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Autore: daeran    14/03/2009    3 recensioni
Edward prima di Bella.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per partecipare al concorso indetto dall'archivio Anonima Autori: "Artisti di strada."
L'intera storia mi è stata ispirata dalla canzone da cui prende il titolo "Il testamento di un pagliaccio" degli Io?Drama. Una canzone che adoro di un gruppo italiano poco conosciuto nel girone infernale della musica nostrana. Se volete ascoltarla, la trovate
QUI (Deezer)>

Il Testamento di un pagliaccio.
Dolce amore mio, so che non ti riavrò mai.
Ladro del mio io non resusciterai mai.

Della mia ossessione non potranno ridere, quando me ne andrò in solitudine.
Applausi!
(Io?Drama - Il testamento di un pagliaccio.)

L'uomo in nero aiutò la giovane donna ad insinuarsi nel sarcofago di legno che le lasciava libera solo la testa, chiuse con cura tutte le cerniere metalliche, facendo scattare sonoramente i lucchetti che la imprigionarono, senza lasciarle alcuna via di fuga.
La donna sorrideva con calma , il volto era pesantemente truccato ed i capelli biondicci e gonfi la facevano apparire come una balla di fieno in equilibrio sopra la scatola di legno rosso vermiglio.
Un sole che tramonta sull'orizzonte di sangue.
Il suo volto mostrava una calma innaturale, le labbra non tremavano, rimanevano tranquille, piegate in un sorriso sincero e tutta l'ostentata sicurezza si riversava come un'epidemia sul pubblico che ridacchiava ed applaudiva entusiasta.
Un silenzio teso, tuttavia, scese quando l'uomo in nero estrasse una spada dalla rastrelliera alle sue spalle.
La soppesò con esperienza, si esibì in un paio di affondi, prima di sollevare sul pubblico un sorriso gelido, alzò la spada sopra la testa, stringendo l'elsa con entrambe le mani e calò con violenza la lama su di uno sgabello di legno massiccio.
Lo scricchiolio fu grottesco, la lama lo attraversò facilmente ed affondò con un ennesimo tonfo nelle travi che costituivano il palcoscenico.
Il pubblico sussultò.
Potei sentire la paura scorrere nelle menti degli uomini e delle donne seduti attorno a me, i loro cuori accelerarono i battiti, il sangue scorse più velocemente nelle loro vene, impregnando l'aria dell'odore caldo e ferroso che ancora oggi fatico ad ignorare.
Strinsi i denti e sentii il sapore acre del mio stesso veleno scivolarmi lento sulla lingua; il mio corpo si irrigidì, scosso da un unico brivido violento; mi sarei alzato, avrei compiuto l'irreparabile, se una morsa non fosse calata ad afferrarmi la spalla. Mi voltai con un ringhio, pronto alla lotta.
Chi osava fermarmi? Chi osava intralciarmi?
Incontrai i suoi occhi dorati, quell'espressione carica di apprensione ed affetto.
Il mio primo istinto fu quello di ridere di tanta ingenua fiducia; potevo massacrarlo senza alcuno sforzo: ero più forte, più giovane, più veloce.
Gli avrei staccato la testa con morso, dopodichè mi sarei dedicato agli altri, li volevo, avevo bisogno di loro, la sete mi uccideva, il dolore lancinante alla gola poteva essere placato, doveva essere placato.
Che senso aveva fingere rispetto per le loro stupide vite?
Erano cibo, niente più che bestiame in fila pronto per essere macellato.
Ma all'improvviso accadde qualcosa, la mia mente sfiorò quella del mio mentore, sentii più di un semplice sentimento, mi si aprì un mondo, percepii il suo dolore, il suo senso di colpa, la sua frustrazione e la paura di dovermi annientare.
Non aveva paura per se stesso, non temeva che potessi ucciderlo, spezzarlo senza difficoltà, temeva per me, temeva il dolore che mi sarei provocato agendo come mi diceva l'istinto al quale lui stesso mi aveva condannato.
Temeva di dovermi uccidere per fermarmi.
Chiusi gli occhi, lasciandomi pervadere dai suoi sentimenti contrastanti, provando vergogna per me stesso e rimorso per ciò che avevo pensato di fare all'unico padre rimastomi.
"Carlisle…" mormorai a denti stretti ed afferrai i bordi della mia sedia, sentii il legno sgretolarsi sotto le dita.
