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Autore: Gan_HOPE326    15/03/2009    6 recensioni
Un pomeriggio di giochi nei campi di Konoha, una sfida, un terribile incidente.
Orochimaru e Tsunade, due bambini che diventeranno leggenda, e il giorno che cambierà per sempre il loro destino.
Genere: Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Orochimaru, Tsunade
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Snake, snake, snake I am

Questa one-shot ha una gestazione piuttosto tormentata. L’ho cominciata a scrivere più di un anno fa, con l’intenzione di farne il primo episodio di una “trilogia del male” che avrebbe trattato i personaggi più controversi di Naruto (le altre due storie dovevano riguardare Itachi e Gaara). Poi sono successe diverse cose, il progetto è stato abbandonato e anche questa storia è rimasta a metà. Non l’ho mai dimenticata del tutto, però, e attendevo l’occasione di completarla. L’ho trovata in questi giorni. Non credo che scriverò mai le altre due, ma questa storia almeno l’ho finita. E’ un racconto con una sorta di messaggio filosofico ma, prima di ogni altra cosa, è un racconto dell’orrore. Quindi, volete un consiglio? Alzate il volume delle casse, mettete in playing list “Orochimaru’s theme” e “Orochimaru’s fight”, o in alternativa una qualunque altra canzone sufficientemente inquietante e preparatevi ad avere paura XD! Leggete e commentate!

 

 

 

 

 

 

 

Snake, snake, snake I am

di Gan_HOPE326

 

Certe cose non dovrebbero succedere.

Fuori il sole non era ancora tramontato, ma dentro il crepaccio sembrava fosse già notte. Già da tanto l’ultimo raggio di luce era sparito, divorato dai bordi delle alte pareti di roccia dura e spoglia, e fredda. In mezzo c’era appena un metro di spazio, o forse poco più. Rannicchiata addosso alla pietra grigia, la bambina aspettava. Chissà cosa, poi. Non aveva davvero una speranza. Accanto a lei, il cadavere di quello che era stato un suo amico. Orridamente pallido; gli occhi stretti in uno spasmo di morte; capelli neri e setosi; le labbra contratte e ritirate a mostrare denti bianchissimi e aguzzi.

La notte scendeva dentro il crepaccio, ora, e il buio ingoiava ogni cosa. La luna era piena. Con bianca luce faceva risplendere di oro diaccio la chioma bionda della bambina, e rendeva ancor più spaventoso l’innaturale biancore del piccolo corpo che giaceva al suo fianco.

Intorno, l’oscurità aveva occhi e bocche e denti. La bambina li sentiva – li intuiva, almeno. Sapeva che erano lì. Aspettava, forse la salvezza, forse la morte. Tremava di freddo. Lottava contro il sonno che cercava di abbassarle le palpebre. Ogni tanto, versava una lacrima. Poi la costringeva a tornar su per la strada da cui era uscita. Ricordava lo stupido gioco che li aveva fatti finire lì e che era costato la vita al suo amico, e probabilmente anche a lei.

E pensava che, no, certe cose non dovrebbero succedere.

 

 

-         Guarda qua, Tsu. Che ne dici?

-         Uhh… niente di speciale.

Il bambino fece una smorfia di disappunto. Sapeva quando lei lo faceva apposta per farlo irritare, a dire così: e questa era una di quelle volte. Non la sopportava proprio.

-         Lo sai? – aggiunse l’altra, a maggior scherno – Sei buffo, Oro.

La risposta di Orochimaru fu solo uno sguardo infuriato. Ma non sortì l’effetto desiderato: invece di esserne intimorita, Tsunade scoppiò a ridere fragorosamente. La colpa era tutta dei capelli. I lunghi capelli neri di Orochimaru di solito lo facevano apparire carino e un po’ misterioso, ma adesso che lui era messo in quella posizione particolarmente scomoda, i piedi che aderivano a un muro di pietre e malta e il corpo parallelo al terreno, a mezzo metro di altezza, non facevano altro che ricadergli davanti al viso, trasformando il suo aspetto in quello di un curioso cagnolone dal pelo troppo cresciuto. Stufo di essere preso in giro, il bambino saltò giù e tornò in piedi, ad obbedire alle comuni leggi della gravità.

