attorno a me. L’insegnante non fece che guardarmi, quasi ignorando il mio arrivo, lasciando che occupassi il mio posto come ogni mattina. Notandomi, April mi salutò amichevolmente, per poi dare uno sguardo all’interno del suo zaino e tirare fuori il libro di matematica. La stessa, era una materia che non incontrava il mio favore, ma che studiavo impegnandomi a fondo unicamente per imparare. Sapevo bene che l’abilità nello svolgere calcoli mi sarebbe servita durante la mia lunga vita di ragazza, ragion per cui, mi applicavo senza lamentarmi, e avendo quindi modo di ricevere voti alti e meritati. Ero occupata a scrivere e prendere appunti riguardo alla lezione corrente, quando all’improvviso la mia concentrazione venne spezzata dal ridondante e per niente piacevole suono della campanella scolastica. In quel preciso istante, aprii il mio diario, avendo il piacere di scoprire l’inizio di un’ora dedicata alla mia materia preferita, ovvero la storia. Personalmente, amavo scrivere riassunti riguardanti i molteplici avvenimenti storici che hanno caratterizzato la vita umana con il placido e tranquillo scorrere del tempo, avendo anche la fortuna e il piacere di immaginare e vedere con gli occhi della mente lo svilupparsi di ognuno degli stessi. Lentamente, tornai a concentrarmi, e con l’arrivo dell’intervallo, mi impegnai in una corsa nei corridoi scolastici, notando la presenza di una sorta di manifesto affisso ad uno dei muri adiacenti alla mia aula. Avvicinandomi, lo esaminai, identificandolo come una piccola locandina riservata agli alunni iscritti al gruppo di teatro, fra cui anche me. Poche righe scritte in maniera semplice ed elegante, che testimoniavano un cambiamento. La lista degli attori era stata alterata, e il nome della mia amica April era stato sostituito con il mio. In quel momento, avrei davvero voluto parlarle e chiederle spiegazioni, ma per sfortuna era assente da scuola, ragion per cui, la mia unica possibilità risiedeva nel gruppo di teatro. Camminando, raggiunsi l’auditorium scolastico. Il mio sguardo si posò quindi sul viso del mio insegnante, che regalandomi un sorriso, mi invitò ad avvicinarmi. Senza proferire parola, mossi qualche deciso passo verso di lui, lasciando che le parole da lui pronunciate mi colpissero come un ramo spostato dal gentile vento farebbe con il vetro di una finestra. “Cambio di programma.” Esordì, guardandomi negli occhi e facendosi subito serio. “Che intende dire?” chiesi, confusa e stranita da quelle parole. “La signorina Myers è malata, e non c’è nessuno in grado di sostituirla.” Ascoltavo il signor Martin senza parlare, ma in quel preciso istante, mi fermai a pensare. Era la mia occasione, e pur non volendo deludere la mia amica April, sapevo di poter finalmente brillare come un luminoso astro nel cielo notturno. “Posso farlo io.” Dissi, posandomi quasi per istinto una mano sul cuore. Ad essere sincera, non avevo modo di conoscere la reazione del professore, motivo per cui, tacqui al solo scopo di studiare l’espressione dipinta sul suo volto. In fin dei conti, conoscevo ogni battuta dell’intera opera a memoria, ragion per cui, avrei potuto recitare perfettamente nei panni della protagonista. Il silenzio cadde quindi nella stanza, ed io attesi senza fiatare. “È deciso. Tu sarai Cleopatra.” Mi disse, parlando in tono serio e tendendomi la mano perché gliela stringessi. Da quel momento in poi, non feci che sorridere, ringraziando il signor Martin e lasciando l’auditorium. Tornai quindi in classe, seguendo il resto delle lezioni con grande interesse fino alla fine della giornata. Al suono dell’ultima campanella, uscii da scuola camminando alla volta di casa mia, che raggiunsi in pochissimo tempo. Una volta arrivata, salutai i miei genitori con un cenno della mano, per poi consumare il pranzo in completo silenzio. Il pomeriggio non si fece poi attendere, ed io lo trascorsi studiando e aiutando mia madre a prendersi cura della piccola Grace. Aveva da poco compiuto sei mesi, e nonostante l’affetto che ci legava, dentro di me sentivo che qualcosa in lei non andava. Difatti, era insolitamente calma, e l’azzurro dei suoi occhi ricordava quello di un prezioso zaffiro. Descritta come una bimba semplice ma al contempo particolare, era vista come una neonata molto curiosa e dolce nei confronti della sorella maggiore, ovvero io. “Non fa che guardarti.” Diceva mia madre, mostrando un sorriso e ridendo ogni qualvolta Grace posava il suo particolare sguardo su di me. In ognuna di quelle occasioni, non rispondevo, mantenendo il silenzio e limitandomi a mostrare un luminoso e tuttavia mellifluo sorriso. Pensandoci, compresi che tale pensiero poteva certamente apparire egoistico, ma per qualche strana ragione, nutrivo dei fondati sospetti nei confronti della mia seppur giovane sorellina. Lentamente, le lancette dell’orologio continuarono a muoversi fino a segnare le quattro di pomeriggio, orario prestabilito per un incontro con dei miei amici. Ci saremmo visti a casa mia unicamente per studiare, ed io non facevo che aspettarli. Seppur con leggero ritardo, i miei ospiti si presentarono alla mia porta salutandomi affettuosamente, scegliendo quindi di seguirmi nella mia stanza. Per pura fortuna, la mia scrivania si rivelò grande abbastanza da accogliere ognuno di noi, e concentrandoci, iniziammo a studiare. La mia sorellina era nella sua culla, impegnata a divertirsi con i suoi giocattoli, vagendo al solo scopo di attirare la nostra attenzione. Alzandomi dalla sedia che occupavo, mi avvicinai alla sua culla, poichè allarmata dai suoi continui vagiti. Fu quindi questione di un attimo, e un particolare attirò la mia attenzione. Sembrava incredibile, ma nonostante la tenera età, Grace era riuscita a comporre una frase con i suoi cubi colorati. “Solo io.” Sei semplici lettere che formavano un’oscura frase dal tetro significato. A quella vista, allertai i miei amici, invitandoli a raggiungermi. Preoccupati, April e Nicholas si voltarono verso di me, avvicinandosi quindi a me. “Grace ha scritto con i dadi.” Dissi, mentre la mia voce tremava come una foglia. Increduli, i miei amici mi fissarono, non riuscendo a comprendere ciò che avevano appena sentito. Nel tentativo di avvalorare la mia tesi, indicai l’interno della culla di Grace, scoprendo che l’unica prova della sua colpevolezza era appena sparita davanti ai miei stessi occhi. Quasi prevedendo la mia mossa, la piccola Grace aveva spostato i suoi cubi con un calcio, così da fare in modo che le lettere non avessero un senso. “Stava solo giocando.” Osservò April, regalandole un sorriso e carezzandole la testolina castana. Spaventata da quanto avevo appena visto, non sapevo cosa dire, e guardando la mia amica negli occhi, biascicai qualche parola, provando a giustificarmi. Le parlai chiaramente, le dissi che era tutto vero, ma ad ogni modo, lei non sembrò credermi. Con lo scendere della notte, fui costretta a salutare i miei amici, e subito dopo la cena, andai a letto. Non riuscii a dormire. Quella notte, tremavo, e perfino guardarmi intorno mi incuteva terrore. Dall’interno della sua culla, Grace continuava a guardarmi, e i suoi occhi azzurri sembravano brillare nel buio, apparendo quindi incredibilmente simili a quelli di un gatto. Rimasi sveglia fino al mattino seguente, notando che la piccola non aveva letteralmente mosso un muscolo. Alzandomi dal letto, guadagnai la porta della mia stanza, uscendone solo dopo aver guardato la mia sorellina negli occhi. I miei sospetti erano fondati, e poco prima di lasciare la mia camera, promisi a me stessa che l’avrei in qualunque modo scoperta, costringendola quindi a gettare la maschera da neonata dolce e indifesa. Non appena fui fuori di casa, salii sull’autobus che portava alla mia scuola, tentando durante il viaggio di liberare la mente e godermi quella luminosa giornata, così come le accecanti luci della ribalta.
 
Capitolo V
In scena
Un nuovo mese ha lentamente avuto fine, raggiungendo quello che era il suo culmine. Lo spuntare del sole si traduceva per me nell’inizio di una nuova giornata scolastica, che sin dal principio percepivo e riconoscevo come profondamente differente. Difatti, la mia routine stava per essere bruscamente spezzata, poiché proprio nel giorno che era appena cominciato, la mia scuola avrebbe finalmente messo in scena la famosa tragedia storica di “Antonio e Cleopatra” con il solo aiuto del gruppo di teatro, di cui io stessa facevo orgogliosamente parte. Non riuscivo ancora a crederci, ma il grande giorno era finalmente arrivato, ed io ero stata scelta per ricoprire il ruolo della protagonista. Ad essere sincera, non riesco davvero a smettere di pensare alla mia amica April. La conoscevo come il palmo della mia stessa mano, ed ero completamente consapevole di quanto si fosse impegnata per ottenere quella parte. Inutile è dire che il suo provino era stato di gran lunga migliore del mio, ma ora non si può tornare indietro. In fin dei conti, la sua non è che pura sfortuna, poiché sono convinta che se non si fosse ammalata, lei ora sarebbe qui, sul palco al mio posto, che inoltre le spettava di diritto. Ad ogni modo, il tempo stringeva, e l’ansia mi stava letteralmente divorando. Nervosa, camminavo avanti e indietro, aiutando le mie amiche a prepararsi per la loro entrata in scena. Ero pronta, ma qualcosa mi portava a credere che la nostra recita sarebbe stata un completo fiasco. Inconsapevolmente, tremavo, e notandomi, Nicholas mi si avvicinò. “Sarai fantastica.” Mi disse, guardandomi negli occhi e regalandomi un luminoso sorriso. “Anche tu.” Risposi, arrossendo debolmente e ricambiando quell’abbraccio. Poco dopo, lo vidi allontanarsi e lasciarmi da sola. Fermandomi a respirare e tentando di ritrovare la calma, trassi conforto dalle sue parole. Attorno a me, il silenzio, e improvvisamente, un suono assordante. L’applauso del pubblico appena arrivato in sala, e il suono della voce di Liberty, che scelta come presentatrice, annunciava l’imminente inizio dello spettacolo. Un minuto si dileguò dalla mia giovane esistenza, ed io vidi il signor Martin avvicinarsi ad ognuna di noi. “È il vostro momento.” Ci disse, sorridendoci e augurandoci buona fortuna prima dell’entrata in scena. Da quel momento in poi, il sipario si aprì, e muovendo qualche lento ma deciso passo in avanti, raggiunsi il centro del palco. Le mie amiche mi seguirono, occupando ognuna il posto che era stato loro riservato. Di lì a poco, lo spettacolo ebbe inizio, e fissando il mio sguardo sul pubblico, muto e in attesa, iniziai a recitare. Feci quindi del mio meglio per impersonare la giovane e regale Cleopatra, riuscendoci a mio dire quasi perfettamente. Mantenendo il silenzio, mi lasciavo trasportare dalle emozioni, arrivando perfino a sentirmi fiera di me stessa. Poco tempo dopo, la mia scena madre, ovvero quella in cui i due amanti, Antonio e Cleopatra, si scambiano un bacio che racchiude i loro forti e a lungo repressi sentimenti. Nel mero tentativo di concentrarmi, guardai in basso, per poi inspirare profondamente. Alzando quindi gli occhi, lo vidi. Nicholas. Era stato scelto per il ruolo di protagonista maschile, ma nonostante quella che poteva definirsi amicizia, non mi aveva detto niente. Non conoscevo le sue ragioni, e in quel momento ero sicura di una sola cosa. Lo spettacolo doveva andare avanti. Guardandolo negli occhi, mi avvicinai lentamente, per poi abbracciarlo e scegliere di posare le mie labbra sulle sue. In quel preciso istante, nulla fu più uguale. Sapevo bene di stare recitando, eppure dentro di me qualcosa sembrava essere appena scattato come una molla. Un bacio che per me costituiva finzione, ma che era stato comunque in grado di emozionarmi e farmi battere il cuore. Il tempo scorreva, e l’opera stava per terminare, chiudendosi con l’inchino di ogni singolo attore, e dato quanto mi era appena accaduto, faticavo a reggermi in piedi. Secondo l’onesto parere dei miei genitori, ero una ragazza molto emotiva, e anche se nascondevo ogni sentimento, non mostrando le mie vere emozioni, in quel momento parlai con me stessa, ritrovandomi costretta ad ammettere che entrambi avevano ragione. Era di nuovo successo, e mi ero completamente paralizzata. Istintivamente, mi guardai intorno, scoprendo che April era venuta a vedermi, e faceva ora parte del pubblico. Alla sua vista, sorrisi, per poi esibirmi in un dignitoso inchino e ritirarmi assieme agli altri dietro il sipario. Una volta lì, rividi Nicholas. Notandolo, mi avvicinai, ma venni ad ogni modo ignorata. Non voleva parlarmi, e in ogni singola occasione, sfuggiva dai miei sguardi. Qualcosa in lui non andava, ed io non facevo che preoccuparmi. Scuotendo la testa, sospirai debolmente, limitandomi a guardare i suoi verdi occhi spegnersi per la tristezza da una debita distanza. Poco tempo dopo, scesi dal palco, scegliendo quindi di raggiungere i miei genitori. In quel mentre, incontrai April. “Complimenti.” Mi disse, correndomi incontro al solo scopo di abbracciarmi e stringermi a sé. “Grazie.” Risposi, sciogliendo il nostro abbraccio e faticando a respirare a causa della corsa che mi aveva condotto fino a lei. Riuscendo a ritrovare la calma, l’abbracciai nuovamente, per poi salutare lei e il resto dei miei compagni, scegliendo poi di raggiungere i miei genitori unicamente per lasciare che mi riportassero a casa. “Sei stata meravigliosa.” Mi disse mio padre, mentre era occupato a guidare e teneva gli occhi letteralmente incollati alla strada. “Dov’è Grace?” chiesi, provando istintiva pena e preoccupazione per lei. “Le abbiamo trovato una baby-sitter.” Rispose mia madre, intenta a godersi il panorama visibile fuori dal finestrino. A quelle parole, mi tranquillizzai, ma nello spazio di un momento, iniziai inconsapevolmente a tremare. Sapevo bene che Grace non era una bimba normale, ed ero convinta che una sorta di maledizione pendesse su di lei, ragion per cui, temevo per la sorte e l’incolumità della povera ragazza che era stata scelta per prendersi cura di lei in nostra assenza. Non appena arrivai davanti a casa, iniziai a frugare nella tasca del mio giubbotto, ben sapendo di possedere una copia delle chiavi. Per mia fortuna, le trovai in fretta, e aprendo la porta, la vidi. Era Rebecca Black, una semplice amica di famiglia. Mi conosceva da ormai lungo tempo, a detta dei miei genitori, aveva fatto da baby-sitter anche a me durante tutta la mia infanzia. Salutandola, mi offrii di prendere in braccio Grace, per poi guardarla negli occhi e avere la sfortuna di vederli brillare come alcune notti prima. “Grazie di tutto.” Disse mia madre, rivolgendosi a Rebecca, che rimanendo immobile, non proferiva parola. “Nessun problema.” Rispose, regalando un sorriso ad entrambi i miei genitori e salutando la bambina prima di andarsene. Quasi avendo compreso le intenzioni di quella donna, e volendo semplicemente mantenere la sua apparenza di bambina semplice e dolce, Grace emise un piccolo vagito, per poi sorridere e tentare di afferrare la mano di Rebecca. Subito dopo, la vidi prendere la borsa e uscire di casa, lasciando ognuno di noi alle proprie mansioni. La sera stava calando, e mia madre si impegnava a preparare la cena. Nel mio piccolo, cercavo di aiutare, apparecchiando la tavola e dando da mangiare a Bella, la nostra golden retriever, entrata in casa pochi anni dopo la mia nascita. Ad ogni modo, l’ora di cena arrivò senza farsi attendere, ed io consumai il mio pasto senza proferire parola, e guardando mia madre aiutare Grace a bere del latte attraverso il suo biberon. Fingendo di essere troppo occupata per restare con loro, mi congedai raggiungendo la mia stanza, per poi sedermi alla mia scrivania e scegliere di perdermi nell’immensità del web. Navigai in rete per alcune ore, scegliendo poi di indossare il mio pigiama e andare finalmente a letto. La mia giornata era stata piena e stressante, ragion per cui credevo che un buon sonno ristoratore sarebbe servito a riportarmi in forma. Potevo letteralmente definirmi felice e orgogliosa di me stessa, poiché avevo finalmente realizzato uno dei miei più grandi sogni, ovvero quello di diventare un’attrice. Forse l’aver recitato nella mia scuola non aveva molto peso, ma era uno dei primi passi verso la fortuna nella quale speravo.