"Calma, Edward." mi rispose in un sussurro, pur senza lasciarmi la spalla. "Vuoi uscire?" domandò ancora preoccupato.
"No, ce… ce la faccio." balbettai.
Se fossi stato umano, il sudore mi avrebbe imperlato la fronte, invece in apparenza rimasi impassibile.
"Ti ho sentito." mormorai ancora. "Ti ho sentito davvero."
Ne avevamo parlato qualche giorno prima, Carlisle era convinto che avessi qualche capacità empatica, ultimamente rispondevo alle sue domande prima ancora che me le ponesse ma lo facevo senza rendermene conto, pensavo fosse dovuto al profondo legame che ci univa, ero certo che le sue fossero solo stupide supposizioni dettate dal sentimento di un padre che vuole ad ogni costo essere fiero del proprio unico figlio.
La stretta sulla spalla si irrigidì impercettibilmente e l'uomo annuì serio, senza aggiungere altro.
Tentai di rilassarmi, pur trattenendo il respiro e tentai di aprire ulteriormente la mia mente, mi lasciai cullare dalle emozioni di Carlisle, sentii fierezza ed apprensione, dolore e paura, eccitazione ed ancora paura.
Dio mio, speriamo che vada tutto bene.
Se solo mia moglie assomigliasse a quella donna.
Se facessi lo stesso gioco con sua madre, Annabell mi perdonerebbe?
Odio i trucchi con queste spade, ogni volta mi spezzo le unghie.

Spalancai gli occhi, un'esplosione di voci sconosciute mi stordì, mi guardai attorno, continuavano a parlare, ad urlare le più assurde fantasie come se nessuno li stesse a sentire. Solo allora mi accorsi che in effetti nessuno attorno a me stava parlando, avevano tutti le labbra serrate e gli occhi spalancati, puntati contro il palco.
Il mago stava alzando la spada e si accingeva a conficcare la prima nel sarcofago.
Che diavolo mi stava capitando?
Carlisle percepì il mio stupore e fraintese, mi afferrò il braccio con l'altra mano.
"Penso sia meglio uscire." mi sussurrò.
Non mi opposi, le voci mi assordavano, i pensieri più cupi mi affascinavano; come un fiume in piena che ormai ha spezzato gli argini, non riuscivo a fermarli, scorrevano uno dopo l'altro, incomprensibili, terrificanti.
Mi alzai docile, stretto tra le sue braccia. Sedevamo in fondo al pubblico, nessuno si sarebbe accorto di noi.
Muori, puttana.
Una voce prese il sopravvento su tutte le altre, un'eccitazione ed una sete di sangue così diversa da quella a cui mi ero abituato nei mesi trascorsi dopo la mia morte.
Guardai di nuovo il palco, l'uomo in nero poggiò la spada sul legno, fece forza con l'avambraccio e spinse la lama nella fessura predisposta.
Muori!
"No!"
Urlai e presi di sorpresa persino Carlisle che riuscì appena a trattenermi.
Tutto cambiò, il veleno mi scivolò ancora sui denti, mi bruciò le vene, provocandomi un dolore lancinante in tutto il corpo, l'odore del sangue oscurò ogni altro mio senso, mi fece ignorare le urla che scoppiarono nella mia mente e le stesse che presero a sollevarsi nel pubblico quando il volto della giovane donna sbiancò in un'espressione di supremo stupore ed un rivolo vermiglio le scivolo sul mento.
Scattai in avanti, mi liberai delle mani di Carlisle, mi voltai velocissimo e lo colpii in volto con un pugno che lo lanciò oltre l'ultima fila di sedie vuote.
Saltai con un balzo tutto il pubblico, ancora ignaro del pericolo che correva ed atterrai con precisione millimetrica sul sarcofago e lo spinsi a terra con il mio peso.
La cassa si frantumò ma la lama rimase dov'era, conficcata nel fianco della donna che ancora rantolava, in preda alle convulsioni.
Un sorriso mi piegò le labbra, il sangue sgorgava a fiotti ed io ne pregustavo il sapore e la pace che presto avrebbero invaso il mio corpo, ristorandolo.
Non voglio morire.
Una nuova voce mi colse di sorpresa.
Dio ti prego, non farmi morire.
