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Autore: Lost In Donbass    10/01/2016    3 recensioni
Tom non ne vuole sapere di studiare, vuole vivere la vita sulla pelle, vuole suonare agli angoli delle strade, vuole rivoluzionare qualcosa che è solo nella sua testa. Ma forse è ancora troppo giovane.
Bill è semplicemente un genio, si sente un dio, vuole che lo osannino, passa tutto il suo tempo a studiare cose che non gli interessano per sentirsi uguale agli altri. Ma nasconde qualcosa di troppo doloroso per poter essere tenuto nascosto troppo a lungo.
Ed entrambi sono troppo e sono troppo poco, sono padroni e schiavi di loro stessi, e soprattutto sono nemici giurati da anni. E se quest'anno qualcosa cambiasse? In un saliscendi di amore, odio, passione, lacrime, incomprensioni, e segreti inconfessabili, riusciranno i due ragazzi a trovare l'accordo di pace tra loro stessi?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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CAPITOLO UNO: DOGS UNLEASHED
Don’t wanna run on your command,
Don’t wanna keep on coming back
Don’t wanna swallow all your lies, wanna feel alive
Don’t wanna hold on to your truth
Don’t wanna keep on loving you
Don’t wanna look through jaded eyes, wanna feel alive
 
Tom non stava aspettando quella moto, assolutamente no. Tom non stava appoggiato al lato nord del muretto per poter occhieggiare il parcheggio della scuola, perché mai avrebbe dovuto farlo? Tom non stava guardando nervosamente l’orologio della chiesa di Santa Winifred e non stava contando ansiosamente i secondi che lo separavano dall’apertura del portone scolastico. No, niente di tutto ciò. Tom era semplicemente  smanioso di vedere spuntare all’orizzonte quella Suzuki nera, che sollevava un gran polverone dietro di sé e che veniva sempre parcheggiata con un’abile frenata un po’strafottente. E poi, soprattutto, era smanioso di vedere il duo che sarebbe sbarcato da quella Suzuki.
Sospirò rumorosamente, spegnendo la sigaretta nel pugno. Quel gesto che lo aveva consacrato a eterno sex symbol della scuola, lasciando tutte le ragazze, dalle più carine alle più brutte, dalle tredicenni alle diciottenni, dalle oche alle menefreghiste, con un lungo filo di bavetta che colava miseramente lungo il mento ogni volta che incappavano nella celestiale visione di Tom Kaulitz che spegneva il mozzicone di una sigaretta nel pungo chiuso, il berretto da skater calato sul viso, la coda di dreadlocks ciondolante sulla schiena e l’aria con un che di dannato e superiore, con quegli occhi rivolti sempre verso il cielo e quella smorfia annoiata del labbro. Perché Tom piaceva; che fossero ragazze infoiate che cercavano solo la scopata migliore della loro vita, che fossero ragazzine alla ricerca del loro principe azzurro, che fossero dark e femministe convinte che volevano qualcuno che riuscisse a tener loro testa, che fossero ragazzini alla ricerca di un mito, che fossero ragazzi che volevano un capo a cui affidarsi, che fossero nerd alla folle stregua di un nuovo supereroe, Tom andava sempre bene. Perché era bello, e a letto ci sapeva fare. Perché era galante quando voleva. Perché teneva testa a chiunque. Perché era un mito. Perché aveva le doti del leader. Perché era un nuovo, buffo, supereroe. In fondo, senza Tom, le vite di quella gente si sarebbero ridotte a una triste sequela di avvenimenti senza colore. E lui sapeva che in fondo in fondo, chiunque avrebbe pagato anche con un occhio pur di avercelo anche solo come amico o come compagno di una notte.
