“... e mentre fissava l’orizzonte, si rese conto che quei
momenti, quei meravigliosi istanti di beatitudine, sarebbero stati splendidi
comunque, anche se soltanto nei suoi ricordi. Si può essere felici anche solo
nel rammentare la magica poesia del passato? Si a quanto pareva! Lui, infatti,
non era affatto triste. Ma come poteva esserlo, se nei suoi pensieri c’era la
creatura più bella che avesse mai conosciuto? Ma la rimpiangeva. Mentre
l’ammirava avidamente nei suoi ricordi, lui la desiderava. Bramava il suo
profumo, il suo tocco, il suo sorriso. Era stata ben più di ciò che pensava di
meritare. Era tornato da eroe, ma senza di lei, pensò amaramente. E non se lo
sarebbe mai perdonato.”
Ormai
conoscevo a memoria quelle parole. L’avevo concluso. Era giunto alla fine. Il
lavoro di tanto tempo, che avevo letto e riletto, corretto mille volte, scritto
con passione, con il desiderio incontrollato di entrare dentro la storia, di
farne parte. E mentre la mia penna tracciava quei segni sul foglio, che sarebbero
diventate parole, magari anche belle, originali, io guardavo con ansia il
giorno in cui avrei scritto la fine. L’ultima parola. Ma ora, che il mio lungo lavoro era giunto al
termine, non godevo della soddisfazione che avevo tanto atteso. Superate le
prime tumultuose manifestazioni di gioia, ero passata ad una fase di strana
tristezza. Mi sentivo vuota, questa era la verità. Avevo impiegato così tanto
tempo a scrivere il mio racconto, che adesso, poiché era finito, sentivo di
aver perso una parte di me. Invano cercavo di convincermi che essa sarebbe
sempre stata rinchiusa tra quelle pagine. Avevo una strana sensazione, che mi
toglieva il respiro. Desideravo che la storia continuasse. Avevo pensato di
produrne il seguito, ma non mi sembrava giusto. Era un racconto che era giunto
da un ispirazione improvvisa e non volevo che fosse intaccato in alcun modo.
Non riuscivo, però, a smettere di sentirmi così, né mi capacitavo di provare un
tale senso di vuoto.
Rimasi
a fissare l’orizzonte, per ironia come il protagonista della mia storia, piena
d’insolvibili interrogativi.
***
2 anni dopo
L’eco
delle mie risate mi ronzava ancora in testa. Ricordavo quel giorno come se
fosse stato solo il precedente. Lui mi abbracciava dolcemente, mi passava la mano attorno alla vita, mi
sorrideva e diceva che non si sarebbe mai stancato di me. Mi sussurrava
all’orecchio che mi avrebbe amata per sempre, che non mi avrebbe lasciato mai.
Il problema era che quello non era il mio ieri. Era un ricordo, un insulso,
falso ricordo, che mi tormentava. Fin da allora sapevo che non avrei dovuto credere alle sue promesse,
perché, in fondo, era solo un ragazzo di 19 anni che diceva di voler donarmi il
suo cuore. Ma gli avevo dato fiducia. Grosso errore. Enorme. Due settimane
dopo, l’avevo trovato insieme ad un’altra. Era stata una situazione così
sconvolgente per me, così penosa, che per alcuni istanti avevo creduto che non
potesse essere vero. Avevo creduto che fosse solo un incubo. Ma la verità era
che la nostra storia era stata solo un sogno. Solo quello. E la cosa ancor più
ironica che potesse succedere, era il fatto che mi era venuto a supplicare in
ginocchio di perdonarlo. Ed ancor più ridicolo era che io mi sentivo anche indecisa se accettare
le sue scuse! Sciocca, sciocca, sciocca, mi ripeteva incessantemente quella
parte del mio cervello chiamata ragione. Ma sapevo che avrei ceduto. Mi
conoscevo troppo bene, per non rendermi conto che l’amavo. Perdutamente,
incondizionatamente, ardentemente. Ecco. Quella era le verità. Ero probabilmente
vittima del più subdolo dei tranelli, della più terribile delle sofferenze. Di
quel che viene definito ‘amore unilaterale’. E, quasi ridevo all’idea: sebbene
una parte di me sapesse benissimo che stavo sbagliando, che era un errore, che
mi sarei nuovamente illusa, io speravo. Non c’era altra spiegazione. Io
l’amavo.
La
luce mi abbagliò improvvisamente. Era una calda mattina di luglio, in cui il
sole ardeva rovente nel cielo azzurro, senza l’ombra di una nuvola a
minacciarlo. I raggi della bionda stella colpivano i rami scuri e i fiori rosa
e bianchi, degli alberi al limitare della strada, l’asfalto, grigio e cupo ed
il mio corpo, che si trascinava, passo dopo passo, su di esso. Non mi piaceva
molto il caldo. Amavo l’aria fresca, il grigiore delle nuvole d’inverno ed il
colore arancio delle foglie degli alberi, che si abbandonavano sul terreno,
creando un disegno che aveva un suo incantesimo. Gioivo alla sensazione delle
gocce d’acqua, della pioggia che mi cadeva sul volto e sui capelli, mi piaceva
la nebbia, che rendeva tutto opaco e offuscato. Quasi nessuno, però,
condivideva le mie considerazioni. I miei amici si godevano l’estate, che
consideravano il periodo più bello dell’anno, anche se per me era la stagione
meno gradevole. Sospirai. Sopportavo di malavoglia la calura soffocante, che
riusciva a distrarmi persino da quei pensieri che mi ossessionavano. Decisi di
tornare a casa, stanca. Affrettai il passo.