-         Dici così solo perché sei invidiosa, Tsu. Tu questa cosa non la sai fare, non è vero?

-         Mica mi serve. – commentò quella, noncurante. – E’ un trucchetto inutile.

-         Scema. Questa è la base di tutte le tecniche ninja. Si tratta di saper controllare il chakra.

-         Che noia, Oro. Stare con te è peggio che andare a scuola.

Scappò via, allontanandosi dal muro e correndo verso i campi aperti. Correva veloce e sicura, poggiando appena i piedi a terra. La sensazione dell’erba umida sotto i piedi nudi era qualcosa che ricordava fin da quando aveva imparato a camminare. Non amava stare al chiuso; solo con il cielo come tetto si sentiva davvero a casa. Andando su e giù per le campagne, saltando, arrampicandosi, sbucciandosi le ginocchia, era cresciuta forte, molto più degli altri bambini della sua età. Correva, ma badava a non andare troppo in fretta, perchè il suo amico riuscisse a seguirla. Non voleva che lui si offendesse troppo; sapeva quanto poteva tirare la corda con lui prima di farlo arrabbiare sul serio.

E, sì, un po’ invidiosa lo era. Sapersi arrampicare in quel modo poteva essere molto utile. Per scappare dalla finestra durante le lezioni, ad esempio.

Quando si accorse di aver distanziato Orochimaru abbastanza, e lo vide arrancare un po’, col fiatone, per via di quel suo corpo gracile, decise di attenderlo. Si gettò sdraiata sul terreno e staccò coi denti un filo d’erba da masticare. Poi, gli occhi al cielo luminoso del mattino, si mise ad osservare oziosamente l’azzurro che dormiva immobile lassù. C’era vento, sottile, fresco. Appena appena.

-         Mi pare che non ti serva a molto, il tuo kakra. – disse la bimba, sorridendo con gli occhi chiusi. – Non riesci ancora a vincermi nella corsa.

-         Si dice chakra. – fece Orochimaru, ancora ansante per lo sforzo.

-         E’ lo stesso. Sdraiati qui. E’ bello.

Di malavoglia, il bambino si sedette accanto a lei. Stava accovacciato, le ginocchia davanti al volto. I capelli gli cadevano un po’ sugli occhi. Era imbronciato e pensieroso.

-         Quella cosa che hai fatto sul muro poco fa. – cominciò Tsunade.

Orochimaru sorrise trionfante. Allora un po’ le interessava!

-         Quella cosa. Sapresti rifarla anche in una situazione più difficile?

-         Non cambia niente. – spiegò il bambino, con aria saputa. – Uso il chakra per aderire alla parete, e so farlo benissimo. Solo i genin ci riescono, di solito, ma io…

Tsunade la tagliò lì:

-         Va bene, va bene. Sbruffone. Potresti farlo su un albero?

-         Direi di sì. – disse seccamente Orochimaru, offeso per l’interruzione di prima.

-         E in una situazione pericolosa? Voglio dire, veramente pericolosa?

-         Certo che sì.

-         Sei così sicuro di te? Non avresti paura?

-         No.

Il bambino ebbe un lampo negli occhi e si rialzò bruscamente. Cominciò a camminare svelto attraverso i campi, verso la vallata che si stendeva poco a est. Tsunade lo seguì, incuriosita.

-         Dove vuoi andare?

-         Vedrai.

Andarono avanti per una decina di minuti. Passo dopo passo, Tsunade si faceva più esitante. Capiva dove stavano andando, e non le piaceva. Accennò a rallentare. Orochimaru andava avanti deciso come non mai; per non restare indietro, la bambina fu costretta a tenere il suo passo. Provò a parlare:

-         Lascia stare, Oro. Non andiamo . E’ un brutto posto.

