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Autore: Caesar    15/03/2009    6 recensioni
15 Marzo 44 a.C.
La morte di Cesare cambia la storia.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Idi di Marzo

15 Marzo 44 a.C.

 

Era una giornata fulgida, brandelli di nubi bianche si rincorrevano in un gioco infinito, le acque del Tevere scorrevano placide.

Giulio Cesare arrivò alla Curia all’ora quinta, quando il sole splende luminoso e il cielo è tinto con acquerelli dai colori intensi e vividi. Un vento freddo gli sferzava il viso, inclinando dolcemente le gocce di sudore che gli imperlavano il volto pallido, verso le orecchie e poi più giù, sulla gola palpitante; la toga purpurea, ornata con motivi fogliari, ondeggiava lievemente dietro di lui, e muovendosi sembrava che le foglie d’alloro si unissero in un unico, magnifico bosco d’oro.

Cesare si scostò una ciocca dei capelli mori dietro un orecchio, osservando con sguardo torbido e nero la strada davanti a lui, mentre si portava la mano sul petto, là, dove sentiva battere furioso il cuore, dove il dolore era lancinante e le fitte gli ricordavano colpi di spada.

Si ricompose quasi subito, assumendo una postura dignitosa e indossando una maschera d’indifferenza, sperando che nessuno avesse scorto, in fondo ai suoi occhi, gli spasmi che lo stavano torturando; poi si concentrò su cosa volesse dire quel giorno, e un sorriso gli si delineò sulle labbra sottili.

Dopo tante battaglie

                                 vinte,

dopo tanto sangue

                             sparso,   

dopo tanti incubi

                           privi di luce.

Era lì, la corona d’alloro a celare le sue calvizie, lo sguardo fiero e superbo a nascondere ciò che aveva sofferto per raggiungere il suo scopo.

Come inseguendo una stella alla fine di una grotta buia e fredda, percorsa con occhi bendati cercando, in qualche modo, di non cadere continuando a correre.

Marco Antonio gli chiese se stesse bene, lui non rispose e scorse invece tra la folla il veggente che, solo pochi giorni prima, lo aveva avvertito di un grande pericolo che lo minacciava alle Idi di Marzo. Cesare lo chiamò, e ridendo disse:

- Le Idi di Marzo sono arrivate –

Il veggente lo guardò con uno sguardo indecifrabile –acqua gelida e profonda, abbastanza per non scorgere, in superficie, le torbide correnti del fondale- prima di fare uno strano sorriso, guardandolo negli occhi, e dire:

- Sì; ma non sono ancora passate –

Cesare lo vide sparire nella folla, ma quelle parole echeggeranno a lungo dentro di lui, come l’oscuro presagio di un futuro incerto; poi Antonio lo toccò su una spalla e lui ricominciò a camminare.

 

*

 

Celebrò le pratiche religiose, poi fece un cenno a Marco Antonio, che lo aveva accompagnato fin lì, invitandolo a seguirlo, ma lo vide impegnato con Trebonio ed entrò da solo nella Curia di Pompeo.

Si sedette sul seggio che gli spettava, aspettando tediato che la seduta cominciasse; vide Cimbro Tullio avvicinarsi, piegarsi verso di lui e raccontargli cose futili, deboli ambizioni, di uomini privi di un futuro degno di questo nome.

Nel frattempo altri senatori l’avevano circondato, lui pensò che volessero rendigli onore e allora cercò di allontanare Tullio per rinviare la discussione, ma lui lo afferrò improvvisamente per la toga purpurea e Cesare scorse nei suoi occhi un’eccitazione febbrile, una gioia a lungo nascosta dietro una maschera che, per una volta, non aveva riconosciuto; avvertì qualcuno spostarsi alle sue spalle, allora cercò di girarsi di scatto, ma Publio Casca aveva già estratto la daga colpendolo alla gola, lacerando la carne e sporcandolo di sangue.

- Ma questa è violenza! –

Urlò Cesare, afferrando immediatamente il braccio di Casca e colpendolo con uno stilo, ma quando vide tutti –ghignavano, i maledetti- estrarre le proprie armi, capì di essere perduto.

E si ricordò di tutti quei presagi a cui non aveva voluto credere, combattendo l’evidenza con armi impari.

I fuochi celesti che ardevano

                                           nell’oscurità notturna,

lo scricciolo con l’alloro

                                    ucciso da uccelli rapaci,

le mandrie di cavalli

                                 piangenti.

Si ricordò di Spurinna, il veggente, di quel libello datogli dall’indovino Artemidoro, dell’incubo di Calpurnia.

E quando vide Giunio Bruto avanzare verso di lui, si ricordo di come aveva insistito, quella mattina, perché lui non rinviasse la seduta nonostante stesse male; e allora avvertì una goccia di pioggia scivolargli, rovente e sinuosa, sulla guancia pallida e incavata, dagli occhi torbidi e neri fino alle labbra sottili.

Il secondo colpo lo trovò al centro del petto, ma gli altri si avventarono su di lui impugnando daghe e coltelli, e lui ripensò alle sue conquiste, mentre cadeva a terra, e si chiese a cos’erano serviti

tutti quei sogni

                   di potere e gloria,

                                          tutte le sue vittorie

                                                                 in quella terra straniera,

                                                                                               fuggire da Silla,

                                                                                                                    per trovare la morte lì,                 ai piedi della statua di Pompeo, un’ultima beffa che non gli era stata risparmiata.

E guardava, osservava i suoi assassini, chiedendosi dove avesse sbagliato, perché doveva aver sbagliato a un certo punto; forse una frase, interi paragrafi che non sarebbero dovuti stare in quella storia immortale –pagine e pagine dettate, fogli bianchi in cui aveva scritto anche sui bordi-.

Aveva vissuto come in uno spettacolo mai concluso, fatto d’attori e d’attrici, battute dimenticate e improvvisazioni fuori testo che si erano tramutate in vittorie; aveva indossato la corona da’alloro, posandola sul proprio capo con mano tremante, sapendo che non l’avrebbe più tolta.

Vide Bruto avvicinarsi, e, chiedendosi da dove provenisse quella perla di pioggia, disse, con voce flebile:

- Tu quoque, Brute, fili mi?

Poi tacque, socchiudendo gli occhi e inclinando il capo da un lato, lasciando che la corona d’alloro scivolasse ai piedi di Pompeo, con quell’unica, rovente goccia di pioggia che si spense sul petto, là, dove il cuore non batteva. Là, dove tutto finiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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