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Autore: Morrigan_Ohlin    18/01/2016    0 recensioni
"Umano, troppo umano
- mio detestato amore!
[...] E il mio parlare difficile
E il tuo vivido silenzio
- E una pioggia salmastra
Sui miei capelli
Sui tuoi occhiali
- Nebbia disciolta
Sulle parole inutili
Sui passi sospesi"
Avrebbe potuto essere la storia monocorde di un'esistenza già programmata, prevedibile come il percorso di una malattia fastidiosa e inevitabile. Perché tale si ritiene Lars Christensen, psicologo irrealizzato alla soglia dei quarantadue anni: un malato dell'anima, una linea retta su un foglio bianco, un binario abbandonato in aperta campagna.
Almeno, così è sempre stato: finché è comparsa lei.
Una creatura senza nome e intoccabile, tutta capelli e occhi sgranati.
Una figlia del Caos, inselvatichita da un morbo innominato.
Con lei, Lars trova il coraggio di sbirciare l'Abisso, oltre il bordo del precipizio: e dopo averlo combattuto per anni, finalmente comprende l'orribile fascino del baratro...
(Dedicata a Charlie, la mia più adorata creatura, e al mio danese)
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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II. Regn - Rain


«Devo ammetterlo, mi ha stupito, dottor Christensen.», disse Kendrick, le braccia dietro la schiena mentre guardava fuori dalla finestra. «E le assicuro che capita molto di rado.»
Anche Lars era affacciato al vetro, e non si voltò a guardare il collega nel rispondergli.
«La ringrazio, dottore.»
Fuori, gli Indefiniti stavano uscendo dal Circolo, in un drappello colorato di ombrelli sotto la pioggia: parevano bambini fuori da scuola, ansiosi di lasciarsi la lezione alle spalle, che si godevano quello sprazzo di libertà tra risate scroscianti e passi frettolosi.
«Quella ragazza…», fece Lars, dopo un istante di silenzio. «Come l’ha chiamata, Ginger…»
Il collega ridacchiò, scuotendo lentamente la testa.
«Non pensi troppo a ciò che le ha detto.», ribatté, dandogli un colpetto sulla spalla. «Le prime volte è così gentile con tutti. Anzi, le faccio i complimenti per come le ha tenuto testa.»
«Borderline?»            
«È stata a lungo anche la mia ipotesi. Ma, stranamente, è uno di quegli eccentrici casi umani che si lasciano mangiare vivi dal senso di colpa.»
Lars non replicò, mentre il suo fiato si trasformava in condensa, appannando il vetro.
«Tengo molto a tutti loro.», continuò Kendrick, con una nota di tenerezza nella voce. Ed era vero: provava un attaccamento particolare nei confronti degli Indefiniti, con le loro patologie bizzarre, lo stesso affetto compassionevole che suscitano i randagi al bordo delle strade.
Si volse verso Lars, rivolgendogli un sorriso sbilenco. «Almeno so di lasciarli in buone mani.»
Lo psicologo accennò un ringraziamento, per poi tornare a guardare fuori. Gli Indefiniti erano quasi tutti scomparsi, come disciolti dalla pioggia o sublimati nella nebbia leggera che avvolgeva il terreno. Un Ottobre in piena regola.
«Molto bene.», esclamò Kendrick, sfregandosi le mani. «Ora devo proprio andare. Ho molto lavoro da sbrigare.»
Tese una mano verso Lars, e strinse la sua con entusiasmo. «È stato un piacere.»
Uscì dalla stanza, e non appena l’eco dei suoi passi scomparve, Lars si trovò in un limbo silenzioso.
Lasciò vagare lo sguardo lungo le pareti, su quei libri abbandonati sugli scaffali, sulle sedie disposte secondo un’orbita irregolare. Ne prese una e vi si sedette, lentamente, come se temesse di disturbare il silenzio con un movimento troppo brusco: intrecciò le dita sotto il mento, chinato in avanti, e così rimase, meditabondo. La luce biancastra che proveniva dalla finestra alle sue spalle disegnava sul pavimento un’ombra irregolare e distorta, dai contorni quasi animaleschi.
Ginger. Che soprannome banale.
Si tolse gli occhiali, sfregandosi lentamente gli occhi come se improvvisamente si sentisse molto stanco. Kendrick poteva tentare di rassicurarlo quanto voleva, con quella sua parlantina affettata da direttore di banca: non si sarebbe mai aspettato nulla di simile. Non un tale accanimento, non una simile cattiveria gratuita: non da una creatura all’apparenza così delicata, quasi friabile.
Lei non sa vivere. Lei non sa fare niente. A parte mentire a se stesso.
Quelle parole gli risuonavano nella mente con una forza tale da fargli credere di udirle davvero, in un riverbero crudele che si agitava da una parete all’altra, amplificato.
Inforcò nuovamente gli occhiali, alzandosi bruscamente e facendo cadere la sedia. Il rumore che ne scaturì parve assordante, squarciando l’aria come un tuono. In tutta fretta, rimise in piedi la sedia caduta, vergognandosi profondamente come se qualcuno lo stesse osservando: poi prese la giacca e l’ombrello, abbandonati in un angolo accanto alla porta, ed uscì, quasi correndo.
 