 
 
 
 
 
Capitolo VI
Fraintendere
L’alba di un nuovo giorno illuminava il mio viso, ed io camminavo verso la mia scuola. Respirando profondamente, sorrisi, sapendo di non essere sola. Difatti, i miei amici April e Nicholas avevano scelto di unirsi a me in quel seppur breve tragitto. “Tutto bene?” mi chiesero, quasi parlando all’unisono. “Non mi lamento.” Risposi, evitando di spostare il mio sguardo dalla strada e continuando a camminare. Da quel momento in poi, il silenzio cadde attorno a noi, e prima che potessimo accorgercene, ci ritrovammo davanti al cancello della nostra scuola, già aperto e in procinto di chiudersi ancora prima del nostro arrivo. Prendendomi per mano, Nicholas mi incoraggiò a correre, così da evitare che ritardassi e venissi redarguita dall’insegnante una volta in aula. Sorridendo, lo ringraziai, e posando lo zaino in terra, occupai il mio posto. Avvicinandosi, April fece per sedersi accanto a me, ignorando quello che credetti essere il principale volere di Nicholas. Lui stesso, non disse una parola a riguardo, lasciando alla mia amica lo spazio che meritava, e andando ad accomodarsi in un banco in fondo all’aula. Al suono della campanella, le lezioni ebbero inizio, ed io mi ritrovai intenta a seguire una lezione di arte, materia nella quale non eccellevo, preferendo di gran lunga materie come la storia e la letteratura. Ad ogni modo, ascoltai le indicazioni della nostra insegnante, impegnandomi poi in un disegno che esprimeva la mia gioia. Afferrando la mia matita, mi ritrassi con indosso il costume che avevo utilizzato per la recita scolastica, e per quella che io definii fortuna, il mio disegno suscitò l’interesse della professoressa, che mi lodò regalandomi un sorriso. Subito dopo, mi voltai verso Nicholas, che mantenendo il silenzio, non rivolgeva la parola a nessuno dei compagni. Guardandolo, provai istintivamente pena per lui, e tornando ad ascoltare la lezione, attesi l’inizio dell’intervallo. Con l’arrivo dello stesso, mi avvicinai al banco occupato da Nicholas, che alla mia vista, sorrise debolmente. “Come stai?” gli chiesi, posando il mio sguardo colmo di preoccupazione su di lui. “Bene, ma devo parlarti.” Mi disse, per poi tacere nell’attesa di una mia risposta. Annuendo, mi sedetti accanto a lui. “Dimmi.” Risposi, invitandolo a parlare con un cenno della mano. “Non qui.” Mi ammonì, alzandosi in piedi e sperando che lo seguissi. Seppur lentamente, mi rimisi in piedi, per poi iniziare a camminare al suo fianco fino al campo di baseball sito nel cortile della nostra scuola. Andando alla ricerca di riservatezza, mi guidò fino agli spalti, dove ci sedemmo l’uno accanto all’altra. Guardandomi intorno, apprezzai il panorama e la sottile brezza che spirava, per poi sentirlo pronunciare una frase semplice, ma allo stesso tempo di grande significato. “Sei stata fantastica.” Mi disse, riferendosi alla nostra recita scolastica. “Ti ringrazio.” Risposi, ritrovandomi preda di un improvviso e incontrollato calore corporeo. Alcuni istanti si susseguirono, e al silenzio si sostituì il migliore degli scenari. Guardandomi negli occhi, Nicholas mi prese per mano, e respirando profondamente, si preparò a rivelarmi una verità che da tempo covava nel cuore. “Heaven, io non stavo recitando.” Ammise, stringendomi una mano e concentrando il suo sguardo su di me. “Cosa?” esclamai, incredula e desiderosa di spiegazioni. “Parlo del bacio. Io lo intendevo davvero.” Chiarì, facendomi letteralmente sbiancare a causa di quello che identificai come imbarazzo. In quel momento, avrei davvero voluto dargli la risposta che sapevo attendesse, ma prima che potessi parlare, un ricordo si fece spazio nella mia mente. Durante una nostra conversazione avvenuta attraverso degli anonimi bigliettini, April mi aveva confessato di provare dei forti sentimenti per lo stesso Nicholas, il quale, essendone completamente all’oscuro, aveva spostato tutta la sua attenzione su di me. Ora come ora, sapevo che mi amava, e pur non volendo spezzargli il cuore, decisi di dirgli la verità. “Mi dispiace, ma non provo nulla.” Gli dissi, scivolando nel silenzio e iniziando quindi a scendere le lunghe gradinate che portavano agli spalti. Ogni scalino era un ulteriore passo verso la mia aula, e una volta arrivataci, ne approfittai per restare da sola fino alla fine dell’intervallo. Le lezioni ripresero solo alcuni minuti dopo, ed evitando di disturbare la concentrazione dei miei compagni, mantenni il silenzio, raccogliendo i miei libri solo quando fu ora di tornare a casa. Mia madre venne a prendermi facendosi trovare nel parcheggio, e salendo in auto, la salutai affettuosamente. Da quel momento in poi, mi concentrai sull’ora basso volume dell’autoradio, il cui continuo e indistinto brusio aveva contribuito al profondo sonno della piccola Grace, seduta sul sedile posteriore e placidamente addormentata. Arrivai a casa in poco tempo, scegliendo quindi di scendere dall’auto di mia madre ed entrare in casa. Sentendomi arrivare, Bella mi accolse facendomi le feste, ed io mi lasciai leccare le mani, sapendo che lo faceva per affetto. Come di consueto, consumai il mio pasto con calma e compostezza, per poi rintanarmi nella mia stanza e affidarmi alla rete per inviare dei messaggi ai miei amici. Il mio espediente funzionò in maniera perfetta, e ricevendo una loro risposta, scoprii che avevano accettato il mio invito a casa per studiare insieme. Il pomeriggio operò quindi la sua magia, mutando il colore del cielo e rendendo la luce meno forte e più soffusa. Ero impegnata a guardare la televisione, e notando l’agitazione di Bella, sentii qualcuno bussare alla porta di casa. Alzandomi dal divano, scelsi di andare ad aprirla, scoprendo subito dopo l’arrivo di April e Nicholas. Lei appariva felice, mentre l’umore dello stesso Nicholas era visibilmente e infinitamente basso. Poco prima di chiudere la porta, notai che a loro si era anche aggiunta l’acida Liberty. “Che cosa ci fa lei qui?” chiesi, fissando il mio sguardo su un’ora muta April. “È venuta da sola.” Disse lei, tentando di giustificarsi. “Ignorala.” Mi consigliò Nicholas, parlando con una voce così bassa da essere quasi inudibile. Ripetendo quindi le azioni compiute nel nostro ultimo incontro, guidai i miei amici fino alla mia camera, e aprendo la porta, ebbi la sfortuna di assistere ad una scena che mi tolse le parole di bocca. La mia stanza, in origine pulita e ordinata, era stata messa a soqquadro. Spostando il mio sguardo sui miei amici, sprofondai nella vergogna, desiderando che una metaforica voragine mi inghiottisse facendomi lentamente sparire dalla loro vista. Non volendo peggiorare la situazione e il mio stato d’animo, nessuno di loro disse una parola, limitandosi a fissarmi in completo silenzio. Muovendo qualche passo in avanti, entrai nella mia stanza, notando il peggiore dei particolari. Posando il mio sguardo sullo scaffale dove tenevo ognuno degli oggetti che ritenevo importanti, notai che la mia intera collezione di CD era stata graffiata e distrutta, così da risultare letteralmente inutilizzabile. Con fare sconsolato, mi guardai intorno, scoprendo di aver ormai perso decine delle mie canzoni preferite, fra cui anche un intero album di una delle cantanti che più amavo. “Dev’essere stato il tuo cane.” Sibilò Liberty, non avendo neppure un briciolo di considerazione per me. “Bella non lo farebbe mai.” Risposi a muso duro, scegliendo di difendere la mia amata cagnetta con le mie sole forze. Il comportamento che Liberty aveva appena mostrato, confermava l’odio che sapevo di provare nei suoi confronti. Ricordo che da bambine giocavamo spesso insieme, ma che il nostro rapporto aveva finito per logorarsi a causa di un futile motivo. Era un giorno come tanti altri, che rientrava in quello che avrei considerato ordinario, e la mia cagnolina si era unita a noi nel giocare. Ci rincorrevamo, e lei ci seguiva. Liberty era felice, e stringeva in mano il suo giocattolo preferito, ovvero un orsacchiotto di pezza regalatole dai genitori per il suo quinto compleanno. Volendo unicamente divertirsi, Bella lo addentò per poi strapparglielo di mano, e tenendolo fermo fra le zampe, strappò inavvertitamente una delle cuciture. Tale gesto risultò nella perdita di un braccio di quel pupazzetto, ed io, che avevo assistito alla scena, aveva sgridato Bella, ma nulla era servito. In quel preciso istante, le lacrime iniziarono a sgorgare dagli occhi della mia amica bagnandole il volto, e nonostante i miei tentativi di risollevarle il morale, nulla sembrò cambiare. Lei non volle ascoltarmi, e riprendendo il suo giocattolo da terra, se ne andò indignata. Con il tempo, imparò a perdonarmi, ma non appena lo fece, la situazione precipitò. Difatti, ricordo che ero impegnata a portare Bella a passeggio, e quando lei si avvicinò, la mia cagnolina ebbe l’istinto di mordere. Redarguendo per l’ennesima volta Bella, mi scusai con Liberty, che anche stavolta non volle saperne. Non ci parliamo sin da allora, ovvero da quando la stessa Liberty ha deciso che non sono la persona che credeva che fossi, e che quindi non meritassi la sua amicizia unita alla sua fiducia. In quel preciso istante, la voce di Nicholas mi riportò alla realtà, distraendomi dai miei pensieri. “Chi credi che sia stato?” mi chiese, guardandomi negli occhi. “Non ne ho idea.” Mentii, concentrando il mio pensiero su Grace. Riflettendo, compresi che Bella non poteva certamente essere colpevole di quel gesto. Viveva in casa con noi, e nonostante la sua rinomata vivacità, non si era mai permessa di sfiorare nessuno dei cimeli di famiglia o dei soprammobili appartenuti a mia madre. Ad ogni modo, tutti i miei CD erano lì sulla scrivania, graffiati o letteralmente ridotti in pezzi. Fissando il mio sguardo sulla scrivania, raccolsi ciò che ne restava, per poi scegliere di buttarli subito via. Scuotendo poi la testa, decisi di non badare a quanto era accaduto, fingendo indifferenza realmente non provata e concentrandomi sugli studi. La sera calò in fretta, e salutando i miei amici, li accompagnai alla porta, per poi guardarli allontanarsi alla volta delle loro rispettive case. Lentamente, mi richiusi la porta alle spalle, e avviandomi verso la mia stanza, mi imbattei in mia madre. “La tua stanza è un disastro.” Mi disse, in tono serio e al contempo perentorio. “Non è colpa mia, è stata Grace.” Dissi, tentando di difendermi e mostrare la mia innocenza. “Non dire sciocchezze.” Mi apostrofò lei, fissandomi con quei suoi occhi color dell’oceano. “Ma…” biascicai, non avendo neppure il tempo di finire quella frase. “Ne ho abbastanza.” Concluse mia madre, irrigidendosi di colpo. A quelle parole, tacqui istintivamente. Sapevo bene che le stesse erano servite a chiudere quella discussione, ragion per cui, raggiunsi la mia stanza camminando lentamente. Una volta arrivata, mi guardai allo specchio. Ero sempre me stessa. Heaven Palmer, una ragazza sensibile e seria, che non avrebbe mai osato muovere un dito o aprir bocca se non per giustizia, ora non veniva creduta, ma che dentro di sé conosceva una verità che veniva costantemente fraintesa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VII
Tetro presente