Dolore, disperazione, angoscia, terrore.
Ebbi un'esitazione che fu sufficiente, mi sentii afferrare le spalle e sollevare con forza.
Presi a ringhiare, scalciare, dimenarmi mentre braccia granitiche mi trascinavano lontano dal corpo, lontano dal sangue.
Attorno a noi tutti urlavano, alcuni fuggivano fuori dal tendone, altri indicavano la donna stesa tra i resti della cassa, in pochi guardavano nella nostra direzione, mentre Carlisle con non poca fatica continuava a trattenermi e muoversi verso l'uscita. Forse ci eravamo mossi troppo velocemente per i loro occhi o forse erano solo troppo terrorizzati dall'accaduto per poter registrare altro.
Non voglio morire.
Ancora quella voce, ancora quel terrore, in qualche modo mi fece recuperare la lucidità, ricominciai a trattenere il fiato, utilizzando ogni briciola di autocontrollo rimastami.
"Aiutala, Carlisle" bisbigliai, esaurendo la riserva di aria.
Non avrei potuto dire altro, non senza prender fiato e se avessi tentato un gesto simile, più nulla mi avrebbe fermato, l'odore del sangue impregnava l'aria attorno a noi, sangue e terrore, era ancora più difficile ignorare i battiti accelerati, le urla ma sopra ogni suono regnava quell'unico rimbombo che andava incupendosi e rallentando ad ogni spinta. Sapevo che ogni battito significava ancora più sangue sparso sul pavimento di legno, sangue che sarebbe andato raffreddandosi, impregnato nella terra battuta che faceva da fondamento al tendone colorato.
Che spreco.
Carlisle esitò.
"Un medico! Mio Dio, chiamate un medico!" il mago rimasto impietrito, dopo aver compiuto un gesto che avrebbe dovuto risultare innocuo, recuperò la parola e cominciò ad urlare sopra lo strepito della folla.
Mi voltai con irruenza, ancora stretto tra le braccia di mio padre e lo fissai intensamente negli occhi; non potevo parlare ma speravo capisse, la voce si stava affievolendo, il cuore si stava fermando.
Non posso lasciarti in questo stato, Edward.
Percepii nuovamente il suo dubbio, la sua paura, tentai di tranquillizzarlo. Annuii spingendolo verso il palco; la stretta delle sue braccia si allentò, si voltò verso la donna e tornò subito a fissarmi intensamente, mentre le sue sopracciglia si piegavano in un'espressione tanto tesa, quanto umana.
Mi trovai a domandarmi se io stesso avrei mai avuto la possibilità di recuperare uno sguardo altrettanto umano, un'espressività sincera senza apparire finto ed innaturale ad ogni mio movimento, ad ogni mio respiro.
"Il vicolo… Appena uscito dal cerchio del circo, sulla destra c'è un vicoletto. Imboccalo, ti porterà fuori dalla città, non dovresti incontrare nessuno. Appena raggiunto il bosco, caccia, placa la sete. Mantieniti lontano dal centro abitato, ti raggiungerò appena possibile."
Annuii nuovamente e feci per voltarmi ma le mani di Carlisle non mi lasciarono, mi fissò ancora negli occhi.
Mi fido di te, figlio mio.
Avrei sorriso, da umano avrei sorriso ma non seppi dare l'ordine ai muscoli del mio viso, non ricordavo quel sentimento.
L'uomo mi tirò verso di sé, mi strinse per un istante in un abbraccio gelido e soffocante.
"Vai, corri." mi bisbigliò, lasciandomi andare e contemporaneamente correndo verso la donna.
Mi trascinai fuori dal tendone, tenendo gli occhi puntati al suolo, evitando gli umani che uscivano di corsa al mio fianco. Arrivato nel cortile scoperto ritrovai una situazione simile a quella vista all'interno, gli spettatori si erano riversati in strada in uno scalpiccio confuso tra urla e spintoni.
"E' stata aggredita!"
"L'hanno uccisa!"
"C'è sangue dappertutto!"
Li ignorai, scivolai nell'ombra della notte concentrandomi sulla paura che mi investiva la mente, proveniente dagli umani che si ammassavano concitatamente all'esterno del tendone del magnifico Mago Brilliant.
Tentai di immergermi in quella paura, di farla mia, di condividerla per ignorare la sete che continuava a lacerarmi la gola, a farmi bruciare il corpo in una gelida fiamma infernale.