*
 
 
La carezza leggera della pioggia sul mio viso è qualcosa di simile ad un battesimo.
Chiudo gli occhi, reclinando la testa per meglio riceverla, ascoltando il suo scrosciare su di me come una cascata di note struggenti.
Alle mie spalle, il Circolo – il mondo antropico – pare talmente irreale… Un brutto disegno a china su un foglio umido. In questo momento esistiamo solo noi, io e il cielo, io e gli alberi del parco che si stringono attorno a me con i loro lenti, profondi sospiri.
Se ascolto con attenzione, posso udire la linfa scorrere sotto la loro corteccia.
Sento le foglie cadute cantare un peana d’addio ai rami abbandonati.
Sento le nuvole rincorrersi, con strida di gabbiani.
Non temo il freddo che già si fa strada nelle mie ossa.
Non temo l’umidità, che mi costringerà a giorni e giorni di bronchite. Dimentico di avere un corpo di carne, e non di muschio e terriccio.
È uno dei miei rari momenti di idillio, che mi fanno sperare ancora in una possibile redenzione.
Uno dei brevi istanti che mi rendono lieta di esistere.
 
 

La pioggia batteva insistente sull’ombrello di Lars, che, uscito dal Circolo, con passo svelto si dirigeva verso la strada.
Abitava poco lontano, ma l’idea di dover camminare con quel tempaccio non gli sorrideva affatto. Stringendosi nella giacca, svoltò a destra, seguendo il marciapiede e costeggiando il parco e gli alberi che, strappati alla natia foresta poco distante da Grastonville, in quel momento apparivano particolarmente minacciosi.
Aveva mosso qualche passo, quando qualcosa tra i tronchi attirò la sua attenzione.
Si fermò, per guardare meglio, e vide un’inconfondibile figura in nero, che, immobile, gli dava le spalle.
Era senza ombrello e la pioggia scorreva impunemente sul suo capo fulvo.
“Ginger”.
Lars non ci pensò due volte e corse verso di lei: non poteva stare così, si sarebbe presa un malanno!
A breve distanza da lei si fermò: rimase un istante alle sue spalle, indeciso sul da farsi. La ragazza non dava segno di averlo sentito: aveva il capo reclinato verso il cielo, una mano posata sul tronco di un albero, e ne carezzava lentamente la corteccia, come presa da un sogno diurno.
Lars si schiarì la gola. «Ehm… Ginger? Perdonami, non voglio disturbarti, ma…»
Lei non rispose né reagì in alcun modo.
Lars si avvicinò ancora, sicuro che il suoi passi incerti sul manto di foglie l’avrebbero fatta sobbalzare: ma questo non accadde, e lei rimase nella stessa posizione, senza un fremito.
«Ti verrà la febbre a star sotto l’acqua in questo modo…», insisté l’uomo, e allungò una mano per sfiorarle una spalla.
Il suo gesto spezzò l’incantesimo.
La ragazza emise grido soffocato e si voltò di scatto, come se si fosse bruciata: la sorpresa nel trovarsi Lars di fronte fu tale che quasi cadde all’indietro.
«No, ti prego, non fare così…», la implorò l’uomo, avanzando di un passo verso di lei mentre la ragazza indietreggiava.
Nei suoi occhi vi era un miscuglio tremendo di panico e odio disumano, mentre lo guardava ansante come un animale terrorizzato.
«Volevo solo ripararti.», continuò Lars, tentando di calmarla.
«Non mi tocchi mai più!», gridò lei, incespicando.
Lars alzò una mano, in segno di resa.
«Va bene, non ti tocco, va bene.», sussurrò. «Ma voglio solo aiutarti. Te lo giuro, solo questo.»
Lei si fermò, gli occhi ridotti a due fessure.
«Non ho bisogno di nessun aiuto.», sibilò. «Se ne vada, dottore.»
«Non posso farlo.», replicò l’uomo. Tese l’ombrello verso di lei, riparandola, incurante della pioggia che iniziò a riversarsi sul suo capo. «E tu non devi fuggire per forza.»
La ragazza incrociò le braccia: i suoi occhi si spostavano rapidamente dall’ombrello sopra la sua testa al volto di lui, alle gocce di pioggia che gli rigavano gli occhiali. Poi, sbuffando, si avvicinò lentamente a Lars, che, ben attento a non toccarla, sistemò l’ombrello in modo da riparare entrambi.