Tre anni del mio arduo vivere sono giunti al termine, e con il levarsi del sole, un nuovo giorno ha inizio. Quello odierno è per me uno speciale, poiché proprio oggi il mio ultimo anno di liceo sancirà la fine degli studi che precedono il mio obiettivo più importante, ovvero l’università. Come ogni mattina, sono impegnata a camminare verso la mia scuola, sperando di raggiungerla in tempo per l’inizio delle lezioni. Pensandoci, avrei potuto salire su un autobus, ma la mia incalcolabile lentezza nei movimenti ha fatto in modo che lo perdessi, raggiungendo la fermata troppo tardi per poter realizzare quel mio desiderio. Ad ogni modo, il mio viaggio prosegue, e un rumore mi induce a voltarmi. Qualcuno alle mie spalle chiama il mio nome, e in un misero attimo, scopro in April e Nicholas i miei due nuovi interlocutori. “Come state?” chiedo, sorridendo e arrestando il mio cammino e attendendo che mi raggiungessero. “Noi bene, tu?” risposero, per poi rigirarmi la domanda. “Non molto in realtà.” Dissi, abbandonandomi poi ad un cupo sospiro. “Perché? Che succede?” indagò Nicholas, preoccupandosi per me e mantenendo la segreta speranza di non essere invadente. “I miei genitori non mi credono su Grace.” Continuai, riprendendo la parola e ricominciando a camminare al loro fianco. Fra un passo e l’altro, mi godevo il silenzio del mattino appena iniziato, e voltandomi a intervalli regolari di qualche minuto, scoprii che April e Nicholas stavano camminando abbracciati e si tenevano per mano. A quella vista, sorrisi debolmente, sperando che non notassero quella che era la mia felicità. Ora tutto era chiaro. Finalmente, April aveva raccolto le sue forze e il suo coraggio, riuscendo a dichiarare la realtà dei suoi sentimenti. Ricordo bene il giorno in cui l’ha fatto. Era il nostro secondo anno di liceo, ed entrambi si erano incontrati nei corridoi scolastici, e parlando, avevano scoperto di avere molte cose in comune. Un bacio ha poi rotto il silenzio calato sulle loro anime, e da quel fortunato giorno, si erano fidanzati. Insieme, vivevano un rapporto solido, e da ormai tre anni, non facevano che amarsi. Lentamente, lasciai che la gentile aria mi lambisse il viso, e guardando dritto di fronte a me, capii di aver appena raggiunto la mia destinazione. Continuando a camminare, varcai il cancello scolastico, per poi iniziare a percorrere gli ampi corridoi scolastici, raggiunsi la mia aula. Una volta entrata, occupai il mio posto come ero solita fare, riuscendo quindi a mantenere viva la mia attenzione fino all’intervallo. Sopportando l’odioso trillo della campanella, non mi mossi dalla mia classe, scegliendo di ottimizzare il tempo che mi veniva concesso per ripassare i miei numerosi appunti. La pausa dalle lezioni ebbe quindi fine, e svolgendo i miei doveri scolastici, attesi l’ora di tornare a casa. Con l’arrivo della stessa, rimisi a posto i miei libri, per poi afferrare lo zaino e mettermelo in spalla. Subito dopo, iniziai a camminare dirigendomi verso l’uscita della scuola, e salutando i miei amici, mi avviai verso casa mia. Eravamo in autunno, ma nonostante la minor forza della luce solare, e il freddo che caratterizzava l’aria spirante per le strade della mia amena e ridente cittadina, la giornata che ora vivevo sfruttandone, ogni secondo appariva più calda del solito. Tentando di ignorare tale canicola, arrivai subito a casa, entrandovi unicamente per salutare i miei genitori e rifugiarmi nella mia stanza, luogo che consideravo il mio caldo e accogliente nido. Non appena aprii la porta, vidi la mia sorellina Grace, occupata a giocare sul tappeto della mia stanza. Conoscendola come il palmo delle mie stesse mani, la guardai con disprezzo, ignorando la sua infantile risata e ognuno dei suoi falsi e melliflui sorrisi. “Non mi inganni.” Le dissi, guardandola con aria truce. Quasi ignorando le mie parole, Grace non rispose, limitandosi a mostrare il luccichio dei suoi occhi azzurri. Due iridi splendenti, e maledettamente inquietanti. In quel preciso istante, il silenzio avvolse la stanza, e continuando a fissarla, la vidi prendere in mano il suo orsetto di pezza e mostrarmi un sorriso che si potrebbe unicamente definire sadico. Un singolo attimo scomparve dalla mia vita, e non riuscendo a credere ai miei occhi, raggelai. Incredibilmente, la stessa Grace era riuscita a staccare la testa a quel morbido giocattolo. Subito dopo averlo fatto, lo lasciò andare, per poi iniziare a piangere al fine di attirare l’attenzione. I suoi pianti allertarono mia madre, che si precipitò subito nella stanza. “Heaven! Cos’hai fatto?” tuonò, guardandomi con occhi colmi di odio. Mantenendo il silenzio,  decisi di non fiatare, accusando il colpo e la punizione. Chinando leggermente il capo, uscii dalla mia camera, iniziando a seguire mia madre fino al salotto di casa. I suoi occhi erano fissi su di me, e proprio come mio padre, era livida di rabbia. Indicando una sedia, mi invitò a sedermi ed occuparla, per poi dare inizio ad un discorso senza apparente fine. “Sappiamo quanto sia difficile accettare un nuovo bambino, ma perché? Perché devi farle questo?” mi disse, concludendo quella frase con una domanda che non necessitava una risposta. I miei genitori si sbagliavano, e pur desiderandolo con ogni singolo grammo delle mie forze, non avevo alcun modo di convincerli. La vera natura di Grace era un’altra, ma dentro di me sapevo che parlarne non avrebbe avuto senso. Ad ogni modo, ero certa di una sola cosa. Avevo bisogno di aiuto. Svuotando la mente, tornai a fissare mia madre, annuendo lentamente e fingendo di sentirmi in colpa per il mio gesto. Voltandomi, mi diressi nuovamente verso la mia stanza. Mentre ero nell’atto di farlo, sentii Grace ridere sommessamente, e guardarmi con quei suoi soliti occhi scintillanti. Sostituendo la mia finta espressione di dolore e pentimento con una di odio, la  guardai fissamente, per poi scegliere di tornare nella mia camera e richiudermi la porta alle spalle. Sdraiandomi sul letto, tentai di addormentarmi, riuscendo solo per quella che definirei una stanchezza incredibile. Speravo che il sonno cancellasse la negatività del mio animo e delle mie giornate, e attendevo di svegliarmi in un mondo completamente nuovo, dove la reale malvagità di Grace sarebbe finalmente stata scoperta. Molti non mi credevano, ma lei non era la bambina che tutti vedevano. Era diversa, e non era che un mostro. Il tempo scorreva, ma io non volevo certamente arrendermi. Sapevo bene che gli eventi non avrebbero potuto essere forzati, e per tale e semplice motivo, non mi restava che vivere il mio ora tetro presente.
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VIII
Fiducia ben riposta
Era di nuovo notte fonda, e da ormai tre interi giorni, faticavo a dormire. Le ore passavano, e la luce solare iniziava la sua lotta contro quella lunare, sperando di sconfiggerla e prendere il suo posto nel cielo come ogni giorno. Facendosi coraggio, il sole spunta nuovamente, e la giornata odierna si preannuncia profondamente diversa. Un improvviso e orribile dolore alla testa mi debilita, e seppur con lentezza, si diffonde in tutto il mio corpo. Per tale e semplice ragione, scelgo di saltare la scuola e restare a casa. Chiamando a gran voce mia madre, la vedo raggiungere la mia stanza. “Non mi sento affatto bene.” Ammetto, guardandola con occhi ora spenti e privi della luce che li riempiva caratterizzandoli. “Hai sicuramente la febbre.” Osserva, posando il suo sguardo colmo di preoccupazione su di me. A quelle parole, non risposi, limitandomi a salutarla e provare a riaddormentarmi. Sorprendentemente, ci riuscii quasi subito, scivolando quindi in una profonda dimensione onirica. Ad essere sincera, non saprei definire con precisione la quantità di tempo che spesi dormendo e sognando, essendo unicamente in grado di affermare che al mio risveglio la mia fronte e le mie guance bruciavano, e che nulla nel mio stato di salute sembrava essere cambiato. Il pomeriggio aveva ormai preso il posto della mattina, e alzandomi dal letto, mi sedetti sul divano con una coperta sulle gambe, mia unica speranza di mantenere il calore corporeo che rischiavo altrimenti di perdere. Nonostante il mio martellante mal di testa, seguii con profondo interesse alcuni programmi televisivi, avendo quindi modo di ingannare il tempo ed evitare di annoiarmi. In quel mentre, sentii un suono che non riuscii ad identificare, e guardandomi intorno, scoprii che la mia amata cagnolina Bella aveva deciso di tenermi compagnia. Piantandomi le zampe sulle ginocchia, tentò di leccarmi il viso, e accarezzandola, la invitai a desistere. Subito dopo, la vidi irrigidirsi e fissare il suo sguardo sulla porta di casa. Qualcuno stava bussando, e sin da quando era una cucciola, quello era sempre stato il suo modo di dirmelo. Con un gesto della mano, la convinsi ad obbedirmi e a smettere di abbaiare, per poi avvicinarmi alla porta e scegliere di aprirla. Sull’uscio di casa mi attendeva Nicholas. “Stai meglio?” mi chiese, preoccupandosi per me e regalandomi un sorriso. “Sì.” Mi limitai a rispondere, scostandomi per poi invitarlo ad entrare. Alla sua vista, Bella ricominciò ad abbaiare, e avvicinandomi, feci per scacciarla, ma Nicholas mi fermò. “Lascia, non mi da fastidio.” Disse, abbassandosi fino a riuscire a toccarla. Spostando poi il suo sguardo dal mio viso agli occhi del mio cane, Nicholas sorrise nuovamente, per poi accarezzarla e accomodarsi sul divano. “Ti ho portato una cosa.” Mi disse, liberandosi dello zainetto che trasportava. Mantenendo il silenzio, continuavo a guardarlo con aria curiosa, e subito dopo lo vidi iniziare a frugare nel suo zaino. Fu quindi questione di meri attimi, ed io notai che stringeva qualcosa in mano. Muovendo qualche incerto passo in avanti, mi sedetti accanto a lui, per poi sentirlo pronunciare una frase che mi colpì profondamente. “È per te.” Mi disse, riaprendo la mano e rivelando una splendida collana. “Buon compleanno.” Aggiunse, invitandomi a dargli le spalle al solo scopo di mettermela al collo. “Grazie.” Sussurrai, parlando con voce bassa e unicamente dettata dal mix di emozioni che sapevo di provare in quel momento. Per qualche strana ragione, Nicholas non faceva che sorridere, e quella concatenazione di eventi risultava ai miei occhi troppo insolita per essere reale. Conservando la felicità che sentivo nascermi in cuore, sorrisi a mia volta. Appena un attimo più tardi, Nicholas si avvicinò a me tentando di baciarmi. A quella reazione, mi ritrassi quasi istintivamente. Sapevo bene che era fidanzato con April da circa tre anni, e non volevo assolutamente che il cuore della mia migliore amica si spezzasse come una corda eccessivamente tesa. “Aspetta. Che mi dici di April? Voi due state insieme, e lei ti ama!” gli dissi, alterandomi senza volere e fallendo nel seppur misero tentativo di controllarmi. “Non è vero.” Rispose, tacendo al solo scopo di respirare e andare alla ricerca delle parole più adatte a continuare il suo discorso. “Io non la amo, e desidero solo stare con te.” Continuò, scivolando poi nel silenzio e studiando la confusa espressione dipinta sul mio volto. “Noi due… non possiamo.” Biascicai, conservando la segreta speranza di un suo ripensamento riguardo al rapporto che aveva con April. “Possiamo solo se lo vuoi.” Concluse, per poi avvicinarsi e posare le sue labbra sulle mie. In quel momento, il tempo perse di significato, apparendo statico e privo di valore. Sentivo che tutto in me stava cambiando, e avvertivo il repentino aumentare del mio battito cardiaco. Lo stesso, era così forte da essere sentito nel silenzio che ci avvolgeva, e finalmente, io conoscevo la verità. Avevo agito al solo fine di non ferire una mia amica, ma quel bacio aveva sortito su di me un effetto devastante. L’impari lotta contro me stessa e i miei sentimenti aveva finalmente avuto fine, e ora nulla era più come ricordavo. Sapevo bene di amare Nicholas con tutta me stessa, e dopo anni passati a negare un’immutabile realtà, mi ero arresa, lasciandomi guidare dal mio giovane cuore. Un nuovo sentimento stava in me sbocciando come un fiore, e sapevo di potermi fidare. In altre parole, la mia fiducia era ben riposta.