Arrivai
in pochissimo tempo. Non mi ero allontanata troppo, dopotutto. Sospirai. Non mi
allettava l’idea che i miei mi bombardassero di domande, anche se sapevo che
erano solo preoccupati per me. Ero stata molto giù, dopo aver scoperto che…
Be’, insomma capivo la loro ansia. Ma erano estremamente fastidiosi, a volte,
soprattutto quando usavano espedienti degni di un terzo grado. Mi accinsi, di
malavoglia, ad entrare, se non altro per sfuggire al caldo soffocante. Salii piano le scale, riflettendo tra me e
me, sui possibili modi di evitare la catasta di domande che mi attendeva.
Giunta davanti alla mia porta, però, non ero ancora riuscita a trovare una
soluzione ragionevole. Infilai la chiave nella serratura, respirai a fondo, e
la girai.
A
casa c’erano ospiti. Sarebbe stato un avvenimento che sicuramente non avrebbe
mai destato un mia particolare attenzione, se non per il fatto che grazie a
loro i miei avrebbero rimandato l’interrogatorio, ma c’era un piccolo
dettaglio, non facilmente trascurabile. Le persone in questione erano così
sorprendentemente simili a divinità, che mi lasciarono a bocca aperta, non in
grado di proferire neanche una parola per attimi interminabili. Entrambi, erano
un uomo ed una donna, superavano il mio misero metro e sessantacinque
d’altezza, di almeno una quindicina di centimetri, avevano capelli scurissimi,
un corpo perfetto ed un viso che senz’ombra di dubbio superava di gran lunga le
soglie della normalità, in quanto splendore. Lei aveva gli occhi azzurri, molto
chiari, lui li aveva scuri, di un colore che non riuscivo a definire. Insomma,
le star di Hollywood, al confronto, sfiguravano.
“Questi
sono i signori Elliot, Emily.”, li presentò mia madre, interrompendo le
riflessioni che mi turbinavano in testa.
Se
non con un certo imbarazzo, risposi al loro saluto, sperando di suonare serena.
I
miei genitori mi avevano accennato che sarebbero venuti dei loro amici, ma
insomma, mi aspettavo comuni mortali!
“Sei
cresciuta moltissimo, dall’ultima volta che ci siamo visti.”, esclamò,
sorridendo, l’uomo, squadrandomi con i suoi occhi scuri.
Per
un attimo rimasi perplessa. Ci eravamo già conosciuti? Mi ripresi subito, per
fortuna e risposi: “ Il tempo passa in fretta.”
Sua
moglie sorrise, impercettibilmente divertita.
“Quant’è
vero.”, dichiarò, ridente. “Frequenti il Liceo, immagino.” Sembrava come se non
fosse una vera domanda, ma un’affermazione.
Annui,
imbarazzata dallo sguardo di entrambi, che era fisso su di me.
“Il
classico.”, precisai, respirando a fondo, “Quest’anno sarà l’ultimo.”
Lei
sorrise, impeccabile. “Progetti per il futuro?”, chiese, sembrando genuinamente
curiosa.
Ancora
una volta ebbi l’impressione che non me lo stesse domandando davvero, che
conoscesse già la risposta, ma m’illuminai ugualmente.
“Farò
l’università di medicina”, annunciai decisa.
Suo
marito, sorridendo, mi informò che anche lui faceva la stessa professione.
“In
che ramo?”, gli domandai, miracolosamente con un tono di voce che pareva
adeguatamente tranquillo.
“Pediatria.”,
rispose, divertito per qualcosa che non riuscivo a comprendere. “E tu?”
Attendendo
una risposta, mi fissò intensamente. Quando i miei occhi incontrarono i suoi,
così decisi e belli, meravigliosamente ardenti di sincerità, arrossi,
sentendomi smarrita.
“Credo...
che farò ginecologia.”, risposi, cercando di rilassarmi, peraltro invano.
“Ottima
scelta.”, approvò la signora Elliot, guardandomi allegra.
Io
sorrisi, poi, quando i miei genitori si decisero finalmente a riprendere parte
alla conversazione, li salutai educatamente e mi diressi in camera, sollevata.
Chiusi
piano la porta e mi abbandonai sul letto, riflettendo. Era stato un incontro a
dir poco sorprendente. Ma, aldilà dell’aspetto fisico, a colpirmi in modo
particolare, era stato il loro affiatamento. Sembrava, infatti, che ogni
sguardo che i due si scambiavano, fosse come una parola o una frase detta. Si
comprendevano così, almeno mi era parso, solo per un’occhiata. Era un
caratteristica singolare e molto bella. Una volta anch’io avevo sognato un tipo
di rapporto simile,ma mi rendevo conto di aver lavorato molto di fantasia.