«Così va meglio.», constatò, sorridendo. Studiò per un istante la ragazza, i riccioli bagnati sparsi sulle sue spalle come alghe lasciate dal mare sulla battigia: a vederla così, fradicia e tremante per il freddo, gli parve simile ad un cucciolo abbandonato. Provò la tentazione di abbracciarla, per scaldarla col calore del suo corpo: ma si trattenne. «Ti accompagno a casa.»
Lei si strinse nella giacca fradicia e rabbrividì, mentre tornavano sul marciapiede.
Lars notò la cosa e si tolse la sciarpa di lana grigia che portava al collo.
«Tieni questa.», le propose, porgendole la sciarpa. «Almeno non prendi freddo alla gola.»
La ragazza lo guardò con le sopracciglia aggrottate, sospettosa.
«Coraggio, prendila.», insisté l’uomo, divertito, come se parlasse ad un animaletto riottoso. «Non c’è bisogno di guardarmi così, è solo una sciarpa.»
Lei si morse il labbro inferiore e, titubante, la prese e se la avvolse attorno al collo. La sistemò con cura anche attorno al mento e sulla bocca, per meglio ripararsi dalla brezza pungente: e l’odore di lui, non contaminato da fragranze dozzinali e commerciali, le solleticò le narici.
Era inaspettatamente gradevole, e per qualche motivo le ricordava il profumo dei mirtilli appena colti.
Mormorò un ringraziamento, la voce attutita dal tessuto.
«Figurati, non c’è problema.», la rassicurò Lars. «Dove abiti?»
La ragazza indicò una biforcazione, proprio davanti a loro. Qualche macchina passava in quel momento, fendendo l’asfalto in tutta fretta come per sfuggire ad un invisibile inseguitore.
«Sempre dritto fino a Jackson Street, poi subito a sinistra.», rispose lei, in tono asettico ed evitando con ostinazione lo sguardo di Lars mentre attraversavano la strada.
Era palese che fosse in preda ad un conflitto interiore, e pur rimanendo sotto l’ombrello tentava di mantenersi il più possibile distante dall’uomo.
«Se ciò che è accaduto al Circolo ti mette a disagio, puoi stare tranquilla.», disse lui, senza guardarla direttamente. «Non è successo nulla per cui dovresti preoccuparti.»
«La fa semplice, dottore.», replicò lei, adombrandosi.
Lungo il marciapiede sfilava un viavai di esseri umani di ogni sorta, che, protetti da ombrelli variopinti, si affrettavano ai loro doveri quotidiani con stampato in volto il marchio della routine. Donne dall’aria afflitta con in braccio sacchetti di carta ricolmi, adolescenti più o meno coscienti di essere nel fiore degli anni, anziani con il loro carico di tempo sulle spalle che guardavano il mondo col medesimo disprezzo che portavano verso loro stessi: un’umanità tragica, che sotto la pioggia assumeva una lucentezza singolare, un odore più autentico.
«E non capisco perché lei è così gentile con me, dopo quello che le ho detto.», continuò la ragazza.
«Certamente non è stato piacevole.», ammise Lars, evitando una pozzanghera. «Ma credo sia stato terapeutico per te, e questo è l’importante.»
Lei non replicò, lo sguardo concentrato a terra.
«Anche se devo essere sincero,», continuò Lars, lanciandole un’occhiata d’intesa. «Il nome che ti ha dato il dottor Kendrick è davvero orribile.»
Studiò un istante la reazione della ragazza, gioendo internamente nel vederla sorridere appena, seminascosta dalla sua sciarpa.
«È un uomo con troppa ambizione e nessun sentimento, non trovi?»
Lei annuì, in silenzio.
Percorsa che ebbero l’intera via, piegarono a sinistra, verso un quartiere di prefabbricati dall’aria linda e modesta. I loro passi sul marciapiede parevano quasi non far rumore, come se attraversassero una dimensione parallela sospesa tra la nebbia e le nubi.
«Non ti chiederò quale sia il tuo vero nome, comunque.», continuò Lars. «Né perché tu non vuoi sentirti chiamare con esso. Non adesso, almeno.»
La ragazza si voltò a guardarlo, bloccandosi improvvisamente.
«Perché no?», gli domandò, in tono sospettoso.
Lui approfittò della pausa per togliersi gli occhiali appannati e pulirli con un fazzoletto.
«Non voglio trasformare questa piacevole passeggiata in una seduta.», replicò, sorridendo e inforcando nuovamente gli occhiali.