Alzò lo sguardo alla strada che triste si perdeva dentro Magdeburgo, avvolta nella sottile nebbiolina che avvolgeva qualunque cosa la mattina presto, che si diradava giusto nel cortile della Scuola Superiore Friederich Schiller. La nebbia veniva sostituita da una cortina impenetrabile di fumo, urla scioccate, gemiti addolorati, risate sguaiate, segreti spifferati e chiacchiere di corridoio. Quella mattina il rasta non aveva la minima voglia di unirsi al familiare trambusto di quei pochi minuti che precedevano l’inizio delle lezioni, e nemmeno di andare dai suoi amici a fare battute stupide o a scopiazzare all’ultimo momento i compiti di Georg. E chi se ne importa se doveva essere interrogato di storia, non aveva la minima voglia di mettersi a studiare o a copiare gli schemi di qualcosa che lui non poteva vedere, conoscere, ascoltare. Non gli piaceva storia: era una materia morta da troppo tempo; una moda passata e mai più tornata. E allora perché dover ricordare qualcosa che tanto era stato e non si sarebbe potuto cambiare? Perché rompersi la testa imparando date che non gli sarebbero mai servite e nomi di gente che tanto era morta e sepolta e non sarebbe mai tornata a reclamare quel che era stato suo?
L’ormai familiare rumore della Suzuki gli fece alzare immediatamente lo sguardo, un mezzo sorriso di sfida stampato sulle labbra. Erano arrivati, finalmente. Al limite, ma ce l’avevano fatta. Si appoggiò con finta nonchalance al muretto di pietra fredda e irregolare, guardando di sottecchi la ragazza bassa e snella che assicurava la ruota della moto con un lucchetto e il ragazzo alto e secco guardarsi in uno specchietto che teneva stretto tra le mani lunghe e curate. Li vide avvicinarsi a passo di carica, tenendosi a braccetto come una vecchia e consolidata coppia, lei che sgambettava per tenere il passo il suo passo e si scostava i ciuffi shatushati che sfuggivano dal berretto bianco col pon pon, lui che gesticolava in aria, i grandi anelli che brillavano nel buio mattutino insieme ai bracciali borchiati che gli adornavano i polsi sottili.
Non si mosse dalla sua posizione, nonostante lo squillo insistente della campanella e l’interrogazione di storia tra meno di cinque minuti. Si mise semplicemente lo zaino su una spalla, cominciando ad avvicinarsi con mascherata indifferenza alla bizzarra coppia che aveva rallentato il passo in prossimità dell’imponente portone. Non sapeva nemmeno lui bene che fare, a quel momento. Se attaccare con qualche battutaccia delle sue, se ignorarli, se fare qualche commento poco educato su di loro, se semplicemente seguirli da dietro e bearsi della visione del suo fondoschiena perfetto fasciato nei jeans troppo aderenti e farci qualche pensierino poco casto. E c’era voluto veramente tanto tempo per far capire a Georg che a lui del posteriore di Ria non poteva importarne un fico; no, lui puntava a ben altro. Per esempio all’affascinante, malizioso, intelligentissimo, folkloristico, divino, possessore del posteriore in questione. Più comunemente conosciuto come Bill Kaulitz. O anche come Quella Checca Troia Di Kaulitz, oppure come Bill Saint-Laurent. Insomma, in poche parole, il suo acerrimo nemico da quando erano entrati in quella scuola e si erano trovati a frequentare quasi gli stessi corsi. Due modi di vivere e di credere completamente opposti; due personalità esattamente opposte. Ed entrambe troppo forti e indipendenti per non entrare subito in contrasto e dichiararsi una guerra senza soldati e senza armi che durava da otto lunghi anni.
Pensò bene di entrare nel piccolo boudoir privato di Bill e Ria con una delle sue grandiose improvvisate, giusto per infastidirli un po’. Che poi, contro di lei non aveva assolutamente niente. Anzi, a suo tempo, una cosa come cinque anni prima, ci aveva anche quasi provato (sì, solo a metà. In fondo a lui non è che piacesse, ma che doveva ancora far accettare alla sua ristretta cerchia di amici il fatto della sua omosessualità piuttosto radicata. E poi, in fondo, tutti ci avevano provato con lei, quindi sarebbe parso strano il fatto che addirittura il divino Tom non l’avesse degnata manco di un’occhiata. Sì, lui guardava qualcos’altro. Decisamente qualcos’altro.). Per l’appunto, aveva cominciato a fingere di andarle un po’ dietro, e si era presto ritrovato con quella tappa che sbottava, dopo averlo chiuso a chiave nello sgabuzzino delle scope
-Senti tu, Tom Kaulitz dei miei stivali, piantala di importunarmi! Sono lesbica, va bene? Le-sbi-ca. E da quello che ho potuto notare nemmeno te sei la quintessenza dell’eterosessualità. Quindi, smettila di fingere di farmi il filo, che mi sto rompendo. Oh, e che ciò non esca da questa stanza, ok? Anche io come te devo ancora fare coming out, quindi, acqua in bocca.
