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Autore: ShioriKitsune    11/01/2016    4 recensioni
[College/Soulmate!AU ; TaeKook - side NamJin, JiHope]
"Ma, il giorno del suo sedicesimo compleanno, Jeongguk ricevette due delusioni.
La prima: il nome che, una sillaba alla volta, gli aveva marchiato il polso era quello di un ragazzo. E a questo poteva anche sopravvivere.
La seconda, e peggiore, era che accanto al nome non vi era nessun conto alla rovescia."

(Mi metto alla prova con una storia totalmente diversa dai miei soliti schemi, molto cliché e con tanto fluff. Enjoy!)
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il giorno del suo sedicesimo compleanno, Jeongguk lo passò fissando l'interno del proprio polso sinistro, senza distogliere lo sguardo nemmeno per un attimo. Troppa la paura di perdere il momento esatto in cui, sulla sua pelle, sarebbe apparso il nome della persona che avrebbe amato per il resto della vita.

 

Il giorno del suo sedicesimo compleanno, Jeongguk saltò la scuola. Salutò i suoi e uscì di casa troppo in fretta per non destare sospetti, dirigendosi verso il parco in cui amava passare gran parte del suo tempo per sedersi all'ombra del vecchio salice sul quale da bambino era solito arrampicarsi. Diceva che da lì poteva avere una visione ottimale dell'ambiente circostante. Inoltre – e, al pensiero, un sorriso gli sfuggiva sempre – il suo migliore amico, Park Jimin, era troppo basso per riuscire ad arrampicarsi su quell'albero: era facile vincere a nascondino contro di lui, in quel modo.

Appoggiò la schiena contro il tronco e lasciò che la sua mente si divertisse un po' nell'immaginare come la sua anima gemella sarebbe stata: magari una dolce ragazza dai lunghi capelli color del miele? O con degli occhi così belli da togliergli il fiato? E, soprattutto, quanto tempo sarebbe passato prima di poterla incontrare? Accanto al nome, sarebbe dovuto apparire anche un timer. Jeongguk sperava davvero di non dover aspettare troppo. In fondo, non era mai stato un tipo molto paziente.

Strofinava con delicatezza le dita su quel lembo di pelle ancora immacolato, e alzando gli occhi al cielo si accorse che stava calando la sera. A breve sarebbe dovuto rientrare a casa, e sua mamma lo avrebbe guardato con gli occhi speranzosi di chi non vede l'ora di ascoltare una bella notizia. Forse, quel lato romantico di sé lo aveva ereditato proprio da lei.

 

Ma, il giorno del suo sedicesimo compleanno, Jeongguk ricevette due delusioni.

La prima: il nome che, una sillaba alla volta, gli aveva marchiato il polso era quello di un ragazzo. E a questo poteva anche sopravvivere.

La seconda, e peggiore, era che accanto al nome non vi era nessun conto alla rovescia.

 

 

 

김태형

00.00.00.00.00

 

Kim Taehyung

Zero anni, zero mesi, zero giorni, zero ore, zero minuti

 

 

 
















 




°*° Lost Stars °*°

 

Atto I

 

 

Le prime settimane passarono con la speranza che, ad un certo punto, il timer partisse. Forse c'era stato solo un piccolo ritardo (chissà, magari neanche il destino è così puntuale e preciso) e le cose si sarebbero aggiustate da sole. Ma le settimane si trasformarono in un mese, un mese in due, due in tre e tutti iniziarono a pensare che il timer di Jeongguk non sarebbe mai più partito.

Questo non fece altro che fargli guadagnare sguardi carichi di tristezza da parte di sua madre (che inizialmente sosteneva che doveva esserci una spiegazione, ma che aveva finito per sospirare ogni volta che il polso sinistro di Jeongguk appariva dall'orlo di una delle sue maglie a maniche lunghe) e da tutte le persone che, direttamente o non, erano venute a conoscenza della sua storia.

Qualcuno aveva anche formulato un'ipotesi in proposito: probabilmente, l'anima gemella di Jeongguk era morta in un incidente ed era per questo che il timer non partiva. Non avrebbe potuto, perché Jeongguk non avrebbe mai potuto incontrare qualcuno che non era più in vita.

Altri si chiesero perché, visto che questo ragazzo era morto prima che Jeongguk compisse sedici anni, l'universo (o qualunque fosse la forza che governasse questa cosa delle anime gemelle) non gli avesse donato un'altra persona con cui avere la possibilità di essere felice, ma la risposta è che c'è solo un'altra metà di noi stessi al mondo: se quella viene spazzata via, l'unica alternativa è rimanere incompleti.

Jeongguk aveva fatto le sue ricerche sull'argomento: non era l'unico al mondo il cui timer non era mai partito o, peggio, a cui un bel giorno si era bloccato senza più andare avanti.

I casi erano rari, è vero, eppure ognuno di loro era documentato: l'anima gemella di un tizio in America aveva attraversato la strada in un momento sbagliato e non c'era stato modo di salvarla; quella di una donna in Italia si era infortunata sul lavoro e quel tizio francese era rimasto fulminato da un cavo scoperto. Ogni metà rimasta in vita, anche se nella sua malaugurata sorte, aveva delle risposte.

Ma non Jeongguk.

Questo Kim Taehyung sembrava essere sparito nel nulla, e nessuno sapeva dirgli se fosse vivo o morto.

Aveva cercato il suo nome in ogni comune di ogni città della Corea del Sud, fino a quando non aveva trovato una corrispondenza nella città di Daegu: un Kim Taehyung nato il 30 dicembre del 1995, ma le informazioni terminavano lì: nessuna foto, nessun certificato di morte o di incidenti.

Kim Taehyung sembrava semplicemente sparito nel nulla.

Non aveva senso struggersi per qualcosa che non avrebbe mai avuto, si disse. Perché aveva cercato quel ragazzo in ogni dove, aveva sperato e pregato, ma la situazione non era cambiata.

Così, un mese dopo il suo diciottesimo compleanno, Jeongguk mise definitivamente una pietra sopra la faccenda, facendo promettere a familiari e amici di non tirare mai più fuori l'argomento.

E tutti, anche se con un groppo in gola, concordarono sul rispettare la sua scelta.

 

°°°

 

«Jeongguk-ah, Terra chiama Kookie! Ehi, mi stai ascoltando?».

Una mano gli venne sventolata davanti agli occhi ed in quel momento si rese conto di essersi distratto di nuovo.