Fu un'idea ridicola.
La paura mi eccitò ulteriormente, mi ricordò la caccia, mi ricordò i battiti frenetici dei cuori delle mie prede.
Raggiunsi il vicolo strisciando contro i muri, arrancando nella terra battuta, dovetti lottare più volte contro l'istinto di aggredire i passanti, li evitai, li ignorai, per quanto mi riuscì. Caddi in ginocchio una volta al riparo tra i muri sudici. Gli strepiti del piazzale mi giungevano ovattati, lontani.
Presi fiato, per un semplice movimento istintivo, non ne avevo bisogno, i miei polmoni non ne vennero in alcun modo rinforzati, non avevano bisogno di aria, non era l'ossigeno ciò che le mie cellule chiedevano a gran voce.
Aprii gli occhi e distinsi i particolari del vicolo, i topi annidati dietro gli angoli, le casse di legno abbandonate contro i muri, persino le macchie di unto che sporcavano i muri nel buio silenzioso.
Mi concentrai su tutto ciò che la mia vista da predatore mi permetteva di riconoscere nonostante l'oscurità ma anche questo risultò inutile, senza rendermene conto, aprii la mente e fui immediatamente schiacciato da innumerevoli voci, urla disperate, sussurri bramosi, preghiere infantili. Caddi a terra, le tempie strette tra le mani, urlai di dolore, ebbi la certezza che sarei impazzito da un momento all'altro o, nel migliore dei casi, che la mia testa sarebbe presto esplosa, quando all'improvviso tutto cessò.
Un'unica voce mi raggiunse nelle tenebre.
E' morta! Così impara, doveva essere solo mia! Solo mia! Se quella puttana non mi avesse tradito ora sarebbe viva. Incastreranno quell'idiota e partiremo. Mi lascerò tutto alle spalle, sarà come se non fosse mai accaduto.
Era vicina, molto più delle altre.
Era davanti a me.
La seguii senza sapere cosa stessi facendo, muovendo un piede davanti all'altro, attirato da una voce che risuonava solo nella mia mente.
Se l'è cercata. E' stato giusto così, nessuno può rifiutarmi. Non sono io il mostro, io non sono un mostro, sono un giustiziere. Giustizia è stata fatta.
Era pazzo, questa certezza mi colpì più della freddezza della voce.
Un familiare odore mi invase le narici.
Il mio corpo si irrigidì, il veleno mi inumidì le labbra.
Non sono un mostro.
Un'ombra si mosse davanti a me; si muoveva avanti ed indietro nel buio, agitata come un animale braccato.
Non l'ho uccisa io, le mie mani non sono sporche del suo sangue. E' stato lui. loro mi hanno provocato.
Tentava di giustificarsi. Percepii per la prima volta incertezza in quella voce gelida e silenziosa.
Camminai lentamente, fino a portarmi alle spalle dell'ombra, solo allora l'uomo percepì la mia presenza, si voltò con un sussulto e mi fissò a bocca aperta, strizzando gli occhi nell'oscurità per distinguere il mio volto.
"Chi è là?" urlò in preda al panico.
Non risposi, mossi un passo avanti.
"Chi c'è?" domandò ancora, trattenendo a stento l'istinto di darsela a gambe. "Sono… sono armato, niente scherzi!" minacciò ancora.
Anche chi non avesse condiviso la mia natura si sarebbe reso conto del senso di terrore nascosto in quelle parole, dietro i movimenti dell'uomo che prese ad indietreggiare nell'oscurità.
Lo seguii con calma. Ammirai il trucco bianco sul suo viso, mi domandai se io stesso apparissi così luminoso nell'oscurità, se i miei occhi risaltassero altrettanto, circondati da una pelle bianca quanto una maschera di cerone.
Un fantasma?
Colsi un pensiero incontrollato e sorrisi dentro di me all'idea.
Sì, un fantasma. Ero un fantasma.
Sono un fantasma: ciò che resta di un uomo morto un secolo fa.
"Chissà… forse sono proprio un fantasma." bisbigliai divertito, con una voce baritonale che non mi apparteneva.
Mi avvicinai di un altro passo.
"Perché lo hai fatto? Perché l'hai uccisa?"
Percepii all'istante il gelo farsi strada tra i suoi pensieri.