Da quel momento lui aveva allegramente smesso di fare quella ridicola sceneggiata, ed erano pure diventati amici. Ma anche quello veniva taciuto dai due. Ormai lei era di Bill, non poteva passare dalla parte di Tom.
-Allora, mie belle signore, come va?
Rise, il suo riso metallico e vagamente falso, infilandosi a forza tra Bill e Ria. Gli serviva tanta carica adrenalinica per affrontare la terribile interrogazione di storia. E nessuno gli dava adrenalina come quel bastardo di Kaulitz 2.
-Se era una battuta non fa ridere, fottuto stangone.- grugnì Ria, lanciandogli un’occhiata infuocata da sotto il berrettino con le orecchie di pelo. Ma Tom poté  vedere il sorriso affettuoso che gli rivolgeva dietro le occhiatacce volute dalle circostanze.
-Ciao, Tom. Sempre un pasticcino alla vaniglia.- la voce deliziosamente acuta, melodiosa e buffamente altezzosa di Bill si ripercosse nel corridoio. Tom ricordava come fosse ieri la prima volta che il suo acerrimo nemico lo aveva etichettato “pasticcino alla vaniglia”. Dovevano avere circa dodici anni, e lui, con il suo vistoso ciuffo nero e i suoi occhi da panda si era avvicinato ancheggiando al suo tavolo durante l’ora di pranzo, sedendosi sull’angolo e aveva detto, rubandogli una patatina dal piatto “Sembri un adorabile pasticcino alla vaniglia, sai tesoro?”. E da quel momento lì lo aveva sempre chiamato così, e inutili erano stati i lunghi scervella menti di Tom su cosa avrebbe potuto portare Bill a pensare che lui assomigliasse a un pasticcino alla vaniglia. Alla vaniglia, poi. Oltretutto era stato da quel momento che erano diventati avversari giurati. Non sapeva bene perché, ma già dal mattino dopo, avevano cominciato a odiarsi profondamente, a prendere due diverse linee di vita, e nel contempo a divenire i due ragazzi più seguiti, adorati e osannati di tutta la scuola. Si erano formate due grandi correnti di pensiero, come fossero ritornati in una Parigi rivoluzionaria, quella capitanata da Tom e quella capitanata da Bill. Potevi, se eri uno studente normale e di basso profilo, affidarti a una delle due correnti, oppure, nel caso in cui ti fossi trovato a diventare amico un po’ più intimo di uno o dell’altro, fare parte ciecamente della corrente. E non saresti dovuto essere contemporaneamente amico di Bill e di Tom. Ma queste ormai erano solo storie e leggende: solo appunto i due eccentrici fondatori vi credevano ancora ciecamente.
-Abbiamo l’interrogazione di storia, ora.- Tom guardò speranzoso Bill. Ok, erano nemici giurati. Ok, si odiavano. Ma in fondo in fondo un po’ di bene se lo volevano pure loro due.
-Certamente. E no, Kaulitz, non pensare che io mi offra per salvarti il culo. Avresti dovuto studiare.- Bill scosse la testa, passandosi una mano perfettamente curata tra la folta chioma corvina accuratamente sparata in tutte le direzioni. Lui sapeva di essere intelligente. Anzi, lui sapeva di essere il più intelligente. E poi era un alunno così modello, con i suoi interventi fatti sempre al momento giusto, la sua calligrafia ordinata, le sue verifiche mostruosamente impeccabili, la sua conoscenza talmente vasta da fare impressione, il suo essere sempre preparato a qualsiasi interrogazione o compito a sorpresa, la sua media perennemente massima da otto anni, che non era mai scesa sotto a una B, insomma, tutto l’insieme di questi elementi brillanti e rari facevano chiudere un occhio ai suoi professori sul suo aspetto e sul suo comportamento leggermente … da troia.