Sbatté le palpebre e mise a fuoco la figura imbronciata davanti a lui. «Scusa, Jimin, non stavo ascoltando».

Questi sospirò, crollando sulla sedia. «Me ne sono accorto». Un attimo di pausa, in cui il maggiore sembrò voler dire qualcosa prima di tornare sui suoi passi, mordendosi l'interno della guancia. «Ti stavo chiedendo se ti andrebbe di venire con me e Hobi-hyung a guardare un film, oggi pomeriggio».

Jeongguk storse il naso.

A scanso di equivoci: amava la compagnia dei suoi hyung, ma fare il terzo incomodo non era tra i suoi passatempi preferiti. Sapeva che i suoi amici cercavano di non farlo sentire escluso da nulla (certe volte anche mettendolo in mezzo a situazioni davvero... inopportune), ma a volte voleva solo staccare la spina, stare per i fatti suoi invece che dover osservare coppie fare... cose da coppie.

Certo, era felice che tutti i suoi amici – o quasi – avessero trovato la loro anima gemella. Questo però non voleva dire che guardarli scambiarsi sguardi adoranti o carezze rubate non lo facesse sentire a disagio: in fondo, era come avere un gigantesco post-it attaccato sulla fronte a ricordargli costantemente ciò che lui non poteva avere.

«Uhm, ho già un impegno oggi pomeriggio, mi dispiace».

Jeongguk forzò un sorriso, per fare in modo che Jimin non si sentisse in colpa (non che lui avesse alcuna colpa in quella situazione, ma quel ragazzo tendeva a prendersi carico di ogni cosa) e tornò alla ricerca che stava scrivendo.

Il maggiore non fece altre domande e ripresero a studiare in silenzio.

Jimin aveva circa due anni più di Jeongguk e si conoscevano praticamente da sempre: nessuno dei due poteva ricordare un momento senza l'altro, anche se Jimin si divertiva a stuzzicare Jeongguk sostenendo che i due anni prima che quest'ultimo nascesse fossero stati i migliori della sua vita e Jeongguk, di tutta risposta, si rifiutava di chiamarlo hyung, dicendo che era troppo stupido per essere davvero il maggiore tra i due.

Lui aveva incontrato la sua anima gemella, Hoseok, il primo anno di liceo: la loro era una storia un po' particolare, perché si conoscevano (e, segretamente, amavano) già prima che sui rispettivi polsi apparisse in modo indelebile il nome dell'altro. Dopodiché era bastato un solo sguardo per far esplodere tutti i sentimenti tenuti malamente a bada fino a quel momento.

Jeongguk aveva osservato la scena in tempo reale (non perché li avesse stalkerati o cosa, ma perché frequentavano tutti la stessa scuola, anche se in anni diversi, e quei due davvero non avevano idea di cosa significasse la parola intimità) e il suo primo pensiero fu “che schifo”, accompagnato da un'espressione che era tutta un programma.

A distanza di sette anni da quel momento, il ricordo delle lingue dei suoi migliori amici che s'intrecciavano pubblicamente gli faceva ancora venire i brividi. Era fermamente convinto che quello sarebbe rimasto il trauma più profondo dei suoi quattordici anni.

Nonostante ciò, voleva davvero bene a quei due.

Soprattutto dopo il suo sedicesimo compleanno, gli erano sempre stati accanto senza mai farglielo pesare, prendendosi silenziosamente cura di lui e rinunciando al loro tempo da soli per aiutare Jeongguk con le sue ricerche o semplicemente fornirgli un orecchio e un sorriso quando ne aveva bisogno.

Ma Jeongguk sapeva che, Jimin in particolare, era molto preoccupato per lui. Specialmente da quando aveva deciso di chiudere l'argomento Taehyung in un cassetto recondito della sua memoria.

I suoi tentativi di spingere Jeongguk a parlare erano stati tutti terribili e, alla fine, sembrava essersi arreso. Anche se, come in quel momento, spesso i suoi sguardi sembravano voler dire più di quanto le sue parole concretamente facessero.

La mattinata trascorse in silenzio e, intorno alle quattro, Jimin annunciò che stava uscendo.

Jeongguk lo salutò con un sorriso e qualche provocazione prima di rimettersi a studiare, accorgendosi solo dopo un'abbondante mezz'ora che aveva solo letto e riletto la stessa frase.

Sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Il college non era una passeggiata come aveva inizialmente creduto (la sua media scolastica era sempre stata piuttosto alta, quindi aveva – ingenuamente – creduto che al college le cose sarebbero andate nello stesso modo: massimi risultati ma minimi sforzi. Ovviamente, si era sbagliato di grosso) ma condividere la stanza con il suo migliore amico rendeva tutto più semplice. Anche affrontare una specializzazione in economia di cui non gli importava assolutamente nulla solo per accontentare sua madre.

Aveva preso quella decisione (nonostante i consigli di Jimin alla “Ti prego, tutto ma non quello”) dopo essersi reso conto che sua madre sembrava quasi più distrutta di lui per tutta la situazione dell'anima gemella (aveva preso piuttosto bene anche il fatto che fosse un ragazzo: la sola cosa che le stava a cuore era la felicità di suo figlio). Non che fosse colpa di qualcuno, ma era come se volesse fare ammenda per il dolore che le aveva arrecato, concedendole almeno una soddisfazione in ambito accademico.

Quando guardò nuovamente l'orologio notò che erano passate le diciotto (non era sicuro di quanto tempo avesse speso studiando e di quanto vagando con la mente) e che era arrivata l'ora di chiudere i libri e procacciarsi del cibo.

Afferrò qualche soldo e le chiavi, s'infilò le scarpe e chiuse la cerniera della felpa fino al collo, perché era ormai ottobre inoltrato e l'aria iniziava a farsi pungente sulla pelle.

Uscì di casa rendendosi conto di non aver veramente voglia di cucinare qualcosa, e che quindi avrebbe potuto optare per del cibo da asporto, magari da mangiare in quel parco un po' distante dal centro urbano di Seoul ma che gli ricordava terribilmente quello di casa sua, a Busan.

Avrebbe dovuto prendere un autobus e camminare per qualche chilometro, ma quel giorno si sentiva un po' troppo malinconico per bocciare l'idea così su due piedi.

Infatti, un'ora più tardi, stava camminando verso l'ingresso del suddetto parco con una busta del McDonald's tra le mani (di certo molto poco salutare ma decisamente il cibo più veloce che gli fosse venuto in mente).