 
 
 
Capitolo IX
Falsa alleanza
È mattina presto. La luminosa alba è spuntata da poco, ma per mia sfortuna non ero sveglia, e non ho avuto l’occasione di godermi questo giornaliero spettacolo. Sbadigliando, apro gli occhi, e guardandomi intorno, scopro di essermi placidamente addormentata sul divano di casa. Nicholas non è al mio fianco. È tornato a casa, e mi ha inevitabilmente lasciato da sola. Drizzandomi a sedere, scopro la presenza di un biglietto sul cuscino del divano. “Ti credo.” Diceva, arrestandosi bruscamente dopo solo quelle due parole. Semplici, ma recanti un significato oscuro e a me ancora ignoto. Sorridendo debolmente, lo stringo in mano, avendo comunque cura di non rovinarlo. Ad ogni modo, un nuovo giorno stava iniziando, ed io avevo la mente letteralmente colma di pensieri. Essendomi addormentata di colpo, la notte scorsa non ho indossato il mio pigiama. Ora come ora, ho indosso gli stessi vestiti del giorno ormai concluso, ovvero un leggero maglione bianco abbinato ad un paio di pantaloni color grigio topo. La collana regalatami da Nicholas ha la forma di un piccolo ma prezioso diamante, e impreziosendo il mio collo, spicca e brilla grazie alla luce del sole. Un ciondolo sobrio ma poco comune, che è reso speciale dalla persona che me l’ha offerto in dono. Un vero e proprio simbolo del sentimento che lega me e Nicholas. Lentamente, cammino per i vuoti corridoi di casa, e raggiungendo la mia stanza, scelgo di prepararmi. Concentrandomi sulla mia immagine riflessa nello specchio, decido di cambiare pettinatura, lasciando quindi che i miei capelli, neri come il costoso e indispensabile petrolio, mi ricadessero lunghi e morbidi sulle spalle, venendo poi mossi dal gentilissimo vento che spirava appena fuori dalla mia finestra. Come ogni giorno, mia madre era impegnata e oberata di lavoro a causa di Grace, ragion per cui mi ritrovai costretta a raggiungere la fermata dell’autobus e salire sul primo autobus per la mia destinazione, ovvero la mia scuola. Camminavo lentamente, e l’unico rumore oltre a quello del vento che sibilava come un venefico serpente, era quello dei miei passi, lenti, decisi, e dettati dalla mia tranquillità. Trasportavo il mio zaino, oggi incredibilmente pesante. Ad ogni modo, non accennavo a fermarmi, e nell’esatto momento in cui raggiunsi la mia destinazione, mi fermai. Guardandomi intorno, notai che qualcosa, o meglio, qualcuno, era in procinto di entrare nel mio campo visivo. I verdi occhi di Nicholas incontrarono i miei, di un marrone dolce e gentile, quasi tendente al piacevole ambra. Alla mia vista, iniziò a correre nella mia direzione, con la ferma e precisa intenzione di raggiungermi. In quel preciso istante, persi letteralmente il controllo del mio stesso corpo, ritrovandomi senza saperlo impegnata in una corsa verso il mio obiettivo, ovvero lo stesso Nicholas. Il mio cammino appariva letteralmente infinito, e quando finalmente raggiunsi la mia nuova meta, mi abbandonai fra le braccia del ragazzo che amavo, lasciando che mi stringesse a sé deponendo un bacio sulla mia fronte. “Lascia che ti aiuti.” Disse, regalandomi un sorriso e offrendosi di portare il mio zaino. Sorridendo a mia volta, lo lasciai pazientemente fare, notando che per il resto del tragitto non riusciva  a staccare gli occhi. Poco tempo dopo, mi ritrovai seduta in un pullman accanto a lui. Quasi istintivamente, lo presi per mano, avendo il piacere di notare che il mio gesto venne ricambiato. Difatti, Nicholas mi strinse la mano con forza ancora maggiore rispetto a me, per poi chiudere gli occhi e respirare a pieni polmoni. “Ti amo.” Sembrava voler dire, pur mantenendo il più completo e rispettoso silenzio. Intanto, il tempo scorreva, e la strada scivolava via. Il nostro viaggio stava per terminare, e la cosa non mi toccava. La scuola era un luogo dove mi recavo per imparare e accrescere la mia conoscenza, ma anche uno dove incontravo i miei amici con frequenza quasi giornaliera. Appena arrivammo, Nicholas ed io occupammo i nostri posti evitando di disturbare la lezione, che intanto continuava senza la minima interruzione. April era come ogni giorno seduta accanto a me, ma stranamente, non voleva parlarmi. Provarci non aveva senso, poiché lei stessa non faceva che evitarmi. Mantenendo il silenzio, tentai di ignorarla, e accorgendomi dell’inizio dell’intervallo, tentai di convincerla a rivelarmi la verità che celava all’interno della sua mente. “Ti senti bene?” le chiesi, guardandola negli occhi e tacendo nell’attesa di una sua risposta. “No.” Disse mestamente, voltandosi fino a darmi le spalle. “Perché?” continuai, confusa e stranita dalla risposta che avevo appena ricevuto. “Lo sai benissimo.” Mi rispose, voltandosi nuovamente verso di me e tentando di trattenere delle fredde e amare lacrime che vidi chiaramente per una frazione di secondo. Le stesse, cominciarono a rigarle il volto senza che lei avesse modo di controllarle, e mantenendo il silenzio, non sapevo cosa dire. Fra me ed April era appena nata una lite, e per la prima volta, non avevo idea di come gestirla. Ad essere sincera, non avrei mai voluto litigare, e il mio cuore appariva ora diviso in due. Una parte di me avrebbe voluto scusarsi e consolarla, mentre un’altra, che lottava strenuamente contro la prima, non avrebbe avuto desiderio dissimile dal riempirmi del coraggio necessario a parlarle e dirle tutta la nuda e cruda verità, secondo la quale, Nicholas aveva giocato con il suo cuore, fingendo di amarla unicamente per avvicinarsi a me. Riflettendo, compresi che Nicholas ed io avevamo la nostra dose di colpa, e che le cose non potevamo essere cambiate. Nella mia mente aleggiavano migliaia di dubbi e domande prive di una risposta. Volevo bene ad April, e non avrei certamente permesso che l’amore provato per Nicholas mi allontanasse da lei. Scuotendo energicamente la testa, presi un’importante decisione. Congedandomi quindi da April, mi diressi verso il cortile scolastico, andando alla di Nicholas. Per pura fortuna, lo trovai in fretta, appoggiato contro un muro e intento a fissare lo schermo del suo cellulare. “Noi due dobbiamo parlare.” Gli dissi, lasciando che la mia ombra si stagliasse su di lui e costringendolo ad alzare lo sguardo. “Hai mentito ad April.” Continuai, guardandolo con occhi di ghiaccio e volendo quasi redarguirlo per quel che aveva fatto. “Avrebbe dovuto capirlo.” Mi rispose, fissandomi ed evitando di staccare il suo sguardo dal mio. “Tu l’hai ferita.” Continuai, cercando di ritrovare il coraggio che stavo lentamente perdendo durante quella che consideravo un’ardua battaglia verbale contro di lui. “Non è vero.” Disse, per poi scivolare nel più completo silenzio. In quel momento, non emettevo un fiato, ma guardandolo, notai in lui un cambiamento. Difatti, il povero Nicholas sembrava essere sul punto di piangere, e continuando a guardarmi, ripeteva quella semplice frase. “Non è vero.” Diceva, avvicinandosi lentamente e tentando di convincere sia me che se stesso. Un attimo svanì dalla mia vita come fumo, e singhiozzando, Nicholas spostò il suo sguardo sul terreno, per poi tornare a guardarmi e iniziare a parlare con voce roca e strozzata dal nodo di pianto che sapevo gli attanagliasse la gola. “Heaven, io ti amo, non capisci?” mi chiese, urlando in preda alla più profonda e nera disperazione. “Anch’io ti amo, ma allo stesso tempo ti odio!” gli gridai, avendo appena il tempo di notare che i miei occhi avevano iniziato a grondare lacrime. Con la vista offuscata dal mio stesso pianto, mi voltai e iniziai a correre, avendo come unico desiderio quello di allontanarmi il più possibile da lui. Il mio istinto e il mio animo ferito collaborarono, ed io mi nascosi nel club di teatro. Sapevo bene che era un luogo poco frequentato, e che quindi nessuno sarebbe venuto a disturbarmi. Camminando lentamente, raggiunsi il palco dell’auditorium scolastico, e sedendomi in terra, nascosi il viso fra le mani, per poi iniziare a piangere come una bambina. Ero completamente da sola, ma nonostante tutto, avrei potuto giurare di aver sentito, in lontananza, un secondo pianto simile al mio. Guardandomi intorno, riflettei per alcuni secondi, scoprendo che la voce della seconda ragazza che stava letteralmente annegando nelle sue stesse lacrime, era di April. Non muovendo un singolo muscolo, rimasi ferma dov’ero, e continuando a piangere, compresi ogni cosa. Nicholas era un ragazzo infido, che mi aveva semplicemente usata, e che aveva riservato lo stesso ignobile trattamento alla povera e sensibile April, unica persona il cui animo era ricoperto di ferite perfino peggiori delle mie. Ci aveva ingannate entrambe, e perdendomi nei miei pensieri, imputai a lui la colpa del dolore che stavamo vivendo e attraversando, scoprendo che quella che avevo ingenuamente stretto con lui, non era che una falsa e melliflua alleanza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo X
Sola contro il male
Il buio della notte mi avvolgeva, e rintanata sotto le mie morbide coperte, non dormivo. Ero infatti sveglia e vigile, troppo concentrata sulla mia sorellina Grace per addormentarmi. Sin da quando era nata, dei sospetti in me si erano risvegliati, ragion per cui passavo la maggior parte del mio tempo a controllarla, sempre conservando la segreta speranza di vederla mettere un piede in fallo e lasciarsi scoprire per la persona che in realtà è, ovvero una bambina malvagia che mira a distruggere me e la mia felicità. Lentamente, il dorato sole prese il posto dell’argentea luna, e alzandomi controvoglia dal letto, mi diressi in cucina. Una volta lì, feci colazione bevendo del latte e sgranocchiando alcuni biscotti. Ad ogni modo, quello fu un pasto di cui non riuscii a godere, poiché un oscuro e segreto pensiero mi portava a credere che la situazione sarebbe presto peggiorata fino a diventare orribile. Tutto ebbe inizio non appena incrociai lo sguardo di mia madre. Si era appena svegliata, e appariva ai miei occhi piena di energie. Ora che Grace aveva compiuto tre anni, lei stessa affermava che era diventata molto più facile da gestire, motivo per cui era riuscita a tornare a dedicarsi al suo lavoro di psicologa. Una professione che data la sua innata predilezione per la calma e la sua accondiscendenza verso ogni tipo di persona, le si addiceva perfettamente, calzandole come un guanto. Proprio come lei, anche mio padre era spesso assorto nel suo impegnativo lavoro di impiegato, e in tali circostanze, io rimanevo l’unica persona in grado di prendermi cura della mia sorellina. Il tempo scorreva lentamente, ed io avevo ormai raggiunto la mia stanza, ed ero occupata a vestirmi. Improvvisamente, sentii un rumore, e voltandomi di scatto, vidi la porta della mia stanza aprirsi cigolando debolmente. “Ti conviene muoverti, o farai tardi.” Mi consigliò mia madre, posando il suo sguardo su di me e regalandomi un sorriso. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, per poi vederla andarsene e richiudere la porta alle sue spalle. Ad ogni modo, fui pronta solo alcuni minuti più tardi, e camminando alla volta dell’uscio di casa, notai che mia madre trafficava nel corridoio, incontrando non poche difficoltà nell’indossare un paio di scarpe e aiutare Grace a infilare il cappotto. Data la sua natura infantile, mancava poco perché la bambina scoppiasse a piangere. Notandolo, decisi di giocare d’astuzia, tornando in fretta nella mia stanza e portandole un giocattolo con cui distrarsi. Sorridendo, Grace smise di lamentarsi, per poi spostare tutta la sua attenzione sul pupazzo che ora stringeva in mano. Appena un attimo più tardi, la presi per mano convincendola a seguirmi. “L’accompagno io.” Dissi a mia madre, stringendo forte la mano di Grace e vedendola iniziare a camminare al mio fianco. A quelle parole, mia madre non rispose, limitandosi ad annuire e uscire di casa quasi contemporaneamente a me. Fu questione di pochi minuti, e la sua auto partì sparendo dalla mia vista in una stretta curva stradale. Intanto, non accennavo a smettere di muovermi, avendo come unico obiettivo quello di portare a termine il compito che mi ero lasciata affidare. Per quella che potevo purtroppo considerare sfortuna, l’asilo di Grace era lontano dalla mia scuola, ma improvvisamente, la mia sorte si ribaltò, decidendo di sorridermi. Un viaggio in pullman mi evitò la stanchezza del muovermi a piedi, e non appena arrivai, una delle insegnanti di Grace mi salutò affettuosamente, per poi fare la stessa cosa anche con lei. “Tu sei Heaven, vero?” mi chiese la donna, sorridendo e parlando in modo gentile. “Sì.” Mi limitai a rispondere, concedendomi poi del tempo per guardarmi intorno e notare la presenza di molti altri bambini della stessa età della piccola Grace. Guardando meglio, mi accorsi però di un secondo particolare. Difatti, e per qualche arcana ragione, nessuno di quei bambini riusciva a staccare gli occhi dalla stessa Grace. In quel momento, tacevo. Ero certa che la conoscessero, ma nonostante tutto continuavano a fissarla come se quella fosse stata la prima volta in cui la vedevano. Volendo unicamente evitare di destare sospetti, tentai di ignorare l’intera situazione, congedandomi in fretta dall’insegnante e lasciando Grace in quelle che consideravo ottime mani. Subito dopo, ricominciai il mio cammino verso la mia scuola. Fortunatamente, riuscii ad arrivare in orario, evitando così di danneggiare la mia reputazione di studentessa modello. Le cinque ore di lezione si susseguirono veloci, e con l’arrivo dell’intervallo, mi recai nell’auditorium scolastico. Ognuno dei miei amici aveva ricevuto una comunicazione secondo la quale ogni membro del gruppo di teatro avrebbe dovuto recarsi in quel luogo al suono della campanella. Obbedendo a quella sorta di ordine, mi recai nel luogo designato, ritrovandomi di fronte ad una scena che mi tolse il respiro e le parole di bocca. Proprio davanti ai miei occhi, c’era Nicholas. In quel preciso istante, era come se per lui non esistessi. Non riuscivo a credere ai miei occhi, eppure sapevo di non stare sognando. Lo stesso Nicholas era infatti impegnato ad abbracciare e baciare l’unica persona che avrei mai potuto definire mia nemica, ovvero l’odiosa, acida e detestabile Liberty. A quella vista, non trattenni le lacrime, ma ad ogni modo, tentai di non scompormi, voltandomi e fuggendo senza dire una parola. Camminando, lasciai che il dolore mi attraversasse il corpo come una potentissima scarica elettrica, e piangendo, mi maledissi e rimproverai per essere caduta nell’angusta trappola tesami da Nicholas. Passai il resto di quella mattinata in completo silenzio, con il mio dolore come unica e sola compagnia. Quando finalmente tornai a casa, mi sdraiai sul letto, piantandomi gli auricolari nelle orecchie e sperando che la musica mi distraesse dal mio stato di malessere. Lentamente, finii per addormentarmi. Dormii per alcune ore, e al mio risveglio, scoprii che mia madre era tornata dal lavoro, e aveva riportato Grace a casa dall’asilo. Sorridendo, correva per il salotto di casa, giocando e lasciandosi sfuggire piacevoli risate. Alcuni minuti passarono, ed io sentii un tonfo. Colta alla sprovvista, mi voltai verso la fonte di quel rumore, e pur chiamando la mia sorellina per nome, non ricevetti alcuna risposta. Ad ogni modo, ammirai lo scorrere del tempo, ritrovando a camminare per l’intera casa alla sua ricerca. Sfortuna volle che non la trovassi, ma in compenso notai la presenza del suo zainetto sul divano di casa. Per qualche strana ragione, era aperto, e il contenuto si era riversato sul pavimento. Fissando il mio sguardo sullo zaino stesso, scoprii l’esistenza di un foglio di carta. Guardandolo, capii che era un disegno. Facendomi quindi sfuggire un sorriso, capii che era opera di Grace. In breve, e per mia stessa e nera sfortuna, la mia felicità si tramutò in orrore dopo solo un secondo. Difatti, quel disegno ritraeva la nostra intera famiglia, ma per qualche strana ragione, io non ero presente. I personaggi ritratti erano infatti tre, fra cui una sola bambina dai capelli lunghi e castani. A peggiorare le cose, la stessa e orribile frase che avevo avuto modo di leggere tempo prima. “Solo io.” Sei lettere che ricordavo perfettamente, quasi come se fossero state scolpite nella mia memoria. Stringendo quel foglio in mano, lo piegai in maniera tale da farlo entrare nella tasca della mia felpa. Concedendomi quindi del tempo per riflettere, giunsi nuovamente alla più amara delle conclusioni, secondo la quale Grace non faceva altro che fingere e recitare sin dalla sua nascita, odiandomi e non desiderando nient’altro che la mia eliminazione. Il suo piano si stava lentamente sviluppando, ed io dovevo assolutamente provare a difendermi, poiché ora ero sola contro il male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XI
Prova d’innocenza
La pioggia ha appena smesso di scrosciare, e tutto ciò che ne rimane è rappresentato da minuscole gocce d’acqua sospese in aria. Il risultato è una fitta nebbia che mi impedisce di muovermi agilmente. Difatti, e pur aguzzando la vista, non riesco letteralmente a vedere nulla. Tremando a causa del freddo, mi stringo nella giacca che porto, fissando il mio sguardo sul duro asfalto e rimembrando ciò che nascondo nella tasca della mia felpa. Il disegno di Grace. Il capolavoro di una bimba in età prescolare, mia unica prova del suo vero essere. Ora come ora, sto tornando a casa, e ad ogni passo la mia meta appare più vicina. Seppur lentamente, il freddo aumenta, e le raffiche di vento sembrano sfigurarmi il viso. Ad ogni modo, stringo i denti, e riprendendo il mio cammino, mi concentro su quella che è la mia destinazione. I minuti scorrono, ed io arrivo a casa. Afferrando le chiavi, mi avvicino alla porta, per poi aprirla ed entrare. Muovendo quindi qualche deciso passo in avanti, mi accomodo su una delle poltrone presenti nel salotto, così da scaldarmi accanto al caminetto e godermi il crepitio delle fiamme. Sono appena tornata da scuola, e in questo preciso istante, inganno il tempo ammirando il panorama visibile dalla finestra del salotto. Il vetro è freddo come la neve, e il mio respiro lo appanna. Tutto fuori è grigio e malinconico, proprio come la mia vita in questo momento. Ad essere sincera, non pensavo di arrivare mai a dirlo, eppure sembra che Grace mi stia rovinando la vita. Il tempo sta passando, e finalmente, dopo quelle che mi sembrano lunghe e interminabili ore, un suono mi distrae. Guardando fuori dalla finestra, scopro l’arrivo di mia madre, e voltandomi verso la porta, aspetto che la stessa venga aperta. Nello spazio di un momento, la maniglia si abbassa con estrema lentezza, per poi aprirsi completamente. In quel preciso istante, mia madre fa il suo ingresso in casa. Sentendola arrivare, Bella corre a farle le feste, che lei accetta di buon grado. Come mi aspettavo, Grace ha la stessa reazione, e correndo ad abbracciarla, riceve un leggero bacio sulla fronte. “Devi vedere una cosa.” Le dissi, prendendo la parola e rompendo il silenzio creatosi nella stanza. Incuriosita, mia madre posò il suo sguardo su di me, attendendo che io facessi la mia mossa. Non volendo farla aspettare troppo, infilai una mano nella tasca della felpa, per poi estrarne quel famigerato disegno. “È mio.” Disse Grace, avvicinandosi a me e mostrando un luminoso sorriso. “È bellissimo.” Rispose mia madre, dopo averlo esaminato con attenzione. A quelle parole, mi sentii mancare. Evidentemente, non aveva notato l’oscura frase posta proprio al centro di quel disegno, la cui sola lettura mi portava a tremare. Ad ogni modo, minimizzai ogni cosa, e sorridendo mellifluamente,  concordai con mia madre senza dire una parola. Subito dopo, la piccola Grace decise di lasciarci da sole, correndo quindi in camera sua a giocare. Non appena fu abbastanza lontana da non riuscire a sentirci, mia madre sembrò diventare un’altra persona. Facendosi seria, mi guardò negli occhi, pronunciando la fatidica frase che aspettavo di sentire da anni. “Avevi ragione, qualcosa non va in Grace.” Disse, scivolando poi nel più assoluto e completo mutismo. “Come lo sai?” chiesi, con l’ingenuo obiettivo di ottenere più informazioni. “Sono una psicologa, e nessun bambino disegna in quel modo.” Rispose, tacendo al solo scopo di riprendere fiato. “Heaven, Gracie non è una bimba normale, e purtroppo questo è solo l’inizio.” Continuò, pronunciando poche e semplici parole con il potere di spingermi in una spirale di sconforto, dolore e incredulità. Ora come ora, la mia vita era caratterizzata e controllata da una sola parola. Forse. Difatti, esisteva una mera e remota possibilità che finalmente mia madre mi credesse riguardo a Grace, e che quindi il mio comportamento non fosse più visto come frutto di una futile gelosia. Nessuno poteva conoscere quella bambina meglio di me, ed io ero certa di conoscere anche l’oscura verità e la coltre di mistero che l’avvolgevano. Qualcuno aveva deciso di darmi ascolto, permettendomi di dimostrare con prove tangibili la mia più completa e definitiva innocenza.