-         Hai paura. – commentò l’altro, senza nemmeno voltarsi, incatenando un passo dopo l’altro.

-         Non ho paura. Ma è un brutto posto. Lo sai che è vietato andarci. Io non ci sono mai andata. Laggiù ci sono quelle cose. Dovresti saperlo, no? Voglio dire, ricordi la filastrocca.

Tsunade prese un respiro profondo, poi recitò, con una voce flebile, distante, intonata secondo note che ricordava fin da quando la sua memoria riusciva ad arrivare:

 

         Chi sono io che striscio,

         tra sassi e zolle sguiscio?

         Sibilo, scatto, scivolo,

         la morte zitta! Il nero rivolo!

         Serpente, serpente, serpente io sono!

         Serpente, serpente, serpente io sono!

 

Orochimaru rise in un modo strano. Una risata di scherno, ma non serena né giocosa: era costellata di piccoli sussulti qua e là, un sussulto per ogni battito di troppo del suo piccolo cuore.

-         Fifona. – disse, non senza che la sua voce tremasse un istante.

I prati pianeggianti, davanti a loro, scendevano adesso in un leggero declivio. La pendenza era appena percettibile. Più avanti, tornavano a salire, e si sarebbe detto che non ci fosse nulla di insolito nel terreno di quel luogo. Perciò era pericoloso, e ai bambini si proibiva di andarci. In realtà, nel punto più basso del pendio, esattamente dove il terreno cambiava inclinazione, si apriva una fessura, una spaccatura profonda, stretta e ripida. Un crepaccio lungo quasi cento metri, profondo una decina e largo solo un paio, con pareti di roccia verticali e irregolari, rigate da solchi e sporgenze che le rendevano ruvide come il volto di un vecchio mostro. Ma non era solo la paura di precipitare all’improvviso senza avvedersi del pericolo a tenere i più lontani da quei luoghi. La Rupe Hebi, così l’avevano chiamata, aveva qualcosa di raggelante. Forse quel suo aspetto obliquo, sinistro per via delle rocce nere, o quel suo essere così fuori posto, perfida intrusa nel paradiso di quei luoghi altrimenti perfetti. Doveva essere per questo che innumerevoli serpenti avevano eletto quel luogo a propria dimora, e ora brulicavano tra le crepe delle pareti nere. Esseri infidi e traditori avevano scelto la più infida e traditrice delle tane. Il simile ama il simile.

Giunti sull’orlo di quella forra, Orochimaru e Tsunade restarono paralizzati, a guardare di sotto. Dalle profondità della gola l’eco incupita del soffiare del vento risaliva come un lamento antico e malefico. La bambina fu scossa da un brivido, e distolse lo sguardo.

Orochimaru, invece, esitò un momento; poi mosse un passo, deciso, il suo intero corpo si ribaltò oltre il ciglio del precipizio, sparì alla vista.

-         ORO! – strillò Tsunade.

Sentì solo un respiro affannato e una risatina soffocata, ma di sollievo. Poi:

-         Tutto a posto, Tsu. Guarda pure.

Era sotto. I piedi tenevano perfettamente, illuminati da un impercettibile bagliore azzurrino, e aderivano bene alla roccia della Rupe. Il bambino restava immobile, in una condizione paradossale, sospeso in orizzontale attraverso la fenditura. Era così stretto, il dirupo, che allungando un braccio Orochimaru sarebbe quasi riuscito a toccare l’altra parte. Si voltò verso l’alto, a salutare Tsunade con uno sguardo trionfante. Voleva assaporare il proprio momento di gloria, ma l’altra non gli diede soddisfazione. Non dimostrava affatto di provare invidia o irritazione; era solo immensamente sollevata. Grata.

-         Femmine. – sospirò Orochimaru, poi abbassò lo sguardo. Dritto nell’abisso.

Era nero. Nero come nient’altro avesse mai visto; né la notte né i suoi scurissimi capelli. Nere le rocce intorno; nero il buio, più nero però, e ogni tanto, silenzioso, incerto, come l’ombra di un fantasma, un movimento nero, da qualche parte. Un nero strisciare. Nero su nero.