Quello era di certo più grande rispetto al parco in cui era solito passare i suoi pomeriggi da bambino, ma aveva comunque qualcosa che lo rendeva familiare, che gli rendeva facile associarlo istintivamente a ricordi e sensazioni positive.

Si sedette tra l'erba bagnata dalla rugiada, gambe incrociate e sguardo rivolto verso lo stagno dentro il quale, sapeva, avrebbe potuto vedere le oche e forse perfino qualche tartaruga.

Ma la sua attenzione fu catturata quasi immediatamente da uno sprazzo di arancione del tutto fuori posto, facendogli aggrottare la fronte.

Nell'acqua infatti, sembrava esserci qualcuno che stava tranquillamente nuotando, come se lo stagno non fosse profondo soltanto poco più di cinquanta centimetri e non avesse un colorito del tutto poco invitante.

«Ehi, che diavolo- Ehi, tu? Che ci fai lì dentro?»

Jeongguk si alzò, avvicinandosi alla riva e fissando, con aria sempre più sconvolta, la persona che adesso faceva il morto sulla superficie stagnante del laghetto. «A meno che tu non voglia sviluppare qualche tipo di potere radioattivo, ti conviene venire fuori!».

L'ultima affermazione sembrò catturare l'interesse di quello che si rivelò essere un ragazzo che, a prima vista, sembrava anche più giovane di Jeongguk: sgranò gli occhi, tornando in posizione eretta (e oh mio Dio, ma era nudo?!) e fissando Jeongguk con occhi carichi di aspettativa.

«Dici che potrebbe succedere?»

Non fu solo la sua voce (profonda e calda, in netto contrasto con il viso pulito e infantile – ma non per questo poco attraente – che lo sconosciuto possedeva. In quel momento, i suoi grandi occhi scuri – che, anche a quella distanza, gli ricordavano due luminosi fari - erano puntati in quelli di Jeongguk. Sembrava un cerbiatto – il suo colore di capelli non aiutava, perché erano arancioni e ispidi e gli ricordarono la pelliccia di Bambi) a fargli aggrottare la fronte, ma il tono che usò per pronunciare quella frase: non sembrava avesse colto il sarcasmo.

Jeongguk si guardò intorno, non sapendo che fare. Se qualche guardia del parco avesse beccato quel ragazzo a fare il bagno nudo nello stagno, blaterando cose su poteri radioattivi, probabilmente lo avrebbero portato direttamente in prigione.

O in manicomio.

«Ne dubito fortemente. Ehm, penso sia il caso che tu esc-».

«Peccato», lo interruppe questi, portandosi le mani sui fianchi. Per qualche ragione, Jeongguk non riusciva a guardare l'altro – nudo, in mezzo allo stagno, con l'acqua che gli arrivava a malapena sopra le ginocchia – senza arrossire, così iniziò a cercare qualsiasi altro punto da fissare che non fosse il corpo del ragazzo, che adesso gli stava rivolgendo un sorriso rettangolare che lo faceva sembrare ancora più giovane di quanto già paresse.

Ci fu un momento di silenzio tra i due, in cui Jeongguk si schiarì la voce e contemplò seriamente l'idea di allontanarsi e far finta di non aver visto nulla. Ma qualcosa – quel sorriso, il calore che trasmetteva il suo sguardo o forse il semplice fatto che, almeno un po', quel ragazzo dall'aria stralunata gli faceva pena – lo spinse a restare. Sospirando (e maledicendosi, perché se avessero beccato anche lui in quella situazione compromettente – fare il bagno nello stagno non era esattamente permesso – sarebbe stato nei guai) si sfilò la felpa ed entrò nell'acqua, avvicinandosi allo sconosciuto e posandogliela sulle spalle. Per fortuna aveva l'abitudine di indossare felpe parecchio più larghe della sua taglia: riuscì così a coprire il ragazzo fino alle cosce, chiudendo la zip e facendo attenzione a non toccare nessun lembo di pelle scoperta.

«Ti prenderai un malanno», si giustificò, rendendosi conto che adesso anche lui necessitava di abiti asciutti.

L'altro si strinse nelle spalle, guardandolo di sottecchi senza smettere di sorridergli. «Cedi i tuoi vestiti ad ogni estraneo che fa il bagno nel lago?»

«Uhm, beh, non è qualcosa che mi capita ogni giorno», rispose Jeongguk con un velo di sarcasmo. Per un momento pensò di averlo offeso, ma questi non cambiò espressione. Evidentemente vedeva nella situazione una comicità che a Jeongguk sfuggiva.

Riuscì, alla fine, a farlo uscire dall'acqua e farlo sedere sulla riva accanto a lui. «Che diavolo stavi facendo là dentro?»

L'altro ridacchiò. «Nuotavo. Non è ovvio?».

Lo era davvero? Jeongguk sollevò un sopracciglio. A questo tizio manca qualche rotella.

«Dove sono i tuoi vestiti?».

La chioma arancione si spostò a destra e sinistra, guardandosi intorno, prima di indicare un punto dall'altra parte dello stagno. Perfetto.

Jeongguk sospirò. «Va bene, aspetta qui, vado a recuperarli».

Optò, ovviamente, per la strada più lunga – senza tagliare per il lago come aveva suggerito l'altro: aveva già rischiato abbastanza tirandolo fuori da lì – e quando tornò (con un maglione rosso con la stampa di un gattino – Un gattino? Pensò Jeongguk. Davvero? - e un pantalone nero tra le mani – non trovò nessun capo di biancheria, ma decise di non porsi domande), trovò sorriso-rettangolare ad ingozzarsi delle sue patatine. Aggrottò la fronte.

«Oh, erano tue?», domandò con aria innocente, mordicchiandone un'altra.

Di bene in meglio.

«Non ha importanza», sospirò, porgendogli i suoi eccentrici capi di abbigliamento. «Puoi mangiarle».

Dopo che si fu rivestito – e non senza che Jeongguk insistesse affinché questo avvenisse nell'immediato – sedettero l'uno affianco all'altro dividendo ciò che era rimasto nella busta del fast food.

Quando il cibo finì, Jeongguk rivolse lo sguardo all'altro. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo, perso in chissà quali pensieri, intonando un motivetto ogni tanto e lamentandosi del freddo.

Beh, gli aveva detto Jeongguk, nessuno ti ha obbligato a fare il bagno nudo. Questi aveva ghignato.

«Come ti chiami?».

La domanda sembrò prenderlo per un momento alla sprovvista. Batté le palpebre, inclinando il capo. A Jeongguk sembrò un cagnolino incerto sul comando dettatogli dal padrone.