Capitolo XII
Ritorno alle origini
Il sole predomina in questa così luminosa giornata. La mattinata odierna si è appena conclusa, venendo lentamente sostituita dal pomeriggio. Ora come ora, sono impegnata con i miei doveri scolastici, ma per qualche strana ragione, non riesco a mantenere la mia solita e innata concentrazione. Il tempo scorre senza sosta, e ogni cosa riporta alla mia mente il ricordo di Nicholas. Prendendomi una pausa dallo studio, mi concedo del tempo per pensare, finendo per innervosirmi e camminare ininterrottamente per l’intera casa. Lentamente, raggiungo la mia stanza, e un oggetto posto sopra alla mia scrivania attira la mia attenzione. Avvicinandomi, scopro che è la collana regalatami da Nicholas. Prendendola in mano, la esaminai con attenzione, per poi rimetterla a posto e scuotere energicamente la testa al solo scopo di cancellare quel pensiero dalla mia mente. Ad ogni modo, il mio espediente parve non funzionare. Difatti, uno completamente nuovo sopraggiunse, avendo il potere di farmi sentire perfino peggio. Ero tornata a studiare, e frugando nel mio astuccio alla ricerca di una penna, avevo distrattamente tirato fuori il bigliettino che mi aveva lasciato. “Ti credo.” Diceva, riuscendo a risvegliare in me la sopita fiducia che sapevo di nutrire nei suoi confronti. Da quel momento in poi, i minuti mi apparvero lunghi come anni, e ogni mia azione sembrava non avere una concreta fine. Dopo un tempo che non fui in grado di definire, presi una singola decisione, a seguito della quale, chiusi i libri riponendoli nel mio zaino. Camminando con estrema lentezza, tornai nella mia stanza, per poi lasciarmi cadere sul letto e abbandonarmi ad un pianto dirotto e liberatorio. Anche in quella circostanza, mantenevo il silenzio, lamentandomi sommessamente al solo fine di non essere sentita né ascoltata da nessuno. Attorno a me regnava il silenzio rotto solo dal suono del mio pianto, e improvvisamente, un secondo rumore mi distrasse. Voltandomi, ne scoprii la provenienza, e alzandomi dal letto, notai la presenza di Nicholas alla mia finestra. La sua espressione era statica, e non tradiva alcuna emozione. Spostando il mio sguardo su di lui, decisi di aprirla, per poi lasciarlo entrare. “Perché sei qui?” gli chiesi, con la voce ancora tradita e corrotta dal pianto e dalle lacrime che avevo appena smesso di versare. “Perché piangevi?” indagò, rispondendo alla mia domanda con una completamente diversa. “Sono sola.” Dissi, chinando leggermente il capo per la tristezza. A quella scena, Nicholas mantenne il silenzio, non proferendo parola e scegliendo di provare a rincuorarmi cingendomi un braccio attorno alle spalle. “Non è vero. Io sono qui con te.” Disse, sorridendo debolmente e sperando che lo imitassi. Per sua sfortuna, ciò non accadde, ed io mi limitai ad indietreggiare. “Ti penso continuamente.” Disse poi, parlando con estrema chiarezza e sentendo la sua voce spezzarsi mentre mi parlava. A quelle parole, sussultai. Un improvviso nodo alla gola mi costrinse a ricominciare a piangere, e proprio in quel momento, mille fredde lacrime iniziarono a rigarmi il volto senza apparente sosta. Singhiozzavo ininterrottamente, e non riuscendo a calmarmi, stentai a tenere a freno la lingua, pronunciando quindi una frase della quale non mi pentii minimamente. “Sono gelosa di Liberty.” Ammisi, per poi respirare a pieni polmoni e riuscire finalmente a ritrovare la calma. Mantenendo il silenzio, Nicholas mi guardava, e nello spazio di un momento, si avvicinò a me tanto da riuscire a toccarmi. Subito dopo, mi strinse forte a sé, e posando un bacio sulle mie labbra, riuscì a farmi dimenticare tutto il mio dolore. “Lei non ha mai significato niente. Confessò, baciandomi sulla guancia e rivelandomi nuovamente una verità a cui mi ero rifiutata di credere. “Io ti amo sin da quando ti ho conosciuta.” Disse, guardandomi con gli occhi di chi ama. A quelle parole, rimasi letteralmente impassibile, salvo avere l’unica reazione di abbracciarlo stringendolo a me. Il nostro abbraccio si sciolse come neve al sole solo pochi attimi dopo, ovvero quando Nicholas mi salutò scegliendo di lasciare casa mia. Rimanendo immobile, lo guardai allontanarsi, per poi richiudere la porta di casa e accomodarmi sul divano. Per l’ennesima volta, mi persi nei miei pensieri, accogliendo nella mia mente ognuna delle novità che avevo appena sperimentato. Gli innumerevoli attimi di cui la mia vita si componeva continuavano a susseguirmi, e finalmente, potevo dirmi pronta. La situazione che aveva appena vissuto era stata letteralmente magica, e dato il reale e genuino pentimento di entrambi, poteva definirsi un seppur lento ritorno alle origini.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XIII
Lavoro di squadra
Due intere settimane erano lentamente passate, raggiungendo la loro fine e decretando il continuo scorrere del tempo. Come di consueto, il sole si leva anche oggi, ed io mi ritrovo impegnata ad ammirare la verde e rigogliosa erba che cresce nel giardino della mia modesta e umile casa. Ora come ora, il vento fischia e ulula, riuscendo a farsi ascoltare perfino a chilometri di distanza. La mia finestra è chiusa, e i miei pensieri continuano a galleggiare nella mia mente come piccole bolle d’acqua. Abbandonandomi ad un sospiro, lascio la mia stanza, per poi dirigermi verso il salotto di casa ed accomodarmi sul divano. Appena un attimo dopo, accesi la televisione, nella speranza di ingannare il tempo in quel così noioso e uggioso pomeriggio. Il silenzio regnava sovrano nella stanza, venendo rotto unicamente dal volume del televisore stesso. Accanto a me sedeva Grace. Spostando il mio sguardo su di lei, la fissai per alcuni secondi, notando in lei un cambiamento a dir poco spaventoso. Difatti, i suoi occhi apparivano spenti, così come il suo sguardo, ora completamente privo di vita. “Sto bene.” Mi ripeteva ogni volta che azzardavo una domanda sul suo stato di salute. Stringendomi nelle spalle, iniziai ad ignorarla, concentrandomi quindi sul programma che ero impegnata a guardare. Improvvisamente, la televisione si spense, e il silenzio si ruppe a causa di un suono incredibilmente auto. Alzandomi di scatto dal divano dov’ero seduta, mi guardai attorno scoprendo l’esanime corpo di Grace steso in terra, e scosso da continui e violenti tremiti. Spaventata, mi precipitai in cucina, dove trovai mia madre. “Che succede?” mi chiese, notando il mio pallore e il mio palese stato di tensione. Grace non sta bene.” Dissi, afferrandole un polso e costringendola a seguirmi fino al salotto, dove la mia sorellina giaceva versando in condizioni letteralmente pietose. A quella vista, mia madre iniziò a piangere, e chiamando il suo nome, sperò in un suo risveglio, che per sua mera sfortuna non arrivò. Prendendola subito in braccio, uscì di casa con velocità inaudita, per poi dirigersi verso la sua auto e scegliere di metterla in moto. In quel momento, le parole non servirono. Muovendomi con scatti degni di un agile felino, decisi di seguirla, sedendomi in auto al solo scopo di esserle d’aiuto, e monitorare in maniera costante le condizioni della piccola e povera Grace. Nello spazio di un momento, le ruote dell’auto di mia madre morsero il duro asfalto, e il nostro viaggio verso l’ospedale era inizio. Quel giorno, entrambe sembravamo perseguitate dalla più nera sfortuna. Il tempo scorreva, Grace stava peggiorando, ed io ero nervosa. “Resisti.” Le ripetevo, carezzandole il volto e sentendo il mio cuore perdere un battito ogni volta che avevo la fortuna di sentirla biascicare qualche insensata parola. Finalmente, e dopo un’intera ora passata a guardare fuori dal finestrino dell’auto, io e mia madre raggiungemmo la nostra destinazione. Piangendo, lei stessa consegnò la figlia nelle mani di un’infermiera, per sedersi in sala d’attesa e sperare per il meglio. Io ero con lei, e facevo del mio meglio per tentare di confortarla. “Non so cosa sia successo.” Ammisi, guardandola negli occhi e sperando nella sua comprensione. “Tu non hai colpe.” Mi disse, facendosi improvvisamente seria e fissando il suo sguardo su di me. “Tutto in lei sta cambiando.” Continuò, per poi scivolare nel silenzio e spostare il suo sguardo sull’ormai chiusa porta dello studio medico. A quelle parole, sbiancai, per poi tornare a guardarla con aria confusa. “Che stava succedendo?” “Era un sogno?” Sapeva qualcosa?” tre domande che durante quell’attesa non lasciarono la mia mente neppure per un singolo attimo. Per quanto ne sapevo, Grace era una bimba sana, e nonostante l’enorme paura che riusciva a farmi provare, non avevo mai avuto l’occasione di vederla mostrare alcun segno di malessere. Detestavo ammetterlo, ma mia madre aveva ragione. Tutto in Grace stava cambiando, e quello che vivevamo non era che l’inizio di un orribile calvario. Ad ogni modo, e dopo un’infinita attesa, quella famigerata porta si aprì di nuovo. “Come sta la bambina? È viva?” chiese mia madre, scattando in piedi e avvicinandosi subito ai medici alla ricerca di risposte e speranze. È stabile, ma resterà qui solo per tranquillità. A quelle parole, mia madre non rispose, approfittando di una distrazione degli stessi medici per entrare in quella stanza. Alzandomi in piedi, tentai di fermarla, ma due infermiere mi impedirono di muovere un passo. “Lì c’è mia sorella.” Dissi, facendo del mio meglio per evitare di scompormi e mantenere la calma. Per semplice fortuna, quelle parole funsero da lasciapassare, e scostandosi, i medici mi lasciarono raggiungere mia madre e mia sorella. Una volta arrivata, vidi Grace, e istintivamente, chiusi gli occhi. La testa mi girava, ed io mi sentivo mancare. Non riuscivo a crederci, eppure la mia sorellina era lì, tenuta in vita da una rumorosa macchina e da una flebo contenente un liquido che non riuscii a identificare. “Cosa le farete?” chiesi, avvicinandomi ad una delle infermiere presenti. È solo svenuta, e le servono dei liquidi.” Mi disse, mantenendo la professionalità e tentando di tranquillizzarmi. Tornando a guardare mia sorella, trassi conforto da quelle parole, rifiutandomi di lasciarla da sola fino a notte fonda. Le ore apparivano infinite, e sotto consiglio di mia madre, decisi di andarmene. Non appena tentai di alzarmi dalla sedia, sentii un rantolo, e poi una voce. Grace non voleva che me ne andassi, e con le poche forze che era riuscita a raccogliere, chiamò flebilmente il mio nome. Sentendo in me nascere una nuova speranza, mi voltai, invitando mia madre a fare lo stesso. Da quel momento in poi, la situazione parve ribaltarsi. Seppur lentamente, Grace riuscì a liberarsi dalla flebo attaccata al suo braccio, e sorprendentemente, l’ago infilato nella sua pelle non la ferì, lambendola soltanto. I medici attorno a lei credettero di aver assistito ad un miracolo, ed io sorridevo. Ero felice di quanto era appena accaduto, ma al contempo non sapevo cosa pensare. La ragione mi portava a credere che la situazione non avrebbe fatto che migliorare, mentre la paura mi spingeva in tutt’altra direzione. Sembrava incredibile, o addirittura folle, ma io avevo paura di mia sorella. Una bambina di quasi cinque anni, che era, se lontana da occhi indiscreti, capace di farmi provare le peggiori sensazioni della mia vita. Mantenendo il silenzio, osservavo il continuo muoversi delle lancette dell’orologio appeso al muro del salotto, finendo per addormentarmi sul divano. Ad ogni modo, non riuscii a dormire. Il sadico sorriso di Grace unito all’innaturale brillare dei suoi occhi continuava a tornarmi in mente, costringendomi a svegliarmi varie volte durante la notte. Durante il sonno, mi agitavo fino a sudare, e dopo tre notti passate in bianco, decisi di agire. Mi alzai dal letto solo con l’arrivo del mattino, scegliendo di informare i miei genitori riguardo a quanto mi era successo. Inizialmente, entrambi furono restii a credermi, ma grazie ad una buona dose di polso, riuscii a convincerli della realtà che vivevo. Così, in quella stessa e soleggiata mattina, mia madre decise di portare subito la bambina da un dottore, così che venisse esaminata. A parer suo, infatti, la salute mentale di Grace stava lentamente vacillando. Camminando, guadagnai la porta di casa, per poi uscirne e raggiungere l’auto di mia madre. Vi salii con agilità e disinvoltura, vedendo la mia sorellina fare lo stesso. Senza proferire parola, si sedette accanto a me, mantenendo il silenzio per tutta la durata del viaggio. Al nostro arrivo nello studio medico, Grace venne affidata alle cure di quella che identificai come una psicologa infantile. Alla nostra vista, la donna salutò mia madre in modo amichevole, ragion per cui dedussi che erano amiche. Alcuni istanti dopo, vidi Grace prendere per mano quella giovane donna, per poi seguirla fino al suo studio. Muovendo alcuni incerti passi in avanti, io e mia madre tentammo di avvicinarci a nostra volta, ma senza successo. Difatti, la porta a noi dinanzi venne chiusa prima che riuscissimo a varcarla. In quel momento, avrei davvero voluto possedere un udito sopraffino, così da riuscire a carpire i dettagli presenti nei discorsi della dottoressa. Ad essere sincera, sentivo chiaramente la voce di Grace assieme a quella dell’infermiera stessa, ma per sfortuna, non riuscii a capire cosa si stessero dicendo. Trenta minuti. Quello l’esatto lasso di tempo trascorso da Grace dietro quella porta. Non appena uscì, mia madre la salutò abbracciandola, e prendendola per mano, la guidò fino all’esterno dell’edificio. Subito dopo, tornammo alla macchina, e il nostro viaggio di ritorno a casa ebbe inizio in quello stesso istante. “E adesso?” chiesi a mia madre, non appena ci ritrovammo da sole nel salotto di casa. “La dottoressa Everson è mia amica, possiamo fidarci.” Rispose, parlando in tono serio e al contempo mostruosamente calmo. Annuendo, mantenni il silenzio, scegliendo quindi di attraversare il corridoio e raggiungere la mia stanza. Poco prima di farlo, mi scambiai un’ultima occhiata d’intesa con mia madre. Appena un attimo dopo, e quasi automaticamente, mi richiusi la porta alle spalle, e infilando il pigiama, trovai rifugio dal freddo sotto le coperte. Dormire mi fu quasi impossibile. Attorno a me accadevano decisamente troppe cose, ed io non avevo parole per descrivere la miriade di orribili emozioni che provavo. Respirando a fondo, mi concessi del tempo per pensare, realizzando che la fiducia di mia madre era tutto ciò che mi serviva per un attento ed efficace lavoro di squadra.