Dal basso risalì un soffio di aria fredda. Gelida. Investì in pieno il volto di Orochimaru, che non riusciva a distogliere gli occhi, catturati da una specie di magnetismo, da un incantesimo, ipnotizzati. Guardava ancora giù. Dritto. Sentiva il cuore in gola; e gli piaceva.

-         Cosa succederebbe se cadessi ora? – si domandò a bassa voce, e:

-         Morirei. – si rispose subito dopo.

-         Sì. – soffiò con voce debole Tsunade, che sentiva di dover trattenere persino il respiro, perché quell’equilibrio non si spezzasse.

-         Sì. – ripeté il bambino.

Morire. Strano pensiero. Morire doveva essere nero e misterioso come quell’abisso.

Strano pensiero. Orochimaru si crogiolò per qualche secondo in quella macabra fantasia, con gli occhi chiusi, assaporandone l’angosciosa bellezza: buio, e silenzio, e nero, per l’eternità.

-         Oro! – gridò improvvisamente Tsunade. – Attenzione!

Con un suono secco, la roccia si crepò, si ruppe, di sotto i piedi del bambino. D’istinto Orochimaru reagì cercando di camminare, ma ancora non ci riusciva bene, e allentò la presa col chakra. I piedi si staccarono dalla parete. Tutti i pensieri strani fuggirono via in un istante; lui voleva vivere, vivere, maledizione! Doveva girarsi per aggrapparsi a qualche sporgenza, ma non ci riusciva, non a mezz’aria.

-         Tsunade! – chiamò con un grido.

-         Arrivo!

La bambina si gettò in avanti, riuscì ad afferrare le caviglie di Orochimaru, ma improvvisamente si ritrovò sbilanciata. Si era spinta troppo oltre l’orlo della roccia. L’altro se ne accorse e urlò, inseguendo un’ultima insensata speranza:

-         Il chakra, Tsunade! Devi riuscire a fare come me! A portarlo ai piedi! Attaccati alla parete!

-         Io non so nemmeno cos’è, questo kakra. – disse con un filo di voce la bambina.

Non c’era più tempo. L’azzurro del cielo non era più dappertutto; era diventato una lama sottile, sulle loro teste, che si stringeva sempre di più. L’aria correva veloce sui loro corpi, faceva svolazzare i vestiti e i capelli. Stavano cadendo.

Giù.

Giù dalla Rupe Hebi.

 

-         Diventeremo fiori.

Erano passate ormai tre ore da quando i due bambini erano precipitati sul fondo del crepaccio – non che loro lo sapessero con esattezza. L’unica cosa di cui erano sicuri era che si trovavano laggiù da tanto, tanto, tempo.

La Rupe era certamente molto profonda, ma era anche stretta, e questa era stata la loro salvezza. Anche se non erano riusciti a fermarsi, Orochimaru, usando il chakra e toccando ora una, ora l’altra parete, aveva in qualche modo rallentato la loro caduta. Erano stati sbatacchiati tra le rocce come bambole di pezza, avevano preso parecchi brutti colpi, ma erano arrivati in fondo ancora vivi.

Tsunade era quasi incolume, fatto salvo per qualche contusione, un taglio sulla fronte e forse qualche costola incrinata. Orochimaru, invece, aveva una gamba rotta. Altrimenti avrebbe anche potuto provare a scalare le pareti, se non portandosi dietro la compagna, almeno da solo, per andare a chiedere aiuto. Ma conciato così non poteva fare nulla.

Avevano cominciato a gridare, insieme, in coro, e sentito come il suono di quelle urla rimbombava tra le strette pareti. Chissà se poteva uscire da lì, o se le loro voci avrebbero continuato a rimbalzare all’infinito in quello spazio angusto senza mai giungere in superficie. Comunque, nessuno era accorso in loro aiuto. E come poteva essere altrimenti? Nessuno si avvicinava mai alla Rupe Hebi.