«Mi chiamo V», rispose dopo un po'. «Beh, non mi chiamo V ma puoi chiamarmi in questo modo». Ghignò, e di nuovo Jeongguk decise di non fare domande. «Tu?».

«Jeon Jeongguk».

«Oh».

Si scambiarono uno sguardo confuso. Che razza di risposta era “Oh”?

Jeongguk non ebbe il tempo di formulare la domanda, perché V si alzò e gli porse la mano. «Beh, Jeon Jeongguk, non so tu ma io mi sto congelando. Che ne dici di qualche vestito asciutto e un po' di calore?»

 

Si scoprì ben presto che l'idea di V di calore e vestiti asciutti non era altro che la lavanderia a gettoni.

Jeongguk si fermò prima di entrare, aggrottando la fronte. «Uhm, cosa...?».

V si fermò a sua volta, guardando prima lui poi l'ingresso. «Cosa?».

«Pensavo stessimo andando a casa tua». Tradotto in: non ho nessuna intenzione di restare in mutande in una lavanderia a gettoni mentre i miei pantaloni si asciugano. Che problemi aveva questo ragazzo col tenere i vestiti addosso in luoghi pubblici?

L'altro si dondolò un po', a disagio. «Ah, quello. Beh, il fatto è che-».

«Ehi tu, ragazzo!»

V non terminò la frase, ed entrambi si voltarono verso la voce.

Un uomo dalle fattezze abbastanza spaventose (ben piazzato, tatuaggi e barba, sguardo minaccioso) gli stava andando incontro a pugni stretti. Fu quello l'esatto momento, notando lo sguardo vagamente terrorizzato di V, che Jeongguk si domandò in che razza di guaio si fosse cacciato tirando fuori quel ragazzo dallo stagno. Ma non ebbe il tempo di dare voce alle sue preoccupazioni, perché l'altro lo afferrò dal polso ed iniziò a correre.

«Fermi!»

«Che diavolo succede?!»

«Risparmia il fiato, Jeon Jeongguk! Conserva le domande per quando la nostra pelle non sarà in pericolo!»

«Vorresti dire la tua pelle?! Io non ho niente a che fare con i tuoi casini!».

V si voltò, lanciandogli un ghigno da sopra la spalla. «È decisamente troppo tardi per questo».

Che io sia dannato, pensò Jeongguk, ma decise che per il momento sarebbe stato davvero meglio conservare il fiato.

Corsero per troppo tempo, svoltando in vicoli e facendo slalom tra macchine e biciclette, fin quando Jeongguk non avvistò l'autobus che lo avrebbe ricondotto al campus. Afferrò V e se lo trascinò dietro, riuscendo ad entrare nel mezzo poco prima che questo ripartisse, lasciando il loro inseguitore urlante a terra.

Dopo un sospiro di sollievo, collassarono su due sedili vuoti cercando di riprendere fiato.

V si affacciò dal finestrino, cacciando la lingua e mostrando il dito medio all'uomo che aveva avuto tutta l'intenzione di ammazzarli – e chissà per quale ragione. Questi, di tutta risposta, gli promise una morte lenta condita da epiteti che Jeongguk era certo di non aver mai udito in vita sua.

«Chi accidenti era quel tizio?!»

Il ragazzo dai capelli arancioni si voltò nuovamente verso l'altro, un ghigno malefico sul viso. «Il proprietario di una bancarella al mercato. Una volta gli ho rubato qualche mela e un po' di pane e se l'è legata al dito».

La confessione ammutolì Jeongguk. Perché V aveva bisogno di rubare del cibo dal mercato? Chi era questo ragazzo?

Lo osservò, rendendosi conto che, stranezze caratteriali a parte, non sembrava un giovane fuori dalla norma. I suoi vestiti, per quanto brutti, erano puliti e intatti e sembrava fisicamente in salute.

«Dove stiamo andando?», gli chiese di punto in bianco, e Jeongguk si rese conto che era stato in silenzio più tempo di quanto avesse immaginato. Guardò fuori dal finestrino, riconoscendo la prossima fermata come quella del suo dormitorio.

«A casa mia»

 

Quando entrarono nella stanza, di Jimin non v'era traccia. Probabilmente il cinema non era l'unica cosa in programma quel pomeriggio e Jeongguk fu silenziosamente grato per aver declinato l'invito.

Si tolsero le scarpe, mentre V si guardava intorno con aria curiosa.

«Il bagno è da quella parte», indicò Jeongguk. «Puoi farti una doccia, ti presterò dei vestiti puliti».

L'altro non se lo lasciò ripetere due volte e si fiondò in bagno senza neanche prendersi la briga di chiudersi la porta alle spalle.

Quando Jeongguk sentì il rumore dell'acqua, tirò un sospiro di sollievo e si lasciò sprofondare sul divano. Perché quella giornata ordinariamente monotona si era trasformata in qualcosa di così bizzarro? Lui amava la sua routine. Inoltre, qualcosa gli diceva che quel tipo non gli avrebbe procurato altro che guai. Nonostante questo, non riuscì a reprimere un sorriso.

Era un ragazzo particolare, questo lo aveva assodato, ma il solo stargli accanto metteva allegria: possedeva una di quelle personalità raggianti che colorano tutto ciò a cui si avvicinano. Inoltre, si ricordò di aver sentito una specie di scossa lungo tutto il corpo quando V l'aveva afferrato per scappar via dall'inseguitore...

«Dove sono i miei vestiti?».

Jeongguk si voltò, preso alla sprovvista, e per la seconda volta in meno di due ore si ritrovò a fissare V nudo.

Per carità, era bello da guardare, solo che... «Arrivano, arrivano, non pensavo fossi così veloce. Non hai nemmeno un briciolo di pudore, tu?», borbottò, coprendosi gli occhi con una mano e approfittandone anche per nascondere il velato rossore che gli imporporava le guance.

«Affatto», ghignò l'altro. «Se siamo nati nudi ci sarà un motivo. Inoltre, siamo entrambi ragazzi: non vedo quale sia il problema».

Jeongguk sospirò; tentare di confutare le sue tesi sarebbe stata solo una perdita di tempo.

«Piuttosto», iniziò, rovistando nell'armadio alla ricerca di qualcosa che potesse stargli bene addosso. «Quanti anni hai?».

V sembrò pensarci su. «Tu quanti me ne daresti?».

Sinceramente? Tre. «Uhm. Diciannove?».