"Ucciso? Io non ho fatto niente, io non c'entro… io… chi sei?"
"Io sono te. Siamo entrambi mostri."
Non ebbe il tempo di prendere neppure il fiato, mi avventai su di lui in silenzio; non urlò, non gemette, scivolò al suolo sotto il mio corpo, il sangue incandescente nelle sue vene mi bruciò la pelle.
Nel vicolo regnava il più assoluto silenzio, le voci concitate della piazza sterrata in cui era stato allestito il circo, ormai appartenevano ad un altro mondo, non raggiungevano le mie orecchie, nonostante i miei sensi, non raggiungevano la mia mente; tutto ciò che percepivo era il roboante battito del cuore della mia preda.

Non mi conoscete.
Non mi vedete.
Pensate che io sia divertente.
Pensate che io sia felice perché il mio sorriso rosso brilla come sangue.
Non sapete cosa provo.
Non sapete come amo.
Ti amo.
Perché mi ami?
Perché sei divertente.
Divertente…
Il mio dolce pagliaccio.
Ti odio, non sai nulla di me.
Ti odio, non capisci nulla di me.
Ti amo, è questo che non capisci, è questo che non riesci a vedere.
Lui ti guarda, ti desidera.
Non mi importa, io amo te.
E' la verità?
Ti odio.
Perché sorridi?
Sto piangendo.
Sto soffrendo, perché non lo capisci? Perché tutti mi guardate ridendo?
Non ti lascerò mai a lui!
Non dipende da te.
Non riderai mai più di me. Nessuno riderà mai più di me.

La sua vita mi entrò nella mente, pensiero dopo pensiero, ogni emozione, ogni ricordo mi attraversò lentamente, scorrendo come sapone liquido, raggiungendo ogni più remoto angolo della mia coscienza.
Mentre gli squarciavo la gola mi afferrò la nuca.
"Mi vedi… tu mi vedi…"
Assorbii il suo sangue fino a che la presa delle sue dita non venne meno, il battito del suo cuore si affievolì per zittirsi insieme all'ultimo sospiro.
Mi alzai lentamente, non ebbi il coraggio di aprire gli occhi; rimasi immobile mentre il liquido incandescente mi scivolava in tutto il corpo, portando calore dove dalla mia morte non regnava altro che gelo.
Non mi conoscete, non vedete al di là del mio trucco.
La voce dell'uomo che avevo appena ucciso mi risuonava ancora nella mente, come se i pensieri non si fossero esauriti assieme ai battiti del suo cuore.
Ero capace di amare ma nessuno lo avrebbe mai notato.
Se solo qualcuno mi avesse visto, se solo qualcuno mi avesse riconosciuto.
Lo ascoltai ad occhi chiusi, rendendomi ben presto conto che la voce giungeva dalle profondità della mia coscienza.
Avevo assimilato la sua vita a tal punto?
Non ho mai saputo rispondere a questa domanda; ascoltai a lungo le sue confessioni, condivisi l'odio che aveva provato, l'amore che aveva tenuto nascosto, la rabbia, la sua gioia reale, quella recitata per la felicità degli innumerevoli volti sconosciuti che aveva incontrato nell'infinito vagabondare da una piazza all'altra.
La finzione era il fondamento della sua vita.
Dall'infanzia si era nascosto dietro il cerone, dietro il naso di celluloide, sotto i vestiti sformati e cascanti; dal giorno in cui si era unito a quello sgangherato gruppo di nomadi, lasciandosi alle spalle una vita di stenti e violenze aveva finto che il passato non esistesse. Lo avevano accolto come un bambino spiritoso e divertente, non gli avevano fatto domande, lo avevano lavato e sfamato, gli avevano poi affibbiato il ruolo di giullare. Nessuno aveva mai visto l'abisso nascosto dietro la giovialità. Nessuno eccetto me.
Avevo visto l'oscurità dietro il volto candido, avevo sentito i suoi pensieri più profondi, la disperazione.
La finzione lo aveva distrutto.
La maschera aveva nascosto e sigillato la sua anima, marcita poco per volta, schiacciata dal peso della menzogna.
Molti morti erano rimasti disseminati lungo la sua strada, uccisi dal suo vero io, abbandonati nei vicoli deserti, gettati nei fiumi bui, dimenticati come l'orrore della sua infanzia, nascosta tanto in profondità da non affiorare neppure nella mia mente. Percepii solo la paura e la disperazione che l'avevano accompagnata.