Orochimaru era stato il primo a stancarsi. Mentre Tsunade continuava ad urlare, lui era sprofondato nel silenzio ed era rimasto immobile, lo sguardo fisso, vuoto, il corpo abbandonato contro la roccia a cui si appoggiava.

-         Diventeremo fiori. – mormorò.

Tsunade lo udì e tacque a sua volta. Si voltò a guardarlo, colse un suo sguardo, breve e oscuro, e sentì un brivido gelido che le sconvolgeva il corpo. Aveva imparato a conoscere questo lato del suo amico. Ogni tanto Orochimaru cambiava; diventava strano e triste. Faceva discorsi contorti, deprimenti, spaventosi. Tsunade non riusciva a capirlo sempre, quando parlava in quel modo: sapeva solo che sentirlo le metteva addosso una paura tremenda. L’unica cosa che percepiva era che quelle parole avevano in sé un che di terrificante, e che allo stesso tempo erano in qualche modo vere. Chissà, forse era proprio questo ad affascinarla di più in quello strano bambino dagli occhi neri e un po’ troppo stretti, questo suo essere così strano, così oscuro; forse in realtà le piaceva, quel brivido che solo accanto a lui, solo ascoltando lui, le saliva subdolo per la schiena.

Ma non ora.

-         Diventeremo fiori. – ripeté ancora il bambino.

Tsunade cercò di sorridere.

-         I fiori sono belli. – disse.

Si mise in piedi e fece una giravolta, lasciando ondeggiare in tondo i suoi capelli biondi. Rise.

-         Io sono un girasole.

-         I fiori sono inutili. – sussurrò Orochimaru – I fiori sono belli solo per un giorno, e poi appassiscono e muoiono. E’ inutile.

-         Non dire così, Oro.

Tsunade si sentiva sempre più inquieta. A ridere non ci riusciva più.

-         I fiori cadono e muoiono e marciscono. A cosa serve esistere, se è per così poco? Noi moriremo.

-         Piantala, Oro. Non è divertente.

-         Noi marciremo.

-         Smettila, per favore, davvero.

-         Diventeremo terra fertile; cadranno semi dall’alto; pioverà; e allora diventeremo fiori.

-         BASTA! – gridò Tsunade, con un singulto.

Non riuscì più a trattenere le lacrime e si rannicchiò su sé stessa, affondò la testa tra le ginocchia, pianse. Mugolava sommessamente. Non era né dolore né paura, il suo. Non piangeva perché temeva di non uscire mai più da quel crepaccio. Piangeva perché aveva improvvisamente capito, che, anche se fosse uscita, non sarebbe cambiato assolutamente nulla. Aveva perso qualcosa, per sempre. D’ora in poi, ogni volta che avesse visto un prato in fiore, non avrebbe più potuto provare la gioia spensierata di un tempo. Ogni petalo le avrebbe sussurrato, subdolo, quella stessa storia di fine e marcescenza, l’avrebbe ammonita ripetendo maligno “tu devi morire”. Non avrebbe mai potuto metterli a tacere. Anche se sei un bambino, quando capisci una cosa del genere non la scordi più.

Orochimaru tese una mano a carezzare la sua amica e le sollevò una ciocca di capelli.

-         Scusami, Tsu. – bisbigliò, mortificato – Non volevo. Scusami.

-         STA’ ZITTO! IO TI ODIO! SPARISCI! VATTENE! – gridò in risposta l’altra, sollevando bruscamente il viso rigato di lacrime.

Orochimaru scosse la testa, accennando con una mano alla gamba fratturata. Già lo sforzo di avvicinarsi alla compagna l’aveva costretto a caricare troppo peso su quell’arto, e il bambino faticava a nascondere il dolore. Tsunade non rispose nulla, ma si voltò bruscamente, non voleva più nemmeno guardarlo, non voleva più vedere i suoi occhi, saltò in piedi e se ne andò lei. Si allontanò di pochi metri, ma c’era ombra laggiù, in fondo al crepaccio, e fu come inghiottita dal nulla. Chissà, forse era sparita davvero.