«Bu-buu», esclamò, formando una X con le braccia. «Sono abbastanza sicuro di averne circa ventidue».

E questa che razza di risposta sarebb-«-ventidue? Vorresti dire che sei più grande di me? Non è possibile!»

«Cosa c'è di tanto impossibile in questo?».

«Beh...» forse il fatto che agisci come un ragazzino delle medie? O che il tuo viso è così carino che dimostra circa...eh? Cosa? Ho appena pensato la parola “carino” associata a quello stramboide? «Nulla, lascia stare. Ma non ti chiamerò hyung».

V si strinse nelle spalle, come se delle formalità gli importasse poco e niente. Poco dopo Jeongguk gli lanciò dei vestiti (e della biancheria, che l'altro infilò con una smorfia) e la discussione terminò quando il minore andò a sua volta a farsi una doccia.

Ma non ebbe il tempo di uscirne che, dal salotto, avvertì due urla ben distinte: la prima apparteneva a V; l'altra, un po' più acuta, non poteva che essere di Jimin.

S'infilò velocemente un paio di pantaloni e una maglia a maniche lunghe e, non appena mise piede nella stanza principale, V si aggrappò alle sue spalle a mo' di koala. «Jeonggukie! Un folletto!».

L'altro lo guardò come se fosse impazzito – il che, in effetti... . Jeonggukie? «Eh?».

Ovviamente, il dito lungo di V, puntava proprio in direzione di Jimin, che a sua volta ricambiava lo sguardo terrorizzato. Jeongguk dovette mordersi l'interno della guancia per non ridere.

«Io sarei un folletto? Sarai cosa, cinque centimetri più alto di me? Chi diavolo sei, piuttosto?». Poi si accorse della presenza di Jeongguk. «Chi diavolo è?».

Il primo compito del minore fu calmare un apparentemente spaventato V. Lo costrinse a sciogliere la presa mortale, poi lo trascinò davanti a Jimin tenendolo per le spalle. «Guardalo bene, non è un folletto. È un essere umano come te e me. Sì, è un po' basso» e qui si beccò una delle occhiate glaciali di Jimin «ma non così tanto. Il suo nome è Jimin, è il mio compagno di stanza e migliore amico». Poi si rivolse all'altro. «Jimin, lui è V». E se questi si aspettava una descrizione più dettagliata su chi questo V fosse, sarebbe rimasto molto deluso. In fondo, non è che Jeongguk sapesse altro di lui.

I due si scrutarono per un po', fin quando non decisero che la presenza dell'altro non creava poi tanti problemi. Jimin fece spallucce, chiudendosi in camera sua senza aggiungere altro.

Così, furono di nuovo soltanto V e Jeongguk.

Wow, breve ma intenso.

«Uhm...»

V si accomodò sul divano senza troppe cerimonie, stendendo le gambe e incrociando le braccia dietro la testa. «Questo divano è comodissimo! Molto meglio della panchina su cui ho passato le ultime tre notti!».

La nonchalance con cui rivelò quell'informazione lasciò Jeongguk vagamente basito. Batté le palpebre un paio di volte prima di riuscire ad articolare una frase di senso compiuto. «Perché hai passato tre notti su una panchina?».

L'altro fece spallucce. «Sono stato buttato fuori dal mio appartamento perché non avevo i soldi per pagare l'affitto. Il mio datore di lavoro mi ha licenziato perché dice che spavento i clienti». Si sollevò di scatto, un dito ad indicarsi il viso e il labbro inferiore che sporgeva appena. «Ho la faccia di uno che spaventa i clienti?».

Non è la faccia il problema, pensò il minore, ma decise di tenerlo per sé. «Perché non sei tornato a casa dei tuoi?».

Ma Jeongguk si pentì di quella domanda non appena uscì dalla sua bocca. L'espressione dell'altro si rabbuiò per qualche istante, poi affondò nuovamente tra i cuscini del divano.

Il senso di colpa che Jeongguk provò in quel momento lo fece quasi arrossire. Si disse che non aveva nessun diritto di fare una domanda tanto particolare (seppur innocente, in un certo senso) ad un tizio che conosceva solo da poche ore e che probabilmente non aveva nessuna intenzione di condividere i dettagli della sua vita con un perfetto estraneo. Si guardò intorno cercando di cambiare argomento, o magari di articolare delle scuse, ma finì solo per andare nel pallone: non era mai stato bravo a gestire le situazioni difficili.

Per un attimo pensò che V si fosse offeso, che sarebbe andato via senza rivolgergli un altro sguardo e la cosa stranamente gli trasmise un certo senso d'angoscia (solo perché ti senti in colpa di avergli rovinato l'umore con la tua invadenza, si disse), ma ad un certo punto questi iniziò ad emettere strani sbuffetti, fino a quando quello che era un silenzioso ridacchiare si trasformò in una vera e propria risata, con tanto di rotolata tattica sul pavimento.

Il cambio d'atmosfera lasciò Jeongguk spiazzato per l'ennesima volta, e iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di ciò che aveva fatto scaturire quell'eccesso di risate.

Non c'era niente di particolarmente divertente a vista e questo non fece che confondere il minore ancora di più. Stava per chiedere a V di spiegargli cosa ci fosse di così divertente quando, avvicinandosi al tavolino da caffè, notò che Jimin aveva lasciato lì il cellulare, e che lo schermo era sbloccato, mostrando lo sfondo in tutto il suo splendore.

E Jeongguk conosceva quella foto fin troppo bene.

Sentì il rossore salirgli dalla punta dei piedi fino alle orecchie mentre si affrettava a lanciare il telefono di Jimin dall'altra parte della stanza.

Jimin.

Lo avrebbe ucciso lentamente, perché più di una volta gli aveva chiesto di cancellare quell'orrore. “Non la vedrà mai nessuno”, gli aveva detto. “Il mio telefono è più sicuro di una cassaforte!”.

Nessun posto al mondo, invece, sarebbe stato abbastanza sicuro per nascondere lui. «Posso spiegare».

Ma V non lo ascoltava nemmeno, troppo impegnato ad asciugarsi le lacrime con la manica della maglietta e a mantenersi la pancia, piegato su se stesso in posizione fetale.

La foto sotto inquisizione ritraeva un più che ubriaco Jeongguk con una succinta minigonna e dei tacchi alti; le labbra, di uno sgargiante rosso, sollevate come a voler mandare un bacio a chiunque fosse dietro la fotocamera. Qualsiasi essere umano con un po' di pudore avrebbe preferito dieci anni di carcere piuttosto che la divulgazione di quella fotografia (V invece, probabilmente l'avrebbe mostrata a tutti come soddisfazione personale, ma lui il pudore non sapeva neanche dove fosse di casa).