-Però, per esempio- intervenne Ria – Potresti farti interrogare al mio posto di matematica. Dai, lo sai che non ci capisco niente.
-Scusa, tesorino, ma ti ho dato ripetizioni giusto tre giorni fa. E poi non sono così preparato. Se mi chiedesse le isometrie, che direi?
-Le iso che?- interruppe Tom, grattandosi i dread. Lui, al contrario di Bill, era fottutamente impedito a scuola. Non ci aveva mai capito un emerito tubo, non si impegnava, non lo trovava importante. Non si era mai fatto problemi ad ammetterlo, che lui di sapere le cose non gliene importava nulla. Gli andava bene la sua semi ignoranza, gli stralci di cose che imparava per conto suo. La sua filosofia era quella che imparava per strada, quella che sentiva sulla pelle, quella che lo feriva e che lo rallegrava. Quella che poteva capire senza che nessuno lo mettesse alla prova, qualcosa che potesse sperimentare e che non lo obbligasse a dover affidarsi alle decisioni di qualcuno morto troppi secoli prima.
-Niente, pasticcino alla vaniglia. La tua ignoranza come al solito non mi sorprende.
-Potrei dire lo stesso della tua simpatia.
Ria li guardò scuotendo la testa, togliendosi il berretto con le orecchie e fermandosi davanti al laboratorio di chimica, vedendo che la gobba professoressa di chimica arrivava di gran carriera, stringendo il pacco delle verifiche sotto il braccio. Già si immaginava il suo bel F stampato in rosso sul foglio e le successive lavate di capo di Bill e di sua madre. Beh, a sua discolpa aveva dovuto passare tutto il pomeriggio ad aiutare proprio Bill a farsi la messa in piega. E con la quantità di capelli che si ritrovava l’amico, beh, c’era voluto il suo tempo.
-Ehm, io vado.- grugnì, alzandosi sulle punte degli stivaletti di camoscio finto e stampando un sonoro bacio sulla guancia di Bill – Ci vediamo a matematica, tesoro.
-Sì, bambolina, e cerca di recuperare le F che sicuramente avrai preso.
Bill ricambiò il bacio, evitando con grazia il pugno che cercava di beccarlo.
Tom osservò silenziosamente la ragazza fargli l’occhiolino e scomparire nel laboratorio, seguita a ruota dalla gobba della prof. Si avviò insieme a Bill verso l’aula di storia, mentre gli alunni che saettavano per i corridoi, diretti nelle varie classi li lasciavano umilmente passare, aprendosi come il Mar Rosso di fronte ai nuovi Mosè. I più piccoli li guardavano con sguardo adorante e allo stesso tempo spaventato, quelli un po’ più grandini con un misto di amore/odio, quelli della loro età con invidia e ammirazione. Era sempre stato così: creavano intorno alle loro persone un’aura così forte da sorprendere, quasi percepibile a distanza, come se avessero un cartello appeso al collo che dicesse “Qui divinità: non avvicinarsi”.
-Fammi indovinare- ridacchiò Tom, seguendo con un sorriso il profilo perfetto di Bill, gli orecchini che ornavano le orecchie nascoste dai capelli, le ciglia chilometriche appesantite da quintali di mascara che ombreggiavano un enorme paio di occhi che difficilmente passavano inosservati. – Quante volte te la sei portata a letto?
-Chi, scusa?- Bill sfarfallò gli occhi, assumendo una smorfia schifata.
-Ria, no? Dai, a me puoi dirlo: quante?
Tom trattenne a stento le risate quando Bill gli mollò un sonoro schiaffone sulla guancia, graffiandolo quasi con le sue unghie accuratamente ricoperte di smalto.