-         Scusami, ti prego! Mi dispiace! Ho detto una cosa stupida!

Con uno sforzo delle braccia, Orochimaru cercò di trascinarsi in avanti, nella stessa direzione di Tsunade. La gamba rotta gli gridò di fermarsi con una fitta atroce, ma lui la ignorò. Riuscì a muoversi di qualche centimetro.

-         Vedrai che non moriremo! Sono sicuro che verranno a salvarci! Ci troveranno! Non ci sono poi tanti posti in cui cercare. Ci troveranno.

Il piede inerte si incagliò tra due rocce. Il dolore aumentò ancora e zittì Orochimaru, che ora doveva stringere i denti per impedirsi di urlare, non poteva parlare. Provò ad avanzare, ma il piede era bloccato.  Devo raggiungerla, pensava, e cominciò a tirare, ignorando il dolore.  Tirò ancora, e ancora, e ancora.

Meglio che la smetti, piccolo saggio, o va a finire che quella gamba te la stacchi.

-         Chi ha parlato? – gridò Orochimaru, voltandosi di scatto – Chi sei?

Ho parlato io. Quanto a chi sono, questa è forse una risposta più complicata, piccolo saggio.

-         Perché mi chiami così? Saggio?

Perché lo sei. Lascia perdere quella ragazzina lì. E’ stupida e non capisce: e ciò che capisce si rifiuta di accettarlo, illudendosi così di poterlo cambiare. Tu sei diverso. Tu capisci davvero. I fiori, che splendida metafora. Io stesso non avrei saputo trovare di meglio. Sì, hai capito, hai capito molto a fondo, nonostante la tua tenera età. Ci sono vecchi decrepiti che non hanno nemmeno sfiorato la profondità della tua comprensione della vita. Della sua… inutilità.

-         Dove sei? Fatti vedere!

Sono qui, piccolo saggio, giusto accanto alla tua mano. Abbassa lo sguardo, mi troverai.

Il bambino guardò la propria mano destra, poggiata tra le rocce, vicino a una crepa della roccia. Vide qualcosa strisciarle vicino. Avrebbe dovuto avere paura, ma non ne ebbe.

-         Sei un serpente? – sussurrò.

Un serpente è forse un po’ poco. Tu sei semplicemente un piccolo uomo? E’ questo che vuoi essere? Solo un uomo? Serviti pure; ma non credo ti basti.

L’animale, piccolo, bianco, strisciò tra le dita del bambino e spalancò le fauci. Due dentini aguzzi scintillarono, accostandosi piano al palmo di Orochimaru, che istintivamente ritrasse un po’ la mano.

-         Io ti conosco. – disse – Ti ho visto sui libri. Tu sei velenoso.

Veleno solo per i deboli, piccolo saggio. Per te, nettare ed elisir. Non ti fidar troppo di ciò che ti dicono i libri: furono scritti probabilmente da gente meno saggia di te. Il tuo destino sarà di riscriverli, quei libri, con una scienza nuova e più alta. Una scienza quale nessuna vita umana ti consentirebbe di accumulare l’eguale. La desideri? La conoscenza? L’immortalità?

-         Sì. – bisbigliò l’altro – Ma è impossibile. Per un uomo è impossibile.

E tu, piccolo saggio, diventa un dio! Chi sono, mi hai domandato: ecco una buona risposta. Io sono il Serpente. Io sono colui che si morde la coda, colui che abbandona la vecchia pelle per averne una nuova, colui che si rinnova, sono il cerchio del tempo, l’Uroboro, io sono l’immortalità. E ti offro un patto e un dono.

-         A quale prezzo? – domandò, esitante, Orochimaru.

Dipende, piccolo saggio. Cosa credi che sia un essere umano?

-         Un essere umano è un corpo di carne mosso dal flusso del chakra. Il chakra è l’energia vitale. Con la morte, il chakra si arresta; il corpo perde la vita e decade, tornando nel nulla.

