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Autore: IMmatura    20/01/2016    1 recensioni
Alessandro si avvicina e si allontana da Arianna, entra piano piano nel mondo e nei meccanismi del set... ma si lascia alle spalle qualcosa?
La stessa storia, da un punto di vista ignorato, diventa drammatica.
"Volevo impressionarti. In previsione del momento in cui avresti realizzato anche tu quanto tutto quello che ci circondava facesse schifo, mi costruivo un’immagine di superiore distacco. Cercavo di darti l’idea di essere un’eccezione, un emarginato (in quanto) spirito critico, una specie di martire sociale della verità.
Quanto dovevo sembrare patetico!"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alessandro, Sorpresa, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà degli sceneggiatori Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo e dell’emittente televisiva FX (ex ”Fox Italia”). Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

Quattro metri

 

Deformazione professionale: fenomenologia per cui l’essere umano tende a frequentare le proprie abitudini lavorative anche fuori orario e fuori luogo. Nel mio caso, il fastidioso vizio di meditare sui piccoli e grandi pseudo-drammi della mia esistenza sotto forma di corto-mediometraggi mentali.

Quello di oggi si intitola “Quattro metri”, ed è particolarmente difficile scrollarlo via, per ricominciare a lavorare al meglio. Passa e ripassa in loop sui piccoli schermi dei mie occhiali.

Titolo su fondo nero. Dissolvenza.

 

Prima sequenza: un taglio di luce aurorale investe la mezza figura dell’anonimo protagonista (io), con il braccio sollevato di fronte al volto ed un esposimetro in mano. Attorno, la gigantesca scatola buia del set, una grotta di cemento che rimbomba di imprecazioni e borbottii scontenti, di tonfi di piantane e serpeggiare di cavi. Allargare la prospettiva non distoglie comunque l’attenzione dall’azione principale. L’esposimetro viene riposto in tasca con un impercettibile sbuffo di irritazione, sostituito da un metro a nastro.

Dettaglio dell’oggetto.

Figura intera di un altro personaggio (tu) che posa su una sedia fuori scena il cartone di un “cestino” recapitato agli attori.

Piano americano. I due personaggi ai margini opposti dell’inquadratura.

Incredibile con quale naturalezza riesca a nascondere il mio frenetico lavorio interiore, mentre ti chiedo di aiutarmi a misurale la distanza tra il tavolo di scena e il punto dove andrà piazzato un proiettore. Ti guardi un attimo intorno, come a disagio.

-Ok... quanto?-

-Quattro metri, più o meno. Meglio più.-

Ti lancio un’occhiata in cui, evidentemente, non riesco a trasmettere il sarcasmo che vorrei. “Meglio più che meno, considerando come si gestiscono qua gli otturatori” (“Apri tutto”) voleva essere il messaggio implicito.

Sei tu a venirmi incontro, per afferrare la linguetta metallica, mentre io tengo saldamente la scatoletta di plastica, mezza rotta, da cui esce un ticchettio regolare. Sembra misurare i tuoi passi man mano che ti allontani.

Tic...tic...tic...

 

Anche la prima volta sei stato tu ad avvicinarti a me, mentre io rimanevo rigido, impalato, radicato nella mia paura e nella mia sostanziale incapacità di relazione sociale. Sei arrivato a chiedermi se per caso ero muto. Decisamente non l’inizio migliore per un’amicizia... non che mi interessasse farne. I pochi mesi già vissuti sul set mi avevano ampiamente disilluso sulla possibilità di avere il benché minimo rapporto umano con i colleghi.

All’inizio eri quasi un fastidio. Non capivo perché dovessi continuare a cercarmi, a volte con motivazioni veramente insensate, costringendomi a rompere il mutismo forzato e passare, puntualmente, brutti quarti d’ora.

Rispondevo per educazione, ed ogni tanto anche in malo modo, ma anche tu... davvero ti interessava così tanto la trama di “Occhi del cuore”?

-Ma l’anello cosa rappresenta? Di chi è?-

-Lo sa Dio di chi è quell’anello.-

Credo sia stato uno degli scambi di battute più memorabili tra quelle mura vere e finte. A volte ci ripenso e, adesso, sorrido. Allora no, ma adesso si. Mi mancano quegli scambi di battute, da pari a pari.

 

Tic...tic...tic...

Un metro è già fatto. Dettaglio dei tuoi passi da gambero che si allontanano.

 

-Tanto oggi è il mio ultimo giorno.-

“No.” è stata la prima parola che ha attraversato la mia testa. Non l’unica persona su questo set che mi chiama per nome e non con un insulto o un fischio. Non l’unica persona che mi parla. Non l’unica persona che potrebbe essermi... amica?

-Ma come...? Aspetta, ma...-

Credo di averti guardato per la prima volta in quel preciso momento, Alessandro. Prima eri l’ennesima presenza che sbirciavo di nascosto, quando mi azzardavo a non tenere gli occhi bassi. Quella volta ci siamo guardati in faccia, condividendo senza parole l’astio per quel ladro di Sergio (perché si, è esattamente questo che penso di lui e lo direi anche, se dirlo potesse cambiare qualcosa...), ed anche se siamo stati interrotti e richiamati all’ordine era cambiato qualcosa in me. Quando potevo adesso parlavo, ed anche volentieri. Facevo anche un po’ lo spavaldo, a dirla tutta.

-Il sentimento più forte che sento è la vergogna.-

Volevo impressionarti. In previsione del momento in cui avresti realizzato anche tu quanto tutto quello che ci circondava facesse schifo, mi costruivo un’immagine di superiore distacco. Cercavo di darti l’idea di essere un’eccezione, un emarginato (in quanto) spirito critico, una specie di martire sociale della verità.

Quanto dovevo sembrare patetico!

Pensare che avevo passato da almeno dieci anni l’età in cui ci si può ancora raccontare la bugia consolatoria dell’