«Tuttavia dovrò chiederti come preferisci che io ti chiami.»
Lei parve stupita e lo guardò come se avesse pronunciato un’eresia.
«Solo per comodità.», aggiunse Lars, in tono rassicurante. «Qualcosa al quale rispondi volentieri.»
La ragazza distolse lo sguardo, tirandosi la sciarpa fin sul naso: Lars notò che aveva le dita arrossate per il freddo, e la pelle attorno alle unghie era come mangiucchiata.
Rimasero in quella posizione, l’uno davanti all’altra e immobili sotto l’ombrello, per un minuto che parve eterno: poi la ragazza tornò a guardarlo, puntandogli in viso quei suoi occhi dal colore sporco, indefinibile. Mormorò qualcosa, ma a voce talmente bassa che l’uomo non intese una parola.
«Perdonami, ma non ti ho sentito.», le disse, arrischiandosi ad avvicinarsi impercettibilmente a lei.
La ragazza lo guardò ancora, con espressione indecifrabile: poi si alzò sulle punte, sporgendosi verso l’orecchio destro di Lars. Lui si chinò appena, per paura anche solo di sfiorarla, ignorando il solletico che i capelli della ragazza gli procuravano, carezzando la pelle nuda del suo collo.
«Ho detto, lo scelga lei, dottor Christensen.», sussurrò lei, per poi ritrarsi immediatamente e nascondere di nuovo il viso nella sciarpa grigia.
L’uomo sorrise, incurvando leggermente gli angoli della bocca. «Se è questo che desideri.»
La ragazza annuì.
«Abito lì.», lo informò poi, indicando il penultimo caseggiato, a breve distanza da una pensilina degli autobus.
Percorsero in silenzio i metri che li separavano dall’abitazione, entrambi concentrati sui propri pensieri. La pioggia parve aumentare la sua forza quando raggiunsero il numero 23, portata da folate di vento gelido che li fecero rabbrividire.
Eppure, neanche una volta si sfiorarono.
Arrivati che furono, la ragazza estrasse da una tasca della giacca un mazzo di chiavi e ne infilò una nella toppa della porta.
Dall’interno della casa si sentiva chiaramente provenire l’abbaiare festoso di un cane di grossa taglia.
«Si chiama Thor.», disse lei, senza che l’uomo avesse posto alcuna domanda. «Anche lui è scandinavo.», aggiunse, voltandosi a guardare Lars. «Come lei.»
L’uomo sorrise. «Sono certo che almeno di lui ti fidi.»
«Sì.»
Si tolse la sciarpa dal collo, porgendogliela senza una parola: poi gli diede le spalle e girò la chiave, socchiudendo la porta con l’intenzione di entrare.
«Astrid.»
La ragazza si fermò, sulla soglia, per poi voltarsi a guardarlo perplessa.
«Come ha detto…?», domandò.
«Astrid.», ripeté Lars. «È il nome con cui ho scelto di chiamarti. Ti piace?»
Lei rimase un istante sovrappensiero, la mano destra infilata tra lo stipite e la porta: finché gli rivolse uno sguardo più benevolo di quanto avesse fatto in tutto il pomeriggio.
«Sì. Mi piace.»
Lars dovette contenere la sua felicità.
«Perché questo nome?»
Lui fece un sorrisetto. «Ogni cosa a suo tempo.», rispose, enigmatico.
Ma alla ragazza parve bastare.
«Le consiglio di sbrigarsi.», mormorò, indicando alle spalle di lui il cielo sempre più scuro. «Sta per arrivare una tempesta.»
Lars guardò dove lei aveva indicato, e quando si voltò verso la porta la trovò chiusa.
La ragazza era scomparsa, come inghiottita silenziosamente dalla casa.
Sentì tirare il chiavistello all’interno, e si rammaricò di non averla potuta salutare.
Fece dietrofront e tornò sul marciapiede: prima di allontanarsi, però, si voltò verso il numero 23, simile ad una casa delle bambole dalla vernice bianca scrostata, abbandonata al bordo della strada. Credette di vedere una figura alla finestra, con un animaletto – probabilmente un gatto – in braccio: la guardò scostare appena le tende, per sbirciare fuori, prima di decidersi a lasciarla alle spalle e andarsene.
Sopra la sua testa, oltre l’ombrello, oltre il crescente ticchettio della pioggia, legioni di nere nubi temporalesche si inseguivano senza sosta nel cielo di Ottobre.
 
*

 
  
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