-Maiale. Villano, e anche maiale. Cosa vorresti insinuare?
-Niente, anche perché in effetti non sembri proprio il tipo che fotte, ma semmai che si fa fottere. Era solo una mera supposizione per capire da dove venga la sua adorazione per la tua odiosa persona.
-Oh, è così? Non oso immaginare allora quante volte tu lo abbia fatto con Georg.
-E lui adesso che c’entra?!- Tom si girò, spalancando gli occhi. Già, accidenti. Si era dimenticato che l’arma speciale di Bill erano appunto le parole. Taglienti, melense, cattive, approfittatrici, addolorate: qualunque fosse il tipo richiesto, lui l’avrebbe fatto. Era così bravo a trasformare le cose che gli dicevi e a rivoltartele contro, a distruggerti sotto la pioggia delle sua parlantina sciolta e rapida. Qualunque cosa avessi potuto dire, in qualche modo contorto ti avrebbe fregato, rigirandoti addosso la frittata con innata abilità. Bill si divertiva a usare le parole come arma letale contro chiunque avesse la malaugurata idea di mettersi contro di lui, o di voler entrare nel suo mondo. Lo trovava un dono speciale, quello della parola, soprattutto in persone come lui che lo potevano sfruttare a loro piacimento.
-Beh, a rigor di logica, pasticcino, se io mi portassi a letto Ria, che per inciso è una delle miei migliori amiche, per renderla così adorabilmente pazza di me, allora tu dovresti fare lo stesso con Georg, che è il tuo di migliore amico, siccome vedo che ti rispetta come se fossi un asceta indiano.- rispose Bill, beandosi in silenzio dell’espressione leggermente addormentata di Tom. Questo lo divertiva oltremodo; Tom non aveva mai la faccia da stupido, qualunque cosa accadesse. Rimaneva sempre con quell’espressione sveglia ma lanciata ad anni luce di distanza, come se fosse lì col corpo ma fosse troppo avanti per potersi normalmente fondere con la popolazione umana media della Schiller. E questo, anche se avrebbe preferito farsi rasare e struccare piuttosto che ammetterlo, incantava Bill da impazzire. Gli era sempre piaciuta la faccia di Tom; in realtà gli era sempre piaciuto tutto il rasta, dalla punta dei dread alla punta della scarpe sformate. Non sapeva bene se la sua fosse ammirazione, o semplice attrazione, ma certamente non poteva non ammettere a se stesso che quel ragazzo lo intrigava esageratamente. E poi, insomma, in tutte le storie che si rispettino, Bill non vedeva sempre il buono e il cattivo come una OTP letteralmente perfetta? Ed erano così cliché lui e Tom che quasi facevano ridere. Insomma, non erano esattamente due tipi che si incontrano tutti i giorni al supermercato, ecco. Eppure, se li avessero mai messi insieme sarebbero risultati così assolutamente stereotipati … e ovviamente, Bill odiava gli stereotipi. Di qualsiasi tipo, anche se comprendevano direttamente lui stesso. Poi, cosa non proprio da dimenticare, Tom era assolutamente figo. E Bill non aveva ancora avuto l’occasione d’oro di poter consumare qualcosa di più che qualche insulto ben piazzato e qualche occhiata non propriamente di odio con il suddetto figo.