Bene. E, dimmi, credi nell’esistenza dell’anima?

Il bambino ci pensò su un attimo. Poi, deciso, rispose:

-         No.

Allora diciamo che per te è gratis.

Con un gesto lento, Orochimaru tese la mano, aprendola completamente, davanti al serpentello. Il rettile si sollevò un momento, sembrò quasi rimirarla compiaciuto, quindi scattò. Conficcò le zanne proprio al centro del palmo. Il bambino sentì un attimo di bruciore e strinse gli occhi. Con i denti affondati nella sua carne e uno spasmo che gli agitava il corpo, il serpente iniettò il suo veleno. Orochimaru fu percorso da un brivido di gioia. Il dono era dentro di lui, adesso. Era dolce e doloroso dentro le vene. Riaprì gli occhi.

Tsunade lo fissava, terrorizzata.

Provò a muovere la mano per rassicurarla con un gesto, ad aprire le labbra per spiegarle tutto. Non ci riuscì. La paralisi si diffondeva rapidissima tra i muscoli del suo corpo. Scoprì che, se stava trattenendo il fiato, ora, non era più per l’eccitazione e l’ansia del momento, ma perché il diaframma aveva smesso di contrarsi. I suoi polmoni non si allargavano più. L’aria rifiutava di entrare.

-         Oro! – gridò Tsunade, correndo a sostenerlo – Oro, mi dispiace, non volevo lasciarti solo! Oro!

L’altro non rispose nulla, riuscì solo ad accennare un sorriso. Poi sbiancò di colpo, gambe e braccia si irrigidirono, le labbra si ritrassero trasformando il sorriso in un ghigno orrido.

-         Oro! Oro! – continuava a gridare Tsunade, in lacrime, stringendo il corpo del compagno.

Non rispose, non poteva più farlo. La bambina restò sola, mentre la luce spariva definitivamente, sola, con il cadavere di un amico, sola, in fondo alla Rupe Hebi, sola.

 

Certe cose non dovrebbero succedere.

Davvero.

 

C’era qualcosa che le strisciava contro la pelle. Tsunade lo sentì quando ancora dormiva – perché alla fine non ce l’aveva fatta, aveva ceduto, le si erano chiusi, quegli occhi. C’era, sotto di lei, come un letto che aveva sostituito la dura roccia. La sensazione aveva un che di piacevole. Una superficie morbida, fatta di solchi e avvallamenti dal profilo dolce, liscia, cedevole e fresca. In quel momento in cui il corpo è sveglio mentre la mente sta ancora dormendo, la bambina, con un movimento istintivo, si stiracchiò su quel materasso, allungò le braccia, scivolò assaporando la sua comodità.

Il materasso, compiaciuto, scivolò a sua volta sotto di lei.

Tsunade aprì gli occhi e gridò. Era fuori dal crepaccio; sopra di sé vedeva solo il cielo notturno e la luna piena che splendeva bianca e gelida. Ma sotto, sotto, sotto!

Serpenti. A migliaia. Quanti non credeva nemmeno potessero esisterne al mondo. Rettili di ogni dimensione, dai piccoli e velenosissimi serpentelli del deserto ai giganti stritolatori delle foreste pluviali, che si attorcigliavano tra loro in una sola ribollente massa, come un fluido di macchie scaglie occhi denti che traboccava dall’orlo della Rupe Hebi, paiolo ormai troppo piccolo per contenere quella pozione. Erano stati loro a portarla su, le si erano insinuati sotto il corpo e l’avevano sollevata, aumentando, salendo, fino a giungere in superficie. Oppure no, non erano venuti a portar su lei.

-         Oro! – chiamò Tsunade, vedendo il suo compagno in piedi a qualche metro di distanza.