«Non ero in me e Yoongi-hyung ha davvero un pessimo senso dell'umorismo. Ehi, smettila di ridere!».

Ma V smise effettivamente di ridere soltanto quando Jeongguk gli assestò un pugnetto sulla testa. Questi si voltò di scatto, massaggiandosi la parte lesa e guardando il suo assalitore con il tradimento negli occhi. Jeongguk quasi si pentì del suo gesto.

«Perché l'hai fatto?».

«Perché continuavi a ridere di me!»

«Non ridevo di te, Jeonggukie! Anzi, trovo che quel rossetto ti doni particolarm-ouch! Ehi!».

quasi, appunto.

Rimasero in silenzio per un po', V che ogni tanto sghignazzava e Jeongguk che gli lanciava occhiatine, fin quando il maggiore non allargò le braccia, sbadigliando. Jeongguk guardò l'orologio e si accorse che era scattata da poco la mezzanotte.

V fece per alzarsi, lanciando furtive occhiate nella direzione dell'altro, vagamente indeciso sul da farsi.

Anche Jeongguk, dal canto suo, era indeciso: poteva davvero lasciarlo andare via, dopo che l'altro gli aveva confidato di non avere un posto in cui tornare? Era vero che di lui non sapeva nulla, ma qualcosa gli diceva che quel ragazzo non era pericoloso, che poteva dargli la sua fiducia. Non sapeva bene come o perché, ma era come se il suo sguardo gli trasmettesse... familiarità, sì. Al momento non riusciva a trovare parola più adatta.

Si schiarì la voce. «Senti, V, uhm... puoi restare a dormire qui se vuoi. A Jimin non dispiacerà e nessuno occupa il divano, quindi non darai fastidio». Si strinse nelle spalle, come a voler minimizzare la sua offerta, che però il maggiore non si fece sfuggire. Gli rivolse un sorriso rettangolare e il breve momento d'imbarazzo svanì prima ancora di iniziare.

«Speravo che me l'avresti chiesto! Inizia a fare un po' freddo lì fuori», constatò, accoccolandosi sul divano con un braccio sotto la testa.

Jeongguk si allontanò un attimo per procurargli una coperta e, quando tornò in salotto, V sembrava essersi già addormentato. Il minore si avvicinò, coprendolo con cura e sorprendendosi nel pensare che, accovacciato in quella posizione, quello stramboide dai capelli color zucca trasmetteva un qualcosa di... tenero.

Sospirò, scacciando quei pensieri e raggiungendo l'interruttore della luce. Fu solo quando stava per chiudersi la porta alle spalle che udì la voce dell'altro.

«Grazie per avermi permesso di restare qui, Jeonggukie».

Il sussurro dava un'intensità alla sua voce che a Jeongguk era sfuggita. Annuì, sorridendo appena, ma l'altro lo bloccò di nuovo.

«Per quanto riguarda la tua domanda di prima... non è che non voglio tornare a casa della mia famiglia. Il fatto è che... non ho la più pallida idea di dove casa della mia famiglia sia». A quelle parole, Jeongguk si gelò sul posto. Per la prima volta un accenno di malinconia macchiò la voce di V, e il minore fu grato del fatto che le luci fossero spente.

«Non ricordo quasi nulla della mia vita, neanche il mio nome. So solo che un giorno ho aperto gli occhi senza sapere chi fossi o dove mi trovassi. Tutto quello che c'è stato dopo è stato un mero voler sopravvivere».

Quella serietà, quella tristezza, Jeongguk decise che non si adattavano a V. E quella dichiarazione lo colpì nel profondo, più forte di quanto avrebbe dovuto, facendogli impiegare troppo tempo per formulare una risposta.

Quando mosse la bocca per parlare, si accorse che il maggiore si era già addormentato.

 

*°*°

 

La mattina seguente, Jeongguk fu svegliato dalla luce del sole.

Grugnì, maledicendosi per aver dimenticato di chiudere le tende, e si voltò dall'altro lato. Era mercoledì, ciò significava che non avrebbe dovuto frequentare nessun corso e che quindi avrebbe potuto beare del tepore delle coperte per tutto il tempo che voleva. Ma c'era qualcosa, in un angolo della sua mente, che a tutti i costi sembrava volerlo spingere ad aprire gli occhi. Ignorò il fastidio, tirandosi le lenzuola fin sopra la testa e prendendosi qualche momento per rimettere insieme i fatti che, disordinatamente, gli ronzavano per la mente. Il viso di un ragazzo con una disordinata matassa di capelli arancioni fece capolino dietro le sue palpebre chiuse, e Jeongguk pensò che il suo cervello avesse davvero una fervida immaginazione per creare dal nulla un viso così cari-

Oh

Aprì gli occhi di scatto, rotolando giù dal letto mentre la consapevolezza che gli eventi del giorno prima non erano stati una mera invenzione del suo inconscio si faceva strada dentro di lui.

Aveva davvero permesso ad uno sconosciuto mezzo matto di dormire sul suo divano? Ma cosa diavolo gli era passato per la testa?

Poi ricordò le confessioni, quelle ultime parole di V prima che il sonno lo rapisse, e gli si formò un groppo in gola.

A quanto pareva, V aveva perso la memoria a causa di un incidente: non ricordava nulla della sua vita e non aveva un posto in cui tornare. Jeongguk si domandò come avesse fatto a sopravvivere fino a quel momento senza essere arrestato. Sospirò.

Si concentrò, tentando di cogliere qualche rumore provenire dal salotto – erano appena le otto del mattino, probabilmente V dormiva ancora e non sarebbe stato di certo Jeongguk a svegliarlo – e dopo poco udì una voce – quella di V, impossibile confondersi – intenta a discutere animatamente con qualcuno. Jeongguk aggrottò la fronte: era piuttosto certo che Jimin avesse un corso da frequentare a quell'ora e che in casa non ci fosse nessun altro. Così, senza fare il minimo rumore, aprì la porta e si avviò in cucina in punta di piedi.

La scena che gli si presentò davanti agli occhi gli fece mettere in discussione la sua stessa sanità mentale.