Dal canto suo, Tom era certo del fatto che Bill fosse assolutamente, profondamente, indubbiamente, gay. E questo, anche se faticava ad ammetterlo, gli dava una piacevole scarica di quasi felicità nel fondo del cuore. Non sapeva bene perché, visto che dai, era il ragazzo che gli stava più sulle palle dell’intera scuola, nonostante provasse una sorta di ammirazione per lui. Beh, d’altronde, in tutti i libri che si rispettino i nemici seri sono sempre ammirati dall’altro, no? Insomma, era normale essere psicologicamente attratti da Bill. Ok, ogni tanto la sua coscienza gli ricordava “sei attratto solo psicologicamente da lui, come tutti? No, perché forse qualcuno là sotto avrebbe qualcosa da dire”. Oh, al diavolo. Erano solo gli ormoni a mille di un diciottenne, cavolo. Niente di preoccupante, più o meno. Comunque, era indubbiamente vero che tutta la popolazione maschile della Schiller, professori inclusi, vivevano col costante dubbio che Bill Kaulitz, sì, proprio lui, la checca, si fosse portato a letto più ragazze che tutti loro messi assieme. Tom non ci credeva veramente, solo che effettivamente, vedendo che era perennemente accompagnato da una streppa di ragazze, ovviamente tra le più belle di tutto l’istituto, che lo guardavano adoranti e facevano esattamente qualunque cosa Bill chiedesse, il dubbio poteva venire.
La porta dell’aula di storia era aperta, e si poteva intravedere l’arcigna professoressa di storia inerpicata sulla poltroncina girevole che faceva l’appello, lanciando occhiate fulminanti da sopra le sporche lenti all’interpellato.
-I due Kaulitz ci sono?
L’altro fatto piuttosto fastidioso era che per qualche oscuro motivo avevano lo stesso cognome. Tom aveva chiesto a sua madre fino allo sfinimento se per caso avessero un lontano parente chiamato Bill, ed era stato molto sollevato scoprendo che non ne avevano nessuno. Essere stato parente del suo nemico giurato sarebbe stato veramente il colpo di grazia.
-Sì, signora Hoffman, ci siamo.- cinguettò Bill, entrando ancheggiando in classe, seguito a ruota da un imbronciato Tom. La signora Hoffman aveva proprio la faccia “da SS”, come la chiamavano quando interrogava. Non te ne lasciava passare liscia una, riusciva a tirare fuori domande assolutamente astruse la cui risposta era praticamente inesistente (inutile dire che Bill sapeva rispondere brillantemente anche a quelle, e questo faceva impazzire il rasta. Era troppo intelligente per i suoi gusti. O, come gli ricordava la coscienza, “non è forse che hai paura che essendo così brillante e tu così popolare, non verrai mai degnato di un suo sguardo?”. Coscienza bastarda e bugiarda), dava voti bassissimi e non accettava un modo di pensare diverso dal suo (cosa che tutti avevano. Dai, era una che ragionava ancora come se ci fosse il nazismo al potere).
Bill si guardò intorno, alla ricerca del suo storico compagno di banco. Stranamente, quando non era attorniato dalle sue Bill’s Angels, aveva come compare e luogotenente un certo Gustav. Il mistero di come potessero quei due ragazzi andare d’accordo era uno dei grandi interrogativi della Schiller, su cui nessuno voleva indagare troppo. Il grasso ragazzo biondo sopportava pazientemente qualunque cosa facesse, dicesse, architettasse Bill, facendogli occasionalmente da guardia del corpo (quando May e June, le terribili gemelle coreane esperte di almeno quattro arti marziali assassine, non erano nei paraggi a fare da tigri da compagnia al loro adorabile “Bill-senpai”). Tom aveva come luogotenente Georg, l’amico di una vita, e la sua fida squadriglia di amici come plotone d’assalto. E la cosa fondamentalmente diversa tra i due Kaulitz era quella: la banda più stretta che Tom comandava, lasciando stare la corrente di pensiero generica a cui erano sottoposti tutti, assomigliava un po’ a una di quelle ganghe americane degli anni 50 che si trovavano nello losche zone del Queens e del Bronx. Un capo, un tenente, i soldati, insomma un’organizzazione vagamente militarizzata in cui tutti erano legati da un profondo legame di rispetto e amicizia. La banda di Bill era l’esatto contrario. C’era lui, il capo indiscusso, il sovrano, e poi tutte le sue ragazze, le sue geishe, come una sorta di società giapponese medioevale. E poi c’era Gustav, che era lì per caso.
Bill finalmente trovò la zazzera bionda e si stava già per avviare a passo di carica, quando si rese conto che vicino c’era anche una lunga zazzera castana. E sotto la zazzera castana c’era una faccia conosciuta.