Solo in quell'occasione l'odio si era riversato su di una persona conosciuta, su di una persona amata che presto lo avrebbe abbandonato, o così credeva e, prima di soffrire, prima di essere lasciato indietro, aveva agito, aveva fatto in modo che quella donna rimanesse sua per sempre, le aveva preso la vita, così come io avevo presa la sua.
In quell'istante compresi appieno il senso delle sue azioni, era qualcosa che avevo vissuto in prima persona.
Prendere la vita altrui, assorbirla dentro di sé e non lasciarla più andare.
In fondo cosa fanno gli esseri come me?
Succhiano la vita ma non possono realmente viverla. Guardano lo scorrere delle altrui esistenze e quando tentano di afferrarle le vedono scivolare tra le dita come sabbia inafferrabile.
Ecco cosa siamo.
Parassiti mai sazi, costretti ai margini dell'esistenza.
Ombre che si muovono silenziose appena fuori dal campo visivo, che cercano di insinuarsi nel mondo vero, nel flusso del tempo che scorre inarrestabile ma vi affondano miseramente, come sassi lanciati nel letto del fiume in piena.
Vagabondi che passano da una città all'altra, che a malapena incrociano gli sguardi curiosi di innumerevoli sconosciuti.
Voleva solo questo: essere vivo, sentirsi reale, sgusciare fuori dall'ombra e vivere ma era troppo tardi, la finzione lo aveva logorato, il sorriso agghiacciante gli si era impresso sul volto e nell'anima, vermiglio come il sangue delle vittime che avevano segnato il suo percorso.
La finzione aveva risvegliato il mostro.
Mi decisi, sollevai le palpebre e lo vidi.
Gli occhi spalancati riflettevano il cielo stellato, il trucco sul suo volto era sbavato ma il sorriso rosso era ancora lì, sembrava volesse sbeffeggiarmi, ridere di me, ridere della mia debolezza.
Sapevo che quel surrogato di vita che mi illudevo di poter percepire scorrere nelle mie vene, l'avevo sottratta a lui, a quella smorfia, a quel ghigno, a quel dolore.
Mi accucciai accanto al cadavere e rimasi a lungo a fissarlo mentre il calore si faceva prepotentemente strada nel mio corpo; tentavo di riacciuffare l'eco dei suoi pensieri ma non sentii più nulla, ogni voce attorno a me si era spenta ero piombato di nuovo nel silenzio, nella notte senza fine che è la nostra unica vera dimora.
Non so quanto tempo trascorse, quando mi alzai non avevo le ginocchia intorpidite ma del resto non le avrei avute neppure se fossi rimasto in quella posizione per giorni; mossi pochi passi quando il mio piede si fermò accanto a quella che a prima vista mi sembrò una pallina rossa. L'afferrai, la strinsi tra le dita e scappai.
Corsi al limite della mia velocità, lasciai la città, raggiunsi il bosco ed attesi.
Attesi finché non giunse l'alba, ripensando a quanto mi era capitato, a ciò che avevo fatto, assaporando per la prima volta, nella mia seconda esistenza, il senso di sazietà.
Erano scomparsi il vuoto, la sete ed il dolore, rimanevano solo la forza ed il calore, mi sembrava addirittura di poter sentire di nuovo il mio cuore battere ma era solo illusione.
Mi ritrovai a fissare il finto naso di celluloide con sguardo attento, come a volerne cogliere i segreti più reconditi e mi resi conto che in effetti la mia vista era migliorata ulteriormente, ne coglievo particolari invisibili, minuscole increspature nella vernice rossa, imperfezioni sulla superficie.
"Edward."
Alzai la testa di scatto, sussultai come un essere umano colto di sorpresa, non lo avevo sentito arrivare, non avevo percepito la sua presenza; il potere che mi scorreva dentro mi aveva distratto, i miei nuovi sensi erano talmente affinati che mi stavano sopraffacendo al punto da non riuscire più a comprenderli.
Fissai Carlisle intensamente lui mi ricambiò; in un istante orrore, dolore e dispiacere si susseguirono nei suoi occhi color ametista ed allora sentii nuovamente i suoi pensieri, vidi me stesso attraverso il suo sguardo, vidi il sangue far brillare le mie iridi.