«Ti dico di no, G-Dragon! Sono piuttosto convinto che sia proprio come dice Seungri. La luna è fatta di formaggio, altrimenti perché dovrebbe avere tutti quei buchi? Crateri, dici?Impossibile. Ah! Guardate, Jeonggukie si è svegliato! Coraggio, Kookie-ah, perché non dici la tua?».

Jeongguk sbatté le palpebre.

V indossava un grembiule rosa – da dove fosse venuto fuori, Jeongguk non ne aveva idea – ed era intento a cucinare quelle che avevano l'aria di essere frittelle. A tavola, dietro di lui, cinque pupazzi di pezza – questi Jeongguk sapeva da dove fossero venuti fuori: Hoseok-hyung aveva questa strana abitudine di regalare un peluche a Jimin ad ogni occasione importante... - attendevano il cibo con tanto di vettovaglie dinanzi. C'erano due posti vuoti a tavola, che Jeongguk suppose fossero destinati a lui e V.

«Hai dato i nomi dei membri dei BigBang a dei pupazzi?».

E quella era davvero la cosa meno grave di tutta la situazione ma Jeongguk sapeva che, se si fosse soffermato sul resto, avrebbe finito col dare di matto.

V gli rivolse uno sguardo divertito, sfoggiando il suo sorriso rettangolare e Jeongguk cercò di ignorare il modo in cui il suo stomaco si strinse.

È matto, si disse. Resta con i piedi per terra.

Con molta cautela, e senza distogliere lo sguardo dai peluche – forse sarebbe stato corretto dire che la situazione lo aveva un po' sconvolto – si accomodò ad uno dei due posti vacanti.

«Uhm. Credo che G-Dragon abbia ragione».

Sbarrò gli occhi non appena si rese conto che quelle parole erano uscite proprio dalla sua bocca. Ma che diavolo?! Sto impazzendo davvero?

Lo sguardo sul volto di V mutò in uno di delusione pura e Jeongguk per un istante desiderò rimangiarsi ciò che aveva appena detto. Capelli-arancioni posò la forchetta con la quale stava sbattendo le uova sul ripiano, voltandosi completamente verso il minore.

«Vorresti farci credere che la luna non è fatta di formaggio? E che quindi in Francia non preparano una speciale fonduta con pezzi provenienti direttamente dalla sua superficie?».

Jeongguk rimase a bocca aperta: improvvisamente la sua mente si era svuotata di qualsiasi idea e qualsiasi logica. Tutto ciò che voleva era far sparire quello sguardo dal volto dell'altro.

«B-beh, siamo due contro due, no? Vediamo cosa dicono gli altri e, per alzata di uhm, zampa, la maggioranza vince».

V fissò i peluche uno ad uno, in silenzio. Dopo un minuto circa, il suo grido di esultanza spaventò Jeongguk al punto da farlo quasi cadere dalla sedia.

«Ah-ah! Abbiamo vinto! Mi dispiace Jeonggukie, ma l'unico a condividere la tua folle teoria è G-Dragon».

Jeongguk non osò controbattere.

Quando la colazione fu pronta, anche V si sedette a tavola. Il minore si domandò chi avrebbe mangiato tutto quel cibo in più, ma non diede voce ai suoi dubbi. Cercò di concentrarsi sul pasto – inaspettatamente gustoso – ignorando la conversazione silenziosa di V, anche quando questi iniziava a ridere all'improvviso a causa di qualche battuta che solo lui e i suoi amici di peluche potevano sentire.

 

V parlava molto e di tante cose.

Jeongguk si rese conto che ascoltare le sue teorie bizzarre era piuttosto divertente (e, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, alcune avevano anche il loro senso) e quando alzò lo sguardo per controllare l'orario, si rese conto che era passata più di un'ora senza che se ne rendesse conto.

La cosa non lo lasciò del tutto indifferente, perché Jeongguk non era un tipo estremamente socievole e per di più non amava chiacchierare del nulla. Eppure, seduto a quel tavolo in compagnia di V e di cinque peluche, era stato totalmente assorbito dal momento.

«A che pensi?».

Jeongguk distolse lo sguardo dal punto che si era ritrovato involontariamente a fissare e lo puntò in quello dell'altro. «Uh?».

V ridacchiò. «Sembravi essere su un altro pianeta, quindi mi sono chiesto a cosa stessi pensando».

«Oh».

Non avrebbe potuto dirgli che stava pensando a quanto gradisse la sua compagnia, quindi optò per la prima cosa che gli passò per la testa. «Pensavo al fatto che, tra i membri dei BigBang, G-Dragon è quello che preferisco».

V sorrise. «Ecco perché andate così d'accordo».

Il suo sorriso era contagioso e Jeongguk si ritrovò, anche se con meno convinzione, a ricambiarlo.

«Sai, sei la prima persona che non mi guarda con disgusto dopo avermi visto parlare con oggetti inanimati».

La confessione spiazzò il minore, che si ritrovò a corto di parole.

«Da quando ho memoria – ovvero sette anni all'incirca – sono sempre stato solo. E la solitudine è davvero orribile, soprattutto quando tutti pensano che tu sia strano e quindi nessuno ti si avvicina. Questo è il mio modo di sconfiggere la solitudine, di rimpiazzare le figure che potrebbero esserci state nella mia vita, di cui però non ho ricordi».

Il suo sorriso era triste, ma non per questo meno sincero. Jeongguk avvertì l'irrefrenabile impulso di stringerli una mano per confortarlo, quindi le infilò entrambe nelle tasche della felpa.

C'erano così tante domande che gli ronzavano nella testa... domande a cui non si aspettava di ricevere risposta, ma che non riuscì a trattenersi dal porre.

«Come...cioè, quando-cosa...?».

«Cosa mi è successo?».

Jeongguk arrossì, annuendo appena.

«Sinceramente? Non ne ho idea. Mi sono svegliato sulla riva di un fiume, solo e senza documenti. Non c'era niente nelle vicinanze che avrebbe potuto far pensare ad un incidente, ma la mia testa sanguinava ed era tutto confuso...

Sono svenuto e mi sono risvegliato qualche ora dopo, e tutto il corpo mi faceva più male di prima. Onestamente, ero certo che sarei morto. Ma non volevo morire, così mi sono fatto forza e mi sono tirato su. Ho camminato a lungo prima di incrociare qualcuno. Poi questa signora mi ha caricato in macchina, disse che mi stava portando in ospedale ma faceva così tante domande a cui non sapevo risponderle... probabilmente cercava solo di farmi restare sveglio. Mi chiese cosa fosse successo, come mi chiamassi, quanti anni avessi... era preoccupata, lo capivo, ma no potevo risponderle...».