-Aspetta, che cazzo ci fa Georg, il mio luogotenente, vicino a Gustav, che è il tuo di luogotenente?- sibilò Tom all’orecchio di Bill.
-E’ quello che mi sto chiedendo anche io, dannazione.
Bill spalancò gli enormi occhi, sentendosi in un qualche modo punto a fondo nell’orgoglio. Lo aveva appena abbandonato. Gustav, l’unico ragazzo maschio di cui si fidasse un minimo, lo aveva lasciato in banco da solo. L’unica spalla maschile su cui fare un minimo di affidamento lo aveva crudelmente lasciato al suo destino. Eppure lo avrà saputo, accidenti a lui, di quanto gli potesse dar fastidio …
-Beh, Kaulitz non vi siete ancora seduti? C’è quel banco libero. Rapidi, che ho da interrogare.
La voce stridula della signora Hoffman li fece sobbalzare quasi di scatto e seguirono con orrore il dito nodoso della donna che indicava l’ultimo banco a sinistra, che sembrava volerli accogliere con un brutto sogghigno. Tom boccheggiò e Bill impallidì. Non erano mai stati seduti vicini nemmeno per mezzo secondo a mensa, come poteva pensare di farli stare accanto per tutta l’ora di storia? Sembrava quasi un’eresia alle loro orecchie. I due nemici giurati, era come vedere seduti allo stesso tavolo Iago e Otello: anche no, grazie! Si guardarono leggermente in cagnesco, ma si avviarono nell’ultimo banco. Non sembrava il momento buono per mettersi a discutere con quella strega, soprattutto in tempo di interrogazioni.
La prima cosa che Tom fece una volta sedutosi fu quella di spostare la sedia sull’angolo più lontano del banco e di tenere il proprio astuccio e i propri libri ben lontani dalle zampette dell’altro. Bill fece uguale, ma in più tracciò una riga in mezzo al banco, sibilando
-Questo è il confine, pasticcino. Non si oltrepassa.
-Non lo farei comunque, checca isterica.- grugnì di rimando Tom, sciogliendosi la coda di dread e osservando sotto la foresta di liane i movimenti delicati e sensuali del suo odiato vicino di banco. “Dillo che te lo faresti con piacere” sussurrò la coscienza, con una punta di cattiveria, “No che non me lo farei!” rispose il ragazzo “E’ Bill, accidenti. Può essere bello quanto vuoi, ma è infetto!”. Odiava la sua coscienza, soprattutto quando aveva ragione. Però dai, non era colpa sua se Bill sculettava col quel suo fantastico posteriore praticamente ogni volta che si incrociavano per i corridoi e se aveva un modo di sorridere che avrebbe fatto impazzire anche il più etero degli eteri. E poi Tom aveva sempre gli ormoni a mille, cosa voleva quella ficcanaso della coscienza? Bill era come un altro. Sarebbe andato bene per una scopata da una botta e via, se fosse stato ubriaco marcio da dare retta solo all’amico là sotto e non al suo cervello.
-Comunque, ragazzi, stavo pensando una cosa.- la professoressa li squadrò uno a uno con i suoi occhietti porcini – Ora dovremmo affrontare nel dettaglio la Prima Guerra Mondiale, un argomento importante e fondamentale per la cultura di voi piccoli mostriciattoli ignoranti. Quindi perché non preparare un progetto a coppie per la prossima settimana? Potrebbe essere un modo per invogliarvi a studiare.
Un coro di assenso si levò dalla classe. Certamente, pur di evitarsi le spiegazioni da tartaruga della Hoffman, avrebbero anche studiato tutti i pomeriggi. Non sembrava un brutto compromesso, alle loro orecchie.
-Vi vedo d’accordo- bofonchiò la donna – Quindi potrei mettervi già a coppie adesso e darvi il compito per mercoledì prossimo. Lo voglio completo, serio, ben fatto, con fotografie e roba scritta da voi e non stupidi copia e incolla da Wikipedia, chiaro? Bene, allora potete farla col vostro compagno di banco. Quindi Bach con Herden, Ende con Spiegelmann, Kaulitz con Kaulitz, eccetera.