Mi voltai ed inspirai profondamente l'aria dell'alba.
"Non capisci, Carlisle, non è così."
"Io non ho detto nulla, Edward." mormorò l'uomo che mi aveva ridato la vita ma percepii subito i suoi reali pensieri; in qualche modo la sua voce aveva spalancato nuovamente le porte serrate della mia mente.
Potevo sentirlo chiaramente, come se mi bisbigliasse all'orecchio e lo sapeva; mi parlava, mi consolava, mi dichiarava tutto il suo affetto, mi assicurava che mi sarebbe rimasto accanto, nonostante il mio errore, poiché si sentiva in colpa per avermi abbandonato, per avermi lasciato solo nel momento del bisogno per…
"Adesso basta! Smettila!" ruggii, urlai e tornai a fissarlo, ora con una smorfia orribile a deturparmi il viso. Sentii lo stupore nella sua mente ma non mostrò alcun cambiamento nell'espressione, non indietreggiò, non sussultò, vidi i suoi muscoli tendersi.
"Edward, sto solo cercando di…"
"Non ne ho bisogno, Carlisle. Non devi consolarmi." lo interruppi, sapevo cosa avrebbe detto, non avevo motivo di sentirlo nuovamente.
"Edward, hai…"
"Sì, ho ammazzato quel bastardo e allora? Nessuno piangerà la sua morte, Carlisle, nessuno! Ho fatto un favore al mondo." mi stupii delle mie stesse parole, non mi ero mai comportato così, non gli avevo mai risposto tanto sgarbatamente ma la forza che mi scorreva nelle vene mi rendeva sicuro e terribile. Ero inebriato dal mio potere ed ero certo di essere nel giusto.
"L'ho sentito, Carlisle, è come dicevi tu, ho sentito i suoi pensieri, ho visto tutta la sua vita mentre bevevo il suo sangue. Era un mostro, aveva ucciso decine e decine di persone ed avrebbe continuato a farlo. Aveva manomesso le spade, è colpa sua se quella donna è morta. Avrebbe ucciso ancora ma lo ho fermato."
Ne ero convinto, avevo visto tutto ciò che la sua mente, così simile alla mia, nascondeva ed ero arrivato ad un'unica conclusione: guidato dalle mie capacità, avrei potuto assecondare i miei istinti peggiori, pur facendo del bene.
"Non è morta. La donna è salva, ferita gravemente ma salva." lo disse con uno strano disagio e compresi immediatamente cosa lo preoccupava.
Mentre lui salvava una vita, io ne sottraevo un'altra.
Ecco la nostra differenza ed ecco come potevo tentare almeno in parte di emularlo.
Non avevo altra scelta, non ero come Carlisle, non avrei mai avuto la sua forza, il suo spirito ed ora che la sua anima mi era così chiara e splendeva tanto pura davanti ai miei occhi, sapevo con certezza che non sarei mai stato come lui. Ero un debole ma nella mia debolezza potevo fare del bene, potevo salvare delle vite, dirigere il male che ero costretto a perpetrare e limitarlo.
"Carlisle, è l'unico modo che ho per vivere."
"Non è così, Edward, puoi farcela, io so che puoi…"
"Fingere. E' questo che vuoi da me? Vuoi che io finga? Vuoi che indossi una maschera?" gli porsi il naso finto che avevo sottratto alla mia vittima.
Lo afferrò pur non smettendo un istante di osservarmi, mi guardava, fissava i miei occhi rossi e si struggeva nel rimorso.
"Non è colpa tua." mormorò, mi feriva sentirlo ferito e sapevo che era la mia debolezza ciò che lo faceva soffrire.
"Io non sono come te." sussurrai.
Sospirò e mi posò una mano sulla spalla con fare umanamente e deliziosamente paterno.
Mi tirai indietro gelidamente, la mia espressione non cambiò, il mio tono di voce non tremò.
"Io non voglio essere come te, Carlisle."
Sussultò.
Un'altra reazione umana. Come poteva non rendersene conto?
Io non ero più umano e non lo sarei mai più stato, non avrei mai potuto avere un'emozione altrettanto viva.