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XIV
Inquietudine
Sul mio viso splendeva l’alba di un nuovo giorno, con il sole che mi baciava accarezzandomi i capelli. Era ormai passata una settimana, e svegliandomi nella mia stanza, tirai un sospiro di sollievo. Per pura fortuna, Grace era riuscita a riprendersi dal suo svenimento, e l’incontro con la dottoressa Everson sembrava non avere creato problemi. Ad ogni modo, questo non era che il mio pensiero, palesemente intriso del mio innato ottimismo. La mia sveglia stava suonando, ed era per me ora di andare a scuola. Spegnendola, mi alzai dal letto, per poi scoprire di non dover prepararmi per la scuola. Per tale e semplice motivo, non avevo idea di come passare quell’apparentemente tranquilla domenica primaverile. Uscendo dalla mia stanza, raggiunsi il salotto. La prima cosa che vidi fu Bella, nuovamente concentrata sulla porta di casa ora chiusa. Muovendo pochi passi in avanti, mi avvicinai, per poi scoprire la presenza di una busta da lettere sul pavimento. A quanto sembrava, era arrivata posta. Quasi a volermi evitare quella fatica, Bella raccolse da terra quella busta prendendola in bocca, per poi porgermela con garbo e grazia. Carezzandole frettolosamente la testa, corsi in cucina. Lì trovai mia madre, e informandola riguardo alla lettera, le chiesi di aprirla. “Ce la manda la Everson.” Disse, rompendo come vetro il silenzio creatosi nella stanza. Esaminandola con attenzione, mia madre rimase in silenzio, per poi scegliere di riprendere la parola e spezzare nuovamente la quiete. “Sono i risultati di Grace.” Continuò, tacendo al solo scopo di studiare la mia seppur muta reazione. “Vestiti.” Mi disse, facendosi improvvisamente seria. Mantenendo il silenzio, annuii con decisione, per poi sparire dietro la porta del bagno di casa, dove mi rintanai per vestirmi. Ad ogni modo, ne uscii non appena fui pronta, per poi scoprire che mia madre stava per andarsene. “Vengo con te.” Affermai, irrigidendomi di colpo e rimanendo in attesa di una sua risposta. Quasi ignorandomi, mia madre si limitò a muovere leggermente una mano, segno che autorizzava la mia uscita assieme a lei. iniziando quindi a muovermi con la velocità di un maratoneta, raggiunsi subito la sua auto, scegliendo di salirvi aprendo in fretta la portiera. Il nostro viaggio ebbe inizio nel momento in cui mia madre accese il motore dell’auto, e il rombo dello stesso mi fece sobbalzare. Guardandomi confusamente intorno, riuscii a ritrovare la calma. Spostando poi il mio sguardo fuori dal finestrino, lo lasciai cadere sulla strada, che sembravano scivolare via liscia come l’olio. Il tempo continuò quindi a scorrere, e in pochissimo tempo ci ritrovammo davanti all’ospedale locale. Evitando di chiedere spiegazioni, scesi dall’auto, per poi comprendere quanto stesse accadendo. A quanto sembrava, mia madre aveva deciso di consultarsi con la dottoressa Everson riguardo a Grace. I risultati presenti nella lettera che avevamo ricevuto erano pessimi, e parlare con quella donna era a suo dire la nostra ultima spiaggia. Camminavo a testa alta, preoccupandomi unicamente di seguire mia madre per i lunghi corridoi dell’ospedale. Una volta raggiunta la sua destinazione, si fermò, e bussando educatamente ad una porta, attese con calma che venisse aperta. Fortunatamente, il suo desiderio venne esaudito in poco tempo, ed accomodandosi nello studio della dottoressa Everson, mia madre la guardò negli occhi, andando silenziosamente alla ricerca di risposte. “Dovete ascoltare questo.” Ci disse, guardandoci e facendo scivolare un piccolo registratore sulla sua lignea scrivania. Quasi istintivamente, lo afferrai, per poi schiacciare il tasto corrispondente. In quel preciso istante, raggelai. Nella voce di Grace non c’era nulla che non andasse, ma per qualche strana ragione, non riuscivo a smettere di tremare. Le frasi che pronunciava giungeva alle mie orecchie come sinistre e minacciose. Ad ogni modo, una in particolare mi colpì togliendomi il respiro. “Sono destinati ad andarsene. Quella l’unica frase in grado di farmi letteralmente accapponare la pelle, provocando paura e terrore. Istintivamente, guardai mia madre, che scoprì nel mio sguardo un’inaudita confusione. Ero atterrita. Mia sorella Grace, una bimba di appena cinque anni, era riuscita a formulare frasi dal significato oscuro ed enigmatico. Andando alla ricerca della calma che sapevo di aver perso, iniziai a pensare, ma ogni mia riflessione, sembrò condurmi in una sorta di metaforico vicolo cieco. Per la prima volta nella mia vita, sentivo di non sapere nulla di Grace. Era inspiegabile. Ero una ragazza semplice e prossima all’età adulta, che in quel preciso istante poteva paragonarsi ad un topo in un’angusta trappola. I minuti scorrevano, e la situazione continuava a peggiorare. “Avreste dovuto vedere i suoi occhi.” Ci disse la dottoressa, tornando a guardarci e ridestandoci dall’orribile stato di trance in cui avevamo finito per cadere. A quelle parole, ricominciai a tremare. Notando la mia irrequietezza, mia madre decise di porre fine a quella sorta di tortura, e alzandosi in piedi, mi afferrò un polso. “Dobbiamo andare.” Disse, rivolgendosi alla dottoressa Everson e uscendo lentamente da quello che era il suo studio. Una volta arrivata alla macchina, non feci altro che ripensare alla registrazione che avevo sentito poco tempo prima. Quella singola frase risuonava nella mia mente producendo un’eco infinita. La paura mi assaliva, attanagliandomi lo stomaco e facendomi sudare freddo Ad ogni modo, mia madre ed io raggiugemmo la nostra destinazione dopo un viaggio di circa trenta minuti, e non appena misi piede in casa, rividi Rebecca. Inizialmente, non mi spiegai la sua presenza a casa mia, ma riflettendo, compresi che mio padre doveva averla nuovamente incaricata di badare a Grace. Salutandola, la vidi andarsene camminando lentamente, per poi notare gli occhi della mia sorellina. Non riuscivo a crederci, eppure erano neri. Un’improvvisa sensazione di freddo avvolse il mio intero corpo raggiungendo perfino le ossa. Chiudendo gli occhi, parlai con me stessa, convincendomi di averlo appena immaginato. Non appena li riaprii, ebbi la fortuna di scoprire che il mio espediente aveva avuto successo. Dopo quanto mi era accaduto nello studio della dottoressa, la mia mente aveva forzatamente dovuto replicare gli eventi vissuti, lasciando stavolta che la paura da me provata li alimentasse. Nel mero tentativo di ritrovare la calma ormai persa, mi immersi nella lettura, ma per pura sfortuna, nulla sembrò funzionare. Difatti, il pensiero delle oscure frasi pronunciate da quell’apparentemente dolce bambina mi stava lentamente logorando. Ben presto, fu per me l’ora di andare a letto, ma perfino un’azione semplice come dormire si rivelò un’impresa titanica. Le ore notturne trascorsero lente, e al mio tormentato risveglio, andai a scuola come ogni giorno. Dati i miei orribili trascorsi, la mia giornata fu incredibilmente difficile. I numerosi dubbi che nutrivo non facevano che moltiplicarsi, affollando la mia mente come migliaia di insetti, ed io non avevo modo di concentrarmi sulle lezioni. Incuranti di quanto mi stava accadendo, i miei compagni mi ignorarono, evitando porre domande e reputandomi nervosa. Ad ogni modo, e per quella che consideravo fortuna, esisteva un’unica persona pronta a difendermi ed aiutare in tale frangente. Nicholas. Il ragazzo che amavo, e al quale avevo promesso il mio amore nei tempi a venire. Con lo scorrere del tempo, Nicholas ed io riuscimmo a convincere anche April, che si dimostrò ben felice di provare ad aiutarmi. Era una ragazza curiosa, e ogni tipo di mistero la intrigava. Per tale motivo, decise di adoperarsi al fine di far luce sul mistero di Grace. Seduta nel mio banco di scuola, guardai i miei amici, e sorridendo, compresi una verità che ignoravo da ormai lungo tempo. Nicholas ed April non volevano che il mio bene, motivo per cui, sapevo che non mi avrebbero mai abbandonata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XV
Profondi misteri
Notte. Intorno a me il buio regnava, e i miei occhi erano chiusi, tentavo di dormire, ma non ci riuscivo. La testa aveva ricominciato a girarmi, e un sogno ricorrente mi impediva di ritrovare la calma e trascorrere una notte serena. Le parole di Grace formavano un’orribile eco nella mia mente, e venivano replicate da quella che era la mia paura. Tremante come una foglia, decisi di alzarmi e dirigermi in cucina per bere un bicchiere di latte caldo. Tale azione mi conciliava il sonno sin dalla più tenera infanzia, e sperando che il mio espediente funzionasse come ai tempi andati, riempii una tazza con del bianco latte, per poi riscaldarla nel microonde. Non appena fu pronta, la tirai fuori, e zuccherando la bevanda quanto bastava, mi apprestai a berla. Improvvisamente, un rumore mi distrasse. Brancolando nel buio, tentai di avvicinarmi all’interruttore della luce, e pur premendolo, notai che nulla cambiava. La lampadina si era sicuramente fulminata. Per alcuni secondi, silenzio, e poi una luce. Aguzzando la vista, notai la presenza di Grace. I suoi occhi brillavano, e lei rimaneva in silenzio, sorridendo in maniera inquietante. “Non riuscirai a smascherarmi.” Disse, con voce roca e profonda. A quelle parole, non risposi, e ricominciando a tremare, mi lasciai inavvertitamente cadere la tazza di mano, che incontrando il pavimento, si ruppe in mille pezzi. Pioveva, e un fulmine illuminò a giorno la cucina. In quel preciso istante, scoprii che Grace era sparita. Confusa e stranita da quanto era accaduto, tornai subito a letto, sperando di riuscire a dormire. Mi svegliai alle prime luci dell’alba, e con l’arrivo del mattino, mi preparai per la scuola. Durante l’intera giornata, il pensiero della mia disavventura notturna non accennava a lasciare la mia mente. Per tale ragione, faticavo a concentrarmi, e apparivo costantemente nervosa. “Sicura di star bene?” mi chiese April, tacendo nell’attesa di una mia risposta. È tutta colpa di Grace. Lei vuole uccidermi, ma nessuno mi crede.” Le dissi, approfittando dell’intervallo. “Ti sbagli. Ci siamo io e Nicholas.” Rispose, scegliendo poi di regalandomi un sorriso. Traendo conforto dalle sue parole, continuai a seguire le lezioni evitando accuratamente di distrarmi, e sapendo che la mia realtà stava cambiando in meglio. Ad ogni modo, tornai a casa solo dopo il suono dell’ultima campanella, e raggiungendo la mia stanza, presi in mano il mio cellulare. Il display segnalava l’arrivo di un messaggio, e leggendo il numero del mittente, scoprii che era da parte di April. “Ti aiuteremo.” Diceva, terminando dopo quelle due semplici parole. Abbandonandomi ad un sospiro di sollievo, decisi di lasciare il cellulare sul letto, per poi uscire dalla mia stanza e mettermi subito alla ricerca di mia madre Per qualche strana ragione, l’inquietante verità riguardo a Grace mi tormentava perfino nei sogni, ed io dovevo assolutamente parlarne con qualcuno. Difatti, speravo che esternare la negatività dei miei sentimenti mi aiutasse a ritrovare la calma, e riflettendo, compresi di non dover fare altro che provarci. Così, camminando per l’intera casa, raggiunsi quello che era il suo studio, e bussando alla porta, la aprii per entrare. La trovai assorta nella lettura di alcuni documenti, e attendendo che finisse di leggere, rimasi completamente immobile. Alzando quindi gli occhi dallo schermo del suo computer, mi guardò negli occhi. “Non adesso.” Disse, reputandosi troppo impegnata per ascoltarmi. Alterandomi di colpo, continuai a fissarla, pur senza dire una parola. “Cos’hai da dirmi?” chiese poi, arrendendosi di fronte alla mia insistenza. “Si tratta di Grace. L’altra notte mi ha parlato, e i suoi occhi erano neri. Lei non è una bambina normale!” dissi, finendo per urlare e non prestando attenzione al tono che utilizzai nel parlare. Alle mie parole, mia madre si irrigidì. “Credi forse che non lo sappia? Mi chiese, facendo uso di un acido e pungente sarcasmo. “In ospedale mi hanno detto tutto. È nata così, e non volevo dirtelo, ma è la verità. Grace non sarà mai come gli altri. Adesso vattene.” Continuò, terminando quella frase con la voce profondamente corrotta dalla rabbia. Attonita, biascicai qualche parola andando alla ricerca di ulteriori spiegazioni, ma i miei mugolii non servirono a nulla. “Fuori di qui!” gridò mia madre, scattando in piedi e intimandomi di lasciarla da sola. Iniziando inconsciamente a tremare, mi arresi a quello che era il suo volere, voltandomi e uscendo dal suo studio senza dire una parola. Mi richiusi educatamente la porta alle spalle, e senza volerlo, mi ritrovai ad origliare. Quello che sentivo oltre quella porta non era che un pianto, e le lacrime versate appartenevano a mia madre. In quel momento, mi sentii irrimediabilmente oltraggiata e ferita. Mia madre conosceva la verità, e nonostante questo aveva taciuto fino a che la mia insistenza non le aveva permesso di esplodere. Tornando nella mia stanza, scoppiai a piangere. Conservando forse un singolo briciolo di umanità nel suo freddo e oscuro cuore, Grace tentò di consolarmi, ma io la ignorai. “Va tutto bene.” Disse, mantenendo il silenzio e attendendo una mia qualsiasi risposta. Non è vero. Io ti odio.” Sibilai al suo indirizzo, cacciandola dalla mia stanza nel peggiore dei modi. Subito dopo, la vidi attraversare il corridoio fino a raggiungere la sua camera, e sentii la porta chiudersi con uno scatto. Ad ogni modo, passai le successive tre ore chiusa nella mia stanza, ricercando conforto nella musica e nella lettura. Sedevo sul mio letto, e fissando il mio sguardo sul pavimento, scoprii la presenza di una sorta di biglietto. Spinta dalla curiosità, lo raccolsi da terra, per poi riconoscere la scrittura di Grace. “Attenta ai passi falsi.” Queste le uniche parole scritte su quel pezzetto di carta, che messe insieme formavano una frase inequivocabilmente enigmatica. Non sapevo cosa significasse, e apparentemente non avevo modo di scoprirlo. Incredula e incerta sul da farsi, conservai quel bigliettino in uno dei cassetti della mia scrivania, certa che mi sarebbe sicuramente servito nel tempo a venire. Seppur lentamente, la notte scese, e il buio ricoprì la città. Dopo il diverbio avuto con me, e le sue energie consumate dal lavoro, mia madre era decisamente troppo stanca per badare a Grace e metterla a letto, ragion per cui tale mansione ricadde su di me. Inizialmente, ero completamente contraria a farlo, ma data l’ira di mio padre, decisi di accusare il colpo e obbedire. Raggiunsi quindi la stanza di mia sorella Grace, scoprendo forse il più orribile e macabro dei particolari. Il suo letto era vuoto, la finestra aperta e il tappeto macchiato di quello che credetti essere sangue. Allarmata da quella vista, corsi subito nel salotto di casa, trovandovi per pura fortuna entrambi i miei genitori. Notando l’improvviso pallore del mio volto, entrambi chiesero spiegazioni, e seppur con fatica, riuscii a parlare. “Grace… è sparita.” Dissi, dovendo prendere una pausa per tentare di respirare e regolarizzare il mio battito cardiaco, ora decisamente privo di freni. “Dobbiamo trovarla.” Dichiarò mio padre alzandosi in piedi e puntando il suo sguardo verso la porta di casa ora chiusa. Mantenendo il silenzio, io e mia madre ci limitammo ad annuire, raggiungendo la sua auto per partire alla ricerca di Grace. Dopo anni passati a tentare di provare la sua vera natura, finalmente venivo ascoltata. Quel che ora restava da fare, era svelare la miriade di profondi misteri che ognuno dei suoi messaggi riusciva a celare.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVI
Strenua ricerca
Eravamo tutti seduti in auto, e nel buio della notte splendevano la luna e le stelle, sempre pronte a donarci speranza e farci compagnia. Mio padre era occupato a guidare, e teneva lo sguardo fisso in avanti, sperando di avvistare Grace nella nebbia. I minuti passavano lenti, e di lei nessuna traccia. Mia madre, agitatissima, non faceva che chiedere informazioni ai passanti. “Avete visto una bambina?” chiedeva, con gli occhi che le lacrimavano e il corpo scosso da evidenti e incontrollabili tremiti. Ad ogni modo, e nonostante l’impegno che profondevamo, la risposta era sempre la stessa. “No.” Singola parola che in tale situazione non sopportavamo di sentire. In quei minuti, che tardavano a diventare ore, era come se uno statico copione venisse ripetuto. Noi cercavamo Grace, nessuno sapeva dove fosse, e l’unico risultato era il nostro terrore. Stavo letteralmente per addormentarmi in auto, quando improvvisamente vidi qualcuno. Sussultando, pregai mio padre di fermarsi, per poi scendere e avvicinarmi alla persona che credevo di aver visto. “Nicholas? Che ci fai qui?” chiesi, confusa e stranita dalla sua presenza in strada a quell’ora della notte. “Ho sentito delle grida provenire dai dintorni e da casa tua, così sono uscito.” Rispose, sorridendo debolmente e mostrandosi sicuro e privo di paura. “Hai visto Grace?” chiesi, rimanendo con il fiato sospeso. “No, ma forse so dov’è andata.” Continuò, riuscendo a far nascere in me una nuova speranza. Istintivamente, lo abbracciai, invitandolo a salire in macchina con me e i miei genitori. Accettando, acconsentì anche a guidarci verso un luogo che solo lui sembrava conoscere. Seguendo quelle che erano le sue indicazioni, mio padre continuava a guidare senza sosta, e il viaggio appariva infinito. Dopo un tempo che non ebbi modo di definire, mi ritrovai al vecchio parco giochi, un luogo abbandonato e ormai caduto in rovina. Riflettendo, e concedendomi del tempo per pensare, capii quali fossero le intenzioni di Nicholas. Mi stava aiutando, e sapendo che la stessa Grace era solo una bambina, aveva pensato che un luogo di quel genere sarebbe stato ottimo per iniziare le ricerche. Purtroppo, e per nostra sfortuna, niente. Il nulla più totale. Era quasi giorno, e di Grace nemmeno l’ombra. Disperata, mia madre chiamava il suo nome, trasportato dal vento e risuonante nel buio di quella notte. La mattina arrivò cogliendoci di sorpresa, e sconsolati, decidemmo di interrompere le ricerche. Una volta arrivata a casa, chiesi a mia madre di chiamare la polizia. In fin dei conti, noi avevamo fatto il possibile, e di fronte a tale situazione, quella appariva come l’unica delle nostre possibilità. Annuendo mestamente, mia madre prese in mano il telefono, per poi allertare le autorità e fornire un’accurata descrizione della stessa Grace. Improvvisamente, un nuovo barlume di speranza. Incredibilmente, l’avevano trovata. Continuando a parlare con l’ufficiale di polizia, mia madre scoprì che era sotto la sua custodia, e che sarebbe bastato andare a prenderla. Mettendoci subito in viaggio, raggiungemmo la nostra destinazione. Fu solo allora che riuscimmo a vederla. “Fate attenzione.” Ci avvisò uno degli agenti, riferendosi all’ormai ovvia pericolosità della bambina. Fra noi tutti, mia madre fu l’unica abbastanza coraggiosa da avvicinarsi a lei. Tentando di riportarla alla calma, e volendo ad ogni costo evitare altri incidenti, le parlava in maniera calma, sperando di indurla a fidarsi nuovamente di lei. Per pura fortuna, riuscì nel suo intento, e finalmente fummo liberi di riportarla a casa. Imitando il comportamento di mia madre, abbracciai la mia sorellina per la prima volta in tutto quel tempo. Ad essere sincera, avevo sempre evitato di farlo, poiché la temevo troppo, ma dopo quanto le era successo, tutto era cambiato. Le volevo bene, ma ero stata accecata dalla paura.
 
 
 
 
 
Capitolo XVII
Pregiudizi
Mia sorella Grace aveva compiuto sette anni. Era ancora una bambina, e seppur lentamente, stava crescendo. Erano ormai passati due anni dal giorno in cui era scappata di casa lasciandosi dietro del sangue e avermi scritto degli strani messaggi. Fra i tanti, ne spiccava uno. “Attenta ai passi falsi.” Stando a quanto ricordavo, era solo il primo di una lunga serie, ma la cosa non mi toccava. Il mio unico pensiero andava alla soluzione di quella sorta di complicato enigma. Trascorrevo gran parte del mio tempo a interrogarmi sul suo reale significato, ma senza risultati concreti. Inoltre, e come se questo non fosse abbastanza, mia madre ha recentemente fissato un nuovo appuntamento con la dottoressa Everson, uno dei tanti medici che hanno in cura Grace sin dal giorno della sua nascita. Lasciandomi a casa con lei, ha deciso di andarci da sola, e quando è tornata, mi sono sentita tradita. Nella sua borsa giaceva un piccolo flacone contenente delle bianche pillole, che mia sorella avrebbe dovuto assumere per tenere sotto controllo la sua psicopatia, malattia che le era stata giustamente diagnosticata già all’età di quattro anni. Secondo il mio pensiero, che contrastava quello di mia madre, lei non aveva alcun bisogno di quelle medicine. Conoscendo Grace sin dal giorno in cui ha comunicato la sua presenza in un mondo come quello odierno, credevo che sarebbe riuscita a vivere una vita normale nonostante la sua malattia, che avrebbe combattuto con le sue sole forze e senza l’aiuto di alcun medico. Ad ogni modo, mia madre non volle sentire ragioni, e non fece altro che obbligare la povera Grace ad assumere quei farmaci. Lei non li voleva, e nonostante le sue continue proteste, nulla sembrò cambiare. Con il passare del tempo, la mia sorellina appariva sempre più tesa e nervosa, al punto tale da smettere di parlare con nostra madre, e rivolgersi unicamente a me. “Sto bene, le pillole non mi servono.” Diceva ogni volta, piangendo e sperando che riuscissi a comprenderla. “Lo so, ma non posso farci nulla.” Replicavo, dando sempre la stessa risposta. “Mi dispiace.” Le dissi un giorno, poco prima di uscire dalla sua stanza e lasciarla da sola. Erano ormai trascorsi sette anni, ed io ero poco più che una ventenne. La mia relazione con Nicholas non si era mai interrotta, e lui aveva promesso di aiutarmi a risolvere i misteri di Grace. Sorridendo, avevo accettato la sua gentile offerta, e sin da quel giorno, io e lui avevamo iniziato ad indagare. Per quella che entrambi consideravamo sfortuna, i risultati in cui speravamo tardavano ad arrivare, e dopo anni passati a brancolare nel buio, avevamo preso una decisione. Saremmo andati subito in biblioteca, unico luogo dove eravamo sicuri di trovare le informazioni che cercavamo. Sapevo bene di non chiedere molto, solo un pizzico di conoscenza riguardo alla malattia e alla vera natura di mia sorella. Il pomeriggio aveva preso il posto del soleggiato mattino, ed io ero in biblioteca con Nicholas. Avevamo passato ore a leggere senza scoprire nulla che non sapessimo. Con fare sconsolato, mi incamminai verso casa, ma prima che riuscissi a muovere un passo, Nicholas mi afferrò un polso, e costringendomi a voltarmi verso di lui, depose un bacio sulle mie labbra. “Noi due ce la faremo.” Mi disse, infondendomi sicurezza. Una volta arrivata a casa, salutai mia madre, e chiudendomi nella mia stanza, mi fermai a pensare. Non lo credevo possibile. In genere, luoghi come le biblioteche sono letteralmente saturi di informazioni, ma ciò che avevo davanti corrispondeva ad un mucchio di nozioni che avevo precedentemente appreso. Improvvisamente, un’illuminazione. Lo studio di mia madre. Era una psicologa, e quello era l’unico luogo in cui non mi ero mai avventurata alla ricerca di risposte. Con l’arrivo della sera, mi decisi. Attesi quindi che mia madre andasse a dormire, per poi scegliere di intrufolarmi nel suo studio con una torcia elettrica. Muovendomi con disinvoltura, diressi il fascio di luce verso la sua libreria, indagando fino a scoprire la presenza di un pesante e polveroso libro su uno degli scaffali. Afferrandolo, lo portai nella mia stanza, e accendendo la mia lampada, iniziai a leggerlo. Esaminandolo, scoprii che ogni riga descriveva perfettamente bambini come Grace. Diceva inoltre che in tali individui la psicopatia è spesso scambiata per infantilismo, e quindi non diagnosticata fino all’età adulta. Stando a queste parole, Grace poteva dirsi fortunata, poiché la diagnosi è spesso il primo passo verso una cura. La conoscevo forse meglio di me stessa, e avevo finalmente modo di conoscere il significato di quel misterioso bigliettino. Contrariamente a quanto molti pensavano, Grace non era irrecuperabile, e lo scrivermi quei biglietti era l’unico modo di comunicare lucidamente con me. Quelli che mia sorella ascoltava e viveva, non era infatti che i venefici pregiudizi di tutti coloro che non la conoscevano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVIII
Desideri
Un intero giorno aveva nuovamente raggiunto il suo culmine, e guardando fuori dalla finestra, ammiro l’ambrato tramonto. Ero tranquillamente seduta nel salotto di casa, e Nicholas mi teneva compagnia. Dopo un ennesimo pomeriggio passato insieme, lo avevo invitato a cena, e lui aveva accettato. Con l’arrivo della sera, ci sedemmo tutti a tavola, consumando il nostro pasto senza dire una parola. Non appena finì di cenare, Nicholas si alzò in piedi, e schiarendosi la voce, attirò l’attenzione della mia intera famiglia. Posando i loro sguardi su di lui, i miei genitori attesero che riprendesse a parlare. Guardandomi, Nicholas sorrise, e da quel momento in poi, il suo silenzio si ruppe. “Signori Palmer, questa sera ho un annuncio da fare. Io amo vostra figlia, e vorrei chiedere la sua mano.” Disse, per poi tacere al solo scopo di studiare l’espressione dipinta sul mio volto. A quelle parole, seguì la mia immensa felicità, che si concretizzò in un abbraccio che ci unì per alcuni interminabili secondi. I miei genitori non fecero che sorridere, e perfino Grace appariva felice. Alcuni preziosi attimi scomparvero dalla mia vita come nebbia, ed io iniziai a piangere. Asciugando ogni mia lacrima, baciai Nicholas con dolcezza e passione, accettando quella che era la sua proposta di matrimonio. Quella sera, mi addormentai con il cuore gonfio di gioia. Finalmente, dopo anni passati a vivere nel dolore, nella paura e nella negatività, potevo dirmi felice. Avevo finalmente smesso di soffrire, e la vita che avevo immaginato, composta da amore, gioia e amicizia stava lentamente prendendo forma, e il mio benessere si era finalmente ristabilito. Il tempo avrebbe continuato a scorrere, e solo grazie alla positività che avevo maturato negli anni grazie alla mia amica April, potevo ora sperare in un domani luminoso quanto il sole. Con l’aiuto della speranza, avrei realizzato i miei desideri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XIX
Verità confessata