Quando avevo conosciuto Robert, mi ero innamorata di lui quasi subito. La mia
migliore amica, nonché grande cospiratrice, aveva fatto in modo che ci
conoscessimo. Lui mi aveva chiesto di stare con lui poco tempo dopo. Era
l’unica storia che avevo avuto, almeno fin a quel momento. Ma tra noi le cose
non erano state rosee come nei miei sogni, neanche vagamente. Naturalmente ero
stata molto felice con lui, ma forse mi aspettavo qualcosa di più. Lo avevo
comunque messo in conto, come uno dei sicuri svantaggi del passare
l’adolescenza immersa in sogni e fantasie. Anzi, fino a quel giorno avevo
creduto impossibile che ci fosse una sinergia del genere tra due persone. Be’,
a quanto pare sbagliavo. Sospirai. Robert mi mancava moltissimo. Mi mancava la
sua allegria, il suo modo spensierato di vedere le cose, i suoi scherzi, le sue
risate. Mi mancava il suo profumo, i suoi abbracci, le sue mani sul mio corpo,
possenti, calde, rassicuranti, mi mancavano terribilmente i suoi baci,le sue
carezze. Desideravo il suo viso vicino al mio, i suoi occhi nei miei. Ecco. Era
quella speranza insostenibile che mi avrebbe fatto, ne ero sicura, ignorare la
mia ragione e perdonarlo. Mi chiesi se, quando un giorno l’avrei trovato con
qualcun’altra, perché ne ero sicura, avrei saputo accettare il sentimento come
giustificazione sufficiente per la mia scelta. Forse, poiché ormai la mia
fiducia nei suoi confronti era in viaggio, a godersi la neve in montagna,
magari, avrei dovuto rifiutare di continuare la nostra storia. Ma l’idea di
perderlo mi uccideva. Ero terribilmente confusa.
Il
trillo del telefono mi feci sobbalzare.
Presi
il portatile dal comodino e, dopo aver guardato il numero, sorrisi e risposi.
“Ciao,
Emily!”, esclamò una voce allegra, dall’altra parte della cornetta.
“Ciao,
Lizzy.”, salutai, sorridendo.
“Che
stavi facendo?”, mi chiese la mia amica, con un tono curioso e vivace.
Mi
distesi sul letto, tenendo il telefono accostato all’orecchio, e le dissi:
“Niente. Solita roba. E tu?”
“Mi
preparo ad uscire.”, annunciò, tutta contenta, “Ti chiamavo appunto per
invitarti stasera, con il gruppo. Andiamo in discoteca!”
Io
sospirai. La mia vita sociale era molto precaria da quando io e Robert
c’eravamo lasciati. Era da tantissimo che non uscivo, ma d’altronde non ne
avevo voglia.
“Senti,
non vorrai mica stare a casa tutta la sera e deprimerti?”, domandò,
contrariata, interpretando bene il mio silenzio.
“Be’,
diciamo che avevo dei mezzi progetti…”
“Non
ci pensare nemmeno!”, proruppe, facendomi sobbalzare, Elizabeth. “Stasera esci
con noi. Fine della storia.”
“Ho
possibilità di scelta?”, chiesi, alzando gli occhi al cielo. Era una domanda
retorica, ovviamente.
“Assolutamente
no.”
Sospirai,
ma poi sorrisi.
“D’accordo.”,
dichiarai, arrendendomi.
“Bene!”,
esclamò, soddisfatta. “Senti, non è che potresti darmi una mano?”
“A
fare cosa?”, le domandai, sorpresa.
“Stasera
mi metto il completo nero o la mini viola e la maglia bianca?”, mi domandò, con tono incerto.
Io
scoppiai a ridere.
“Direi
il completo nero.”, le consigliai, dopo essermi ripresa.
“Perfetto!”,
disse esultante. “Ci vediamo al solito posto alle 20:30?”
“Ok”,
assentii.
“A
più tardi, Emily.”
“Ciao”,
risposi, allegra.
Chiusa la conversazione, rimasi ancora un istante a fissare il soffitto, poi mi diressi in salotto, per avvisare i miei. Ero, o almeno così credevo, sufficientemente pronta per l’interrogatorio.
Ma salve, miei numerosi (eheh... naturalmente era una fantasticheria) lettori! Mi sono decisa a pubblicare il primo capitolo di questa storia, che ho iniziato a scrivere da un po' e che avevo voglia di sottoporre ai pareri di altre persone. Con questa storia mi piacerebbe esprimere la mia perenne convinzione che i sogni non siano solo mere illusioni, ma che abbiano il potere di cambiare la vita! In ogni caso, questo capitolo è solo d'introduzione alla protagonista, con qualche accenno alla trama dell'intera storia. Fatemi sapere cosa ne pensate, anche pareri negativi... mi aiuteranno a migliorare! Grazie in anticipo,
Shine