Per colpa mia ricordò suo padre, rammentò il modo in cui aveva tentato di prendere le distanze dagli insegnamenti folli e dispotici del vecchio Reverendo Cullen, per un istante ebbe il timore di essersi comportato con me come aveva fatto lui, temette di avermi obbligato, istigato. Approfittai subdolamente di quel dubbio.
"A che pro, Curlisle? Perché soffrire così quando la nostra vita potrebbe essere molto più semplice? Prima mi hai imposto una natura, ora mi impedisci di viverla pienamente. Perché? Perché devo continuare a soffrire, quando tutto potrebbe essere più semplice?"
"Perché la vita non è semplice, Edward, la vita è sofferenza."
Riecco il reverendo.
"Noi non siamo vivi, Carlisle. Io sono morto quando tu mi hai ucciso."
Riecco il mostro.
Si zittì ma potei sentire chiaramente il dolore che gli attraversò la mente e che colpì anche me.
Seguì il percorso del naso finto che scivolò lento dalle sue mani per rimbalzare sul terriccio bagnato di rugiada con tonfi che alle mie orecchie apparvero boati insopportabili.
Come avevo potuto, dopo tutto quello che aveva fatto per me.
Mi aveva salvato la vita.
Stavo morendo, non avrei avuto scampo senza le sue cure.
Oppure mi aveva ucciso?
Mi aveva condannato ad una non vita, avvolto dall'oscurità, costretto a combattere in ogni mio dannato istante contro l'istinto che mi spingeva ad uccidere a mia volta.
La sua paura più grande dipendeva da questo dubbio, temeva di avermi distrutto, temeva che lo odiassi ma non lo odiavo.
Odiavo me stesso, odiavo la mia debolezza, odiavo la certezza che non sarei mai stato come lui e mi nascondevo dietro la sua ombra, così come il pagliaccio dietro la sua maschera.
Dovevo trovare me stesso e comicamente cominciai ricalcando la strada di un clown assassino. Lasciare la casa, viaggiare in cerca di luce, in cerca di prede.
E' davvero questo quello che vuoi?
La voce di Carlisle mi raggiunse la mente, non parlava, ormai aveva compreso il mio potere ed incredibilmente non lo temeva, non si vergognava, non tentava di nascondermi nulla.
Eravamo così diversi.
Anuii tristemente.
"Non ce la faccio, Carlisle. Io non sono abbastanza forte, io…"
E' solo troppo presto, Edward. Datti tempo, ho fiducia in te, so che hai la forza…
"Non voglio. Mi sento più forte, sazio come mai sono stato prima e non voglio tornare indietro. Ora che so com'è il sangue umano, ora che conosco questa sensazione non potrei mai farlo."
"Ucciderai ancora." non era una domanda. Pronunciò quella frase con calma, come una semplice constatazione.
"Ho ucciso quell'uomo e non mi sento in colpa, Carlisle. Era un mostro, era come me e la sua morte è stata giusta. Una salvezza per coloro che avrebbero sofferto ancora a causa sua ed una liberazione per lui stesso; non si sarebbe mai liberato dell'oscurità e non l'avrebbe mai potuta controllare, non dopo tanti anni trascorsi a nasconderla. Capisci Carlisle?"
Capiva ma non rispondeva.
"Io posso ancora farcela, posso dare sfogo all'oscurità ma anche controllarla.
Ho trovato un'altra via, posso distinguere i mostri, sentirli, posso sceglierli e limitare il male." ne ero così ingenuamente convinto.
Non è così facile, figlio mio, vorrei che tu lo vedessi, vorrei che non dovessi soffrire commettendo un simile errore.
"Non è un errore, è l'unico modo, è la mia strada."
Mi voltai, pronto a scappare, pronto a lasciarlo.
Un pensiero mi colse alla sprovvista, un pensiero che mi lasciò un senso di calore molto più intenso del sangue che ancora mi scorreva nel corpo, un'emozione dimenticata che mai pensavo di poter riacquistare.
"Anche io…" bisbigliai in un sospiro impercettibile, come temendo che la mia voce potesse infrangere quel sottilissimo velo di cristallo ricomparso per un istante nel vuoto che era occupato un tempo dalla mia anima.
Lasciai scivolare via la maschera e scappai, sparendo nella luce opaca dell'alba, inseguendo la mia oscurità, il mio incubo; guidato dalla sete di sangue e dal bisogno di essere finalmente me stesso.

(FINE)
  
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