Un mese. Questo il preciso lasso di tempo trascorso dal giorno in cui il mio fidanzato Nicholas ha deciso di invitarmi a fare il grande passo chiedendo la mia mano. Amandolo con tutta me stessa, ho accettato, e sin da allora, mia madre sembra aver messo da parte i problemi e i segreti di Grace. Ora come ora, il tempo scorre, ed io sono impegnata a guardarmi allo specchio. Come ogni mattina, non vedo altro che la ventenne dolce, sensibile e perfetta agli occhi del ragazzo che mi ama. Chiusa nel suo studio, mia madre è impegnata a parlare con la dottoressa Everson. Le mura di casa non sono spesse, ragion per cui riesco a sentire quello che si dicono. Come mi aspettavo, stanno parlando di Grace. Mia madre si esprime in tono calmo, e menziona costantemente le piccole che mia sorella non è abituata a prendere. Essendo solo una bambina di sette anni d’età, è ancora incline all’infantilismo e alla disobbedienza, qualità che le ha spesso causato dei problemi con la scuola. Tale comportamento, unito alla sua psicopatia, la portava ad adirarsi e diventare persino violenta verso se stessa e i suoi compagni. Difatti, non controlla le emozioni, e ricordo che la dottoressa Everson l’ha paragonata ad una piccola bomba ad orologeria, che potrebbe esplodere se non tenuta sotto controllo. Secondo il suo pensiero, le pillole che detesta assumere sono l’unico modo che ha di continuare a vivere una vita normale, ma nonostante un parere professionale quanto il suo, mi rifiuto di crederci. So bene che Grace non sarà mai uguale a me o ai suoi coetanei, ma la cosa non mi tocca. Le voglio bene sin dal giorno in cui è nata, e con il suo arrivo il mio cuore si è letteralmente riempito di gioia e letizia. Inizialmente, vivevo per dimostrare che era una persona orribile e malvagia, ma dopo le confessioni che ha acconsentito a farmi dopo avermi chiesto di ascoltarla, ho definitivamente cambiato idea. Difatti, ora non desidero che vederla crescere fino a diventare un’adulta responsabile e capace di prendere il controllo della sua stessa vita, ora scandita e condizionata dalle decisioni di nostra madre. I giorni che vive sono per lei una vera agonia. In molte occasioni, mi concedo del tempo per studiare le espressioni del suo volto, sovente contratto in smorfie di nervosismo e dolore. Recentemente, ha sviluppato una tendenza a voler restare da sola, chiudendosi nella sua stanza e non facendo altro che piangere. In altre parole, Grace soffre, e conoscendo se stessa, non desidererebbe altro che essere compresa. Attualmente, sembra aver fiducia solo in me, e le frasi che ripete giornalmente non fanno che ferirmi. Parlandomi, si lamenta spesso di come persone a lei estranee non riescano a capire la natura dei suoi comportamenti, e ai suoi occhi, appaio come l’unica persona capace di farlo. Dati i miei trascorsi, le mie notti sono ora caratterizzate da fredde lacrime e insonnia, e dal perenne pensiero di quello che per mia sorella Grace è il vivere. Il mondo è da lei visto come un’angusta trappola, e ogni sua parola a riguardo, una dura e difficile verità che lei ha avuto il coraggio di confessarmi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XX
Tradimento
Altri dieci lunghi anni sono giunti al termine, e la mia stessa vita ha continuato ad evolvere e mutare senza apparente sosta. Difatti, sono ora sposata con l’uomo che amo, e la felicità sembra pervadere il mio animo, ma purtroppo non è così. Avevo tentato di convincere i miei genitori del repentino miglioramento di Grace e del progressivo scomparire della sua malattia, ma a causa di un incidente, non mi avevano creduto. Un incidente. Un errore che lei aveva commesso, e del quale non sembrava neppure essersi accorta. Era tornata a casa da scuola, e mi aveva raccontato tutto. Discuteva con una compagna, e insieme, scendevano le scale che portavano al piano inferiore. Lentamente, la loro discussione era degenerata in una lite, e qualcosa nella sua mente era scattato. In un impeto di rabbia incontrollata, aveva spinto la sua amica, ed era rimasta immobile. Subito dopo, aveva sceso le scale, notando un particolare a dir poco orribile. Quella ragazza era morta per mano sua. Fidandosi di me, Grace mi aveva fatto promettere di non fare parola dell’accaduto con nessuno, ed io avevo giurato su quanto avessi di più caro a questo mondo, ovvero la nostra famiglia. Abbracciandomi, aveva sorriso, ma da quel giorno in poi, le cose avevano finito per cambiare, peggiorando radicalmente. Le voci sull’incidente avvenuto nella scuola di Grace avevano raggiunto l’orecchio di nostra madre, che era stata subito convocata dal preside. Secondo il pensiero di Grace, qualcuno aveva sicuramente fatto la spia, e presto o tardi lei si sarebbe vendicata. Data la sua malattia, lei vedeva la cosa come un orribile tradimento, e non aveva desiderio dissimile dalla vendetta. Dopo aver sentito i suoi discorsi a riguardo, nostra madre aveva preso una drastica decisione, secondo la quale, Grace non aveva fatto che peggiorare, motivo per cui doveva essere rinchiusa. Volendo unicamente proteggerla, ho tentato di oppormi, ma le mie parole sono state pesantemente ignorate. Avrei voluto aiutarla, ma era ormai troppo tardi. Così, nel nefasto giorno della sua partenza, ho dovuto forzatamente limitarmi al vederla salire nell’auto di nostro padre e venir portata via da me. Inutile è dire che la stessa Grace ha tentato di difendersi da tutte le accuse e dal dolore che subiva ingiustamente, ma invano. Quella sera, faticai a dormire. Il mio sonno fu disturbato da oscuri pensieri, e la paura era tornata. Ero nuovamente impotente, e non potevo che immaginare le conseguenze di quel suddetto tradimento.
 
 
 
Capitolo XXI
Rivalsa di sangue
Il sole mattutino si leva anche oggi nel cielo, splendendo e illuminando il mio viso. Sbadigliando, mi alzo dal letto, scoprendo la presenza di Nicholas accanto a me. Dorme ancora, e muovendomi lentamente, decido di non svegliarlo. Raggiungendo la cucina, scelgo di fare colazione, ma mentre sono occupata a versare del latte in una tazza, il notiziario in televisione mi distrae. Posando il mio sguardo sullo schermo televisivo, mi metto in ascolto, venendo a conoscenza della peggior notizia che abbia mai sentito. Il servizio parlava di una giovane ragazza fuggita da un Istituto psichiatrico, e ora ricercata a causa della sua instabilità mentale. Alcuni secondi passarono, e un’immagine si palesò davanti ai miei occhi increduli. Quella che vedevo, non era altro che una foto di mia sorella Grace. Diciassette anni, occhi azzurri, e una vita difficile. Tutta colpa di una malattia che ha lentamente cancellato il suo intelletto, rendendola violenta e capace di gesti disumani. Rinunciando a bere quel latte, corsi subito in camera da letto per svegliare Nicholas. Era mattina presto, e non avrei mai voluto farlo, ma ora tutto era diverso. Lui doveva saperlo. Avvicinandomi, lo scossi leggermente, riuscendo a svegliarlo e iniziando a parlargli. “Grace era al telegiornale.” Gli dissi, non appena fu abbastanza sveglio da ascoltarmi. “Cosa?” chiese, fissando il suo sguardo colmo di incredulità su di me. “È scappata dall’Istituto, e dobbiamo ritrovarla.” Continuai, con la voce corrotta dalle mie stesse emozioni e dal nodo che mi stringeva la gola. “Heaven, noi non possiamo fare niente.” Rispose, tacendo al solo scopo di avvicinarsi a me. “La polizia la starà cercando, se ne occuperanno loro.” Aggiunse, parlando in maniera calma e guardandomi negli occhi. “Loro non la conoscono, potrebbe esserci di peggio!” gridai, finendo preda di una preoccupazione mai provata prima. “Andrà tutto bene.” Disse Nicholas, cingendomi un braccio attorno alle spalle e tentando di confortarmi. “È quello che spero.” Risposi mestamente, chinando il capo e abbandonandomi ad un cupo sospiro. Alcuni istanti dopo, Nicholas sorrise. Istintivamente, scossi la testa al fine di eliminare dalla mia mente ogni pensiero negativo, e lasciando che mi stringesse la mano, scelsi di fidarmi. Con l’arrivo del pomeriggio, decisi di chiamare subito mia madre. Nei pochi momenti in cui il mio pensiero non si concentrava su Grace, lei era l’unica persona alla quale sapevo di potermi rivolgere, e non appena rispose alla chiamata, la misi al corrente di tutto. “È fuggita.” Dissi, sperando che capisse a cosa volessi alludere in quel momento. “Resta dove sei, se non ti trova non ti farà del male.” Mi consigliò lei, mostrandosi evidentemente preoccupata per me. A quelle parole, raggelai istintivamente. Sapevo bene che Grace poteva risultare violenta a causa della sua stessa malattia, ma mi rifiutavo di credere che potesse agire volontariamente. “Che significa?” chiesi, andando alla disperata ricerca di informazioni. “Crede che qualcuno l’abbia tradita, e da allora cerca vendetta.” Chiarì, lasciandomi letteralmente senza parole. Per quella che poteva unicamente essere definita sfortuna, la sua spiegazione servì solo a far nascere nuovi dubbi nella mia ora confusa mente. Il tempo scorreva, e la mia preoccupazione aumentava. Nicholas tentava in ogni modo di riportarmi alla calma, ma invano. Ad ogni modo, e dopo aver fallito nel misero intento di calmarmi, presi un’importante e rischiosa decisione. Sarei uscita a cercare Grace. Lei si fidava di me, ed ero l’unica a sapere come aiutarla. Difatti, stando a quanto avevo letto in uno dei libri appartenuti a mia madre, persone come lei tendevano a usare la violenza come unica difesa contro l’ignoto e le loro stesse paure, e la dialettica erano l’unico strumento utilizzabile per riportarli alla ragione. Iniziando a camminare, guadagnai in fretta la porta di casa, uscendone al solo scopo di iniziare la mia ricerca. Camminavo per le strade della mia città chiamando il suo nome, ma non ricevetti alcuna risposta. Le notizie che la riguardavano avevano fatto il giro della città stessa, e ora il nome di mia sorella era sulla bocca di tutti. Le persone mi guardavano con aria insofferente, ignorando la realtà che vivevo. Ad ogni modo, la sera arrivò senza farsi attendere, e tornando a casa, mi arresi all’evidenza. Avrei dovuto farmi da parte, e lasciare che la giustizia e le autorità locali agissero al mio posto. lentamente, i giorni passavano, e dopo esattamente un mese, il notiziario riportava episodi di cronaca nera. Secondo gli stessi, tre donne ormai anziane avevano perso la vita, e in ognuno di quei casi Grace era indicata come l’unica colpevole. Con il passare del tempo, finii per scivolare in una spirale di sconforto. Era difficile da credere, eppure mi ero illusa. Avevo creduto fino alla fine nella sua innocenza, e l’amore che mi legava a lei mi aveva portato a difenderla con tutte le mie forze, ma secondo il parere della gente, mia sorella non era altro che una criminale, e ognuno di quei tragici episodi faceva parte di quella che tutti chiamavano rivalsa di sangue.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXII
Ultima ad arrendersi
Un anno era passato, e il dolore faceva di nuovo parte della mia vita. Fuori c’era il sole, ma attorno a me solo il buio. Avevo ormai smesso di uscire di casa, ignorando le parole di mio marito Nicholas e del resto dei miei amici, che detestando lo stato in cui versavo, tentavano di riportare un sorriso sul mio volto. Nella maggioranza dei casi, fallivano miseramente, ma nonostante tutto perseveravano. Ora come ora, sono seduta sul divano di casa, e non muovo un muscolo. Il silenzio è rotto dal rumore della televisione accesa, che improvvisamente si spegne. Alzando lo sguardo, noto la presenza di Nicholas. “Stai meglio?” chiese, ponendo una domanda che alle mie orecchie giunse come retorica. Mantenendo il silenzio, non risposi, limitandomi a dargli le spalle. La mia vita appariva ormai conclusa, e nel profondo non desideravo altro che un cambiamento. Passavo le mie notti insonni a pregare, sperando che la cattiveria umana si trasformasse in comprensione. Ancora una volta, stavo per arrendermi a quella che era la dura realtà, ma non volendo abbandonare le mie convinzioni e le mie idee, resistevo. Mi sentivo letteralmente svuotata di ogni energia, e d’improvviso, le parole che non avrei mai voluto sentire, giunsero alle mie orecchie. Avevo riacceso la televisione, e secondo l’ennesimo e ormai monotono telegiornale, mia sorella Grace era finita in prigione. A quella notizia, iniziai istintivamente a piangere. coprendomi il volto con le mani, le vidi bagnarsi di lacrime. Acqua che cadeva lentamente dai miei occhi, e che sembrava agire da panacea contro la rabbia che sapevo di provare. Mi ero mostrata forte per troppo tempo, e finalmente avevo ceduto. Ben presto, il mio pianto si trasformò in un tristissimo soliloquio, nel quale mi rimproverai e maledissi per non aver agito quando potevo. Ora era tardi. Stando a quanto avevo sentito, non sarebbe passato molto tempo prima che Grace venisse condannata alla pena di morte. Con gli occhi ancora velati dalle lacrime, mi decisi. Avrei messo da parte il dolore e raccolto le mie forze, presenziando al fianco di mia sorella nel giorno della sentenza. Lo stesso, arrivò prima che avessi modo di accorgermene, e dopo un mese di attesa, raggiunsi la prigione locale. Per pura fortuna, arrivai in tempo. Grace era lì, chiusa nella sua cella, ferma ed immobile. Era stata costretta ad indossare una camicia di forza, macchiata di quello che identificai come il suo stesso sangue. Prima di venire completamente immobilizzata, si era infatti provocata alcune ferite sulle braccia e sui polsi, e la sola vista mi faceva star male. In quel preciso istante, il tempo sembrò fermarsi, e poco prima di ricevere l’ardua sentenza, Grace pianse silenziosamente, ed io ebbi modo di vedere una piccola lacrima abbandonare i suoi occhi. Fissando il mio sguardo su di lei, mantenevo il silenzio, ma improvvisamente qualcosa in me scattò come una molla, e alzandomi in piedi, decisi di agire. “Fermatevi! Non ha nessuna colpa!” gridai, sperando che qualcuno riuscisse a sentirmi e mi lasciasse provare a difendere mia sorella. Sorprendentemente, un agente di polizia si avvicinò a me, e aprendo la cella di Grace, mi diede modo di parlarle per l’ultima volta. Muovendo qualche incerto passo in avanti, mi avvicinai a lei, e sentendo un nodo di pianto stringermi la gola, le rivelai la verità che da ormai troppo tempo covavo nel cuore. Istintivamente le posai una mano sulla spalla, per poi scegliere di iniziare il mio discorso. “Grace, tu puoi anche essere un mostro e un’assassina, ma resterai per sempre mia sorella. Sappi solo una cosa, ti ho sempre voluto bene. Addio.” Quelle furono le ultime parole che le rivolsi, e una volta arrivata a casa, scoprii che lei era ormai morta. Passarono mesi prima che riuscissi a riprendermi dal dolore legato alla sua perdita, e sin dal giorno della sua morte, visito ogni anno quella che è la sua tomba, avendo ogni volta cura di ripetere le ultime parole che ho avuto il coraggio di proferire “Ti voglio bene, Gracie. Con il tempo, maturai poi la più importante decisione della mia vita. Anche se a malincuore, avrei abbandonato il sogno di diventare un’attrice per dedicarmi a qualcosa di completamente differente. Seguendo infatti le orme di mia madre sarei a mia volta diventata psicologa, così da poter aiutare tutte le persone simili a mia sorella Grace. Proprio come le avevo promesso, sarei stata l’ultima ad arrendersi.


Salve ad ognuno di voi, miei cari lettori. Questa era la storia di Heaven, divisa fra paura, dramma e mistero. Spero vivamente che vi sia piaciuta, e salutandovi, attendo le vostre recensioni.

Emmastory :)
   
 
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