-Cosa?!- Tom si rese conto di aver sbottato a voce troppo alta, visto che gli occhietti della prof si fissarono su di lui.
-Come, cosa? Su, razza di scansafatiche e lavativo, non mi sembra di averti mandato in Siberia nel gulag! Ah, ma se ci fossero ancora i nostri lager per poter mettere dentro a sgobbare gli sfaccendati e i perdigiorno come voi sarebbe tutto migliore.- la Hoffman si fregò maleficamente le mani artritiche – Su, Kaulitz, non fare quella faccia e ringrazia di essere nato adesso e non settant’anni fa.
-Ma professoressa.- Bill si fece vedere, il viso distorto in una smorfia schifata e quasi verde dalla nausea – Io e lui dobbiamo proprio farla insieme la ricerca?
-Potrebbe essere la buona volta che si metta a lavorare, no? Potresti dargli una bella svegliata, Bill.- l’affetto quasi schifoso che quella donna provava per Bill era mostruosamente palese a partire dal fatto che era l’unico alunno di cui si ricordasse il nome di battesimo. E correvano un sacco di battutacce e storie di corridoio che dicevano della cotta della Hoffman per Bill. Tom non si era mai sentito di negare quelle leggende metropolitane.
-Ma prof, noi … - tentò di nuovo Tom, guardando sconvolto il viso ricoperto di cerone e appesantito da quintali di ciprie del suo vicino, la bocca piena di rossetto nero che tremava e gli occhi fiammeggianti ingigantiti da chili di matite e mascara del suo sconvolto vicino di banco. E accidenti se a lui stava bene quella maschera da geisha, si trovò a pensare, anche se non avrebbe voluto.
-Kaulitz, se hai così tanta voglia di far sentire la tua petulante vocetta da bambino ignorante e viziato, vieni qui. Interrogato, ragazzo, porta il quaderno con gli schemi quando vieni.
Tom sospirò. Ok, lo sapeva che tanto lo avrebbe interrogato su qualcosa che lui non aveva nemmeno lontanamente letto, però si sentì comunque lo stomaco in fondo ai piedi. Non gli piaceva collezionare brutti voti, ma di studiare proprio non glielo diceva il cuore. Preferiva suonare agli angoli delle strade piuttosto che perdere tempo su stupidi libri mal scritti e schemi da elementari. Preferiva sentirsi vivo nella sua ignoranza, che morto nel sapere. E comunque, mentre si alzava e andava alla cattedra a mani vuote, si ritrovò a pensare che anche se l’assenza di quaderno e schemi gli avrebbero portato l’ennesima F che avrebbe potuto benissimo evitare copiandoli da Georg quella mattina, non erano importanti. Lo spettacolo di Bill che si levava il casco integrale nero e scuoteva quella matassa di capelli neri come la notte con le sue ciocche bianche  la mattina era qualcosa di troppo celestiale per poter essere soppiantato da storia.

****
Salve belle fanciulle, sono tornata (buuuu, ritirati, nasconditi ...) con una nuova twincest, nata dalla mia mania per le commedie cretine americane più dischi di quei quattro babbuinotti *-* Come inizio non fa semplicemente schifo, di più, ma vi prego datemi una possibilità in più *manine giunte*. Sarà una storia drammatica, a volte (anche perchè io di solito tendo all'ironia, quindi non oso immaginare il mio drammatico ironico come venga fuori), romanticosa (e che clicé, mio dio, ch cliché) e si spera appassionante (no, Bill, te sei qui con me quindi le tue frignate da fangirl non valgono). E' tardi e domani ho greco quindi devo chiudere qui e sperare in un commento. Vi prego, ci voglio mettere me stessa e la mia pazzia qui dentro, fatemi un cenno di apprezzamento anche minimo (ma vanno bene anche critiche, basta che non siano insulti che sennò mi deprmo ancora di più). 
Un bacio,

Charlie.
  
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