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Autore: Relie Diadamat    19/01/2016    5 recensioni
George si gustò quel momento per quello che era, scovando con i suoi occhi azzurri quei frammenti di luce bianca nel nocciola caldo dello sguardo di Isobel, mentre un crescendo di note gli pizzicava le orecchie.
Entrambi erano già stati in quel posto, calpestando per gli stessi giorni lo stesso pavimento, ma quell’ultima marcia spettava a lui. A lui soltanto.

/ Gizzie molto confuso /
Genere: Introspettivo, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Izzie Stevens
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione
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Nda: Buon salve!
Okay, lo ammetto: le morti di Grey's Anatomy mi hanno un tantino scossa e per il momento sembra che io sappia scrivere solo su quello. In realtà, questa piccola shot mi è nata nella testa mentre riascoltavo per l'ennesima volta la canzone Hallelujah - perché dire che la cantavo non va bene, no, no, no! - di Jeff Buckley e... niente, mi si sono parati dinanzi due scenari: o una Gizzie o una shot in un altro fandom... ho optato per entrambe le cose, ma per il momento mi sono dedicata solo a George e Izzie. 
La shot è volutamente vaga, ispirata in tutto e per tutto alla canzone sopracitata, di cui alcuni versi sono stati rielaborati nella fanfiction. 
Beh, credo di aver ciarlato abbastanza. Niente, mi eclisso, lasciando a voi la parola!
Buona, spero, lettura.
 

NOT A VICTOR MARCH
 





Era già stato lì, aveva già pestato quel suolo con le sue scarpe da ginnastica. Ci aveva passato ore, a camminare per quei corridoi, talvolta anche a correre in caso d’urgenza.
Aveva respirato a pieni polmoni quel posto, lo aveva fatto per circa tre anni, e un po’ sentiva di poterlo paragonare alla musica che fuoriusciva stonata dalle corde della chitarra che suo padre pizzicava di tanto in tanto, dopo qualche bicchierino di troppo.
Non sapeva bene come funzionasse: la musica, proprio come le macchine, non gli era mai interessata più di tanto.  Sapeva soltanto che aveva qualcosa a che fare con il maggiore e note più basse;  strano come funzionasse la musica, ma in fondo non era la stessa cosa della vita? Non c’erano alti e bassi anche lì? La vita ti spiazza, ti lascia senza fiato o parole e il più delle volte è anche maledettamente breve.
Sì, anche se non gli era mai importato seriamente della musica, poteva giurare sul suo nome che la ritenesse vicinissima alla medicina: alti e bassi, tempo cronometrato, battiti incostanti.
La medicina era stato il suo più grande sogno, più o meno come quello di ritrovarsi nudo sotto la doccia con le tre donne che riteneva le più irraggiungibili del mondo. O forse no, la medicina era molto di più.
Era un sospiro strappato dalle labbra dischiuse, un dolce lamento sussurrato con le mani aggrappate alle lenzuola. Un sogno, proprio come quello di baciare ogni centimetro di quella pelle chiara, profumata e familiare.  Proprio come perdersi in quel piccolo frammento di luce che si rifletteva nei suoi occhi color nocciola, mentre le carezzava con una mano una guancia arrossata dall’alcool per poi ricadere con le labbra sul suo collo che profumava di buono, di giusto, di famiglia.
Ma di buono, a ripensarci bene, non c’era proprio nulla.
Aveva tradito sua moglie con un’altra donna.
Non una qualsiasi, ma con la donna di cui temeva essersi innamorato per davvero. Più di Meredith, più di Callie, più di tutte le altre che aveva conosciuto in tutta la sua vita.
«Ti sei ricordato?» gli chiese quella volta, con la voce che pareva un misto tra la speranza e lo smarrimento. Una miscela perfetta tra una supplica e una lieve richiesta d’amore.
Lui l’afferrò per un braccio, trascinandosela dietro in uno stanzino pieno di coperte e scaffali di metallo. Li prese a pugni, quegli scaffali, perché toccarla o sfiorarla o provare il brivido di baciarle di nuovo la bocca era peccato, anche se Izzie era la cosa più vicina al Paradiso che avesse mai assaporato.
Perché, dannazione, non poteva succedere per davvero, proprio nel momento in cui credeva di aver fatto ordine nella sua vita, che un uragano simile arrivasse a distruggere persino le fondamenta.
E ci aveva provato in tutti i modi ad autoconvicerla e autoconvincersi  che fosse sbagliato, che i loro respiri non si potessero più mischiare l’uno con quello dell’altra. Cosa avrebbe pensato Callie di lui, si chiedeva, sentendosi più sporco di una garza pregna di sangue.
Eppure lui continuava a sentirsi uno scettico insicuro della propria fede e bisognoso di prove, ed Izzie non smetteva di profumarsi la pelle di peccato, fino al giorno in cui, prendendogli  la cravatta tra le mani annodandogliela proprio come George non sapeva fare, si era dichiarata spogliandosi di ogni desiderio, lasciando spazio a qualcosa di più intenso e disorientante. Izzie era ottimista ed aveva speranza. George la guardò col cuore che gli batteva impazzito nella trachea, immaginandosi come sarebbe stato inginocchiarsi ai suoi piedi e porgerle la domanda a cui sua moglie aveva risposto: «Sì».
Ma il Destino non era mai stato dalla loro parte, perché qualche giorno prima l’aveva accompagnata all’altare, offrendola all’uomo che lei amava e che l’amava. All’uomo che si sarebbe preso cura di lei, come lui avrebbe sempre fatto in silenzio, nell’ombra o anche alla luce biancastra dell’ospedale, se avesse voluto.
Il Destino aveva riso di loro, perché Izzie stava combattendo contro il cancro ed ora lui si trovava dinanzi ad un ascensore, indossando una divisa militare. Nel palato poteva riassaporare il gusto di un gelido e rotto Hallelujah. Neanche sapeva il perché, forse suo padre aveva urlato quella canzone dopo qualche birra di troppo.
L’ascensore si aprì, rivelando il volto di un angelo che aveva smarrito la strada per il cielo.
Quella non era una marcia di vittoria, George lo sapeva benissimo e per questo le sorrise. Izzie era confusa, spaesata ma felice di rivederlo.
George si gustò quel momento per quello che era, scovando con i suoi occhi azzurri quei frammenti di luce bianca nel nocciola caldo dello sguardo di Isobel, mentre un crescendo di note gli pizzicava le orecchie.
Entrambi erano già stati in quel posto, calpestando per gli stessi giorni lo stesso pavimento, ma quell’ultima marcia spettava a lui. A lui soltanto.   
   
 
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