Sospirò, massaggiandosi le tempie come se ricordare quegli eventi gli procurasse ancora dolore fisico.

«Probabilmente svenni di nuovo, perché quando riaprii gli occhi era tutto bianco e la faccia barbuta di un dottore mi fissava sorridente.

“Sei sopravvissuto a delle ferite non indifferenti, ragazzino. Puoi considerarti un vincente!” Vincente, disse, e mi piaceva il suono di quella parola. Così, dato che nessuno conosceva il mio nome, da quel momento iniziai a farmi chiamare V».

Il sorriso gli illuminò il viso per un brevissimo istante.

«Scoprii di essere rimasto incosciente per circa tre giorni. Avevo più o meno 15 anni e l'ospedale aveva già dato il via alle pratiche per l'affido. Sarebbe stata una famiglia o l'orfanotrofio, e sinceramente non mi andava bene nessuna delle due opzioni.

Così, quella stessa notte, scappai e decisi che sarei riuscito a cavarmela da solo.

Non volevo essere adottato. Ero convinto, in un certo senso, che prima o poi i miei genitori sarebbero venuti a cercarmi. Ovviamente, così non è stato».

Abbassò lo sguardo suo suo piatto vuoto e quel punto Jeongguk si allungò sul tavolo per stringergli la mano, al diavolo tutte le restrizioni che si era auto imposto: quel ragazzo stava soffrendo e meritava di sapere che non era solo... non più.

V sorrise appena, ricambiando la stretta di mano senza però incrociare lo sguardo del più piccolo. Sospirò, poi riprese a raccontare.

«Li avrei cercati io, se avessi potuto. Ma senza un nome o qualsiasi altra informazione è un po' difficile rintracciare qualcuno. Così ho aspettato e aspettato, ma mai nessuno è venuto a riprendermi. E poi, a sedici anni...».

Dopo quello, ci fu una pausa significativa che costrinse Jeongguk ad alzare lo sguardo. Il minore sapeva che V stava valutando qualcosa. Lo sentiva. Come se l'informazione che era indeciso se dare o meno fosse più importante di tutto il resto. V incrociò lo sguardo dell'altro, ma solo per una frazione di secondo.

«...a sedici anni trovai un lavoretto e un posto economico in cui stare. E la mia vita è andata avanti in questo modo fino a poco fa...».

La mano del maggiore sgusciò via dalla presa di Jeongguk, mentre si alzava per mettere i piatti nel lavello – e conservare il cibo non mangiato in frigorifero.

Jeongguk invece rimase lì, immobile, cercando di processare tutte quelle informazioni e pensare a qualcosa da dire che fosse coerente e non banale. Non si sarebbe mai aspettato che V gli rivelasse il suo passato con tanta facilità, anche se sapeva che c'era qualcosa che aveva preferito tenere per sé.

Non aveva indagato e non lo avrebbe fatto: il maggiore aveva tutto il diritto di omettere pezzi della sua storia, se così si sentiva di fare. In fondo, quella era la sua vita e Jeongguk non c'entrava niente e inoltre si conoscevano da meno di 24 ore, anche se più volte durante quella mattina al minore era passato di mente. Come se lui e V si conoscessero da sempre.

«Mi dispiace per tutto quello che hai dovuto passare», mormorò, cercando il suo sguardo. «Non posso neanche immaginare quanto dev'essere stata dura».

V si strinse nelle spalle, accennando un sorriso. «Il passato è passato, non si può cambiare. Quello che è davvero importante è vivere il presente e costruire un futuro che valga la pena di essere vissuto. E, a questo proposito, dovrei trovarmi un nuovo lavoro».

Jeongguk sorrise a sua volta, accettando il cambiamento d'argomento e d'atmosfera. «Quanti lavori hai cambiato? Non sembri il tipo che riesce a dedicarsi alla stessa cosa per troppo tempo», ghignò, alzandosi per raggiungerlo.

«Ti sbagli! Amavo il mio lavoro da aiuto cuoco, ma evidentemente il mio lavoro non amava me».

Il minore non poté non ridere a quell'affermazione.

«Che diavolo hai combinato per farti cacciare?».

«Beh, diciamo solo che riacquistare tutti i piatti che rompevo iniziava a costare più del mio stesso stipendio, quindi...».

«In questo caso», iniziò il minore, sorridendo. «Lascia che ti aiuti a lavare questi. Non ho così tanti piatti, né soldi per ricomprarli».

E senza pensarci, Jeongguk fece una cosa che non faceva mai: sollevò le maniche della felpa, lasciando scoperto il punto più vulnerabile di se stesso. Lo aveva fatto con leggerezza e V aveva seguito i suoi movimenti come ipnotizzato. Fu proprio quando notò lo sguardo dell'altro sul proprio polso che qualcosa scattò nel suo cervello, facendogli prendere coscienza delle sue azioni. Ma era troppo tardi, perché V lo aveva visto e sicuramente avrebbe fatto domande alle quali Jeongguk non voleva rispondere.

Ma, inaspettatamente, ci fu solo silenzio dopo quel momento.

Il minore iniziò a lanciare sguardi confusi all'altro, perché era la prima volta che qualcuno non gli domandava nulla del suo contatore bloccato, e Jeongguk proprio non riusciva a capire il motivo di quel silenzio.

Fu solo quando l'espressione di V iniziò a diventare sempre più cupa, ed il silenzio troppo opprimente, che Jeongguk dimenticò i suoi drammi interiori e concentrò la sua attenzione sull'altro.

«Ehi, tutto bene?».

Quello sussultò, come se avesse completamente dimenticato la presenza di qualcun altro nella stanza.

«Eh? Ah, sì, ho solo – ho solo bisogno di fare due passi», disse in fretta, asciugandosi le mani sul grembiule rosa per poi sfilarselo dal collo.

Jeongguk si morse l'interno della guancia, osservando V che quasi correva verso la porta, infilandosi le scarpe.

Si sentì in colpa per averlo spinto a parlare di cose che evidentemente gli provocavano ancora dolore, rimproverando se stesso per la sua curiosità e invadenza. Non sapeva come articolare le sue scuse, così optò per qualcosa di più semplice.

«Torni, più tardi? Ti offro il pranzo».

Gli sorrise incoraggiante, il senso di colpa negli occhi. Il maggiore ricambiò appena. «Certamente, Jeonggukie».

Così Jeongguk attese.

Ma V non tornò più.

 

   
 
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