Orochimaru si voltò. Sotto di lui i serpenti si affollavano ancor più numerosi, combattevano, si attorcigliavano, si mordevano, si sbranavano, nella furiosa lotta per accalcarsi sotto i suoi piedi, sollevarlo più in alto, alzarlo al cielo, alla luna, acclamarlo come un dio. Un anaconda aveva avuto il privilegio di poterlo abbracciare; gli si stringeva intorno a spirale, un unico possente muscolo che sosteneva il corpo del bambino, permettendogli di reggersi nonostante la gamba fratturata. Lentamente, Orochimaru si voltò, e i serpenti girarono insieme a lui, suolo fremente e adorante ai suoi piedi, portandolo faccia a faccia con Tsunade. Il suo volto era ancora bianco come era diventato dopo la morte. Gli occhi guizzarono spalancandosi in un istante e svelarono una pupilla sottile, a taglio, una pupilla di rettile. Poi aprì leggermente la bocca (quei denti bianchi. Quei denti appuntiti) e fece scivolare fuori, tra le labbra, la punta della lingua (quella cosa lunga, tumida, viscida. Quella cosa orrenda) e fu più o meno allora che Tsunade capì che quella che aveva davanti non era più una persona.

-         Tsunade. – sibilò l’essere.

-         Orochimaru. – balbettò lei – Sei tu?

-         Io? No, non sono io.

L’essere allungò una mano, e subito, lieto, un cobra si insinuò tra le pieghe delle dita e scivolò lungo il suo braccio.

-         Io non sono io. – cominciò a dire, cantilenando, come una filastrocca – Io non sono più io. Ma se io non sono io, allora chi sono io?

Si fissarono, per un momento, dritti negli occhi, l’essere e il cobra che era stato sollevato al suo cospetto. L’essere spalancò la bocca e allungò la lingua fino a toccare il serpente, che con gioia guizzò verso di lui, adagiando il capo tra gli archi sfavillanti dei denti.

-         Chi sono io, eh? – continuò – Chi sono io che striscio, tra sassi e zolle sguiscio?

Chiuse le mascelle a scatto. Tsunade gridò. Il cobra, con la testa mozzata, cadde giù, contorcendosi ancora, danzando e attorcigliandosi in un ultimo brivido di piacere. Il sangue imbrattò le labbra dell’essere, che sputò il capo del serpente ucciso e scoppiò a ridere. Tsunade non riuscì più a sostenere lo spettacolo. Si alzò e cercò di scappare, correre via, ma era difficile su quel terreno mobile. I serpenti, in preda alla frenesia, strisciavano l’uno sull’altro tutti in una direzione, tutti verso il proprio signore, gli salivano addosso, lo abbracciavano, si gettavano volontariamente tra le sue mani, nella sua bocca.

L’essere rideva, mangiava e gridava.

-         Sibilo! Scatto! Scivolo!

Tsunade riuscì a raggiungere la terra ferma. Finalmente con un suolo solido ai piedi, scattò, via, verso il villaggio, verso il mondo reale, via da quell’orrendo incubo.

-         La morte zitta! Il nero rivolo!

Sarebbero tornati, tutti e due, pensava, e ci sarebbe stata una festa. Tutti avrebbero gioito per la loro riapparizione. Nessuno si sarebbe chiesto cos’era successo, come avevano fatto ad uscire da quel crepaccio, o perché Orochimaru avesse quell’aspetto diverso, insolito, perché fosse così pallido. Non se lo sarebbero chiesto. Lei non avrebbe dovuto raccontare niente, e avrebbe potuto dimenticare. Voleva dimenticare. Voleva dimenticare tutto, ma più di ogni altra cosa l’immagine di quel bambino che prima credeva di conoscere e che adesso svettava su una collina di serpi, circondato dal suo nuovo popolo, che gioiva nella notte di luna piena, che aveva brandelli di pelle di rettile penzolanti agli angoli della bocca, che mordeva e beveva, in una spaventosa orgia di sangue e veleno, e che gridava, gridava con voce acutissima e inevitabile come la follia:

-         SERPENTE, SERPENTE, SERPENTE IO SONO! SERPENTE, SERPENTE, SERPENTE IO SONO!

 

 

 

 

 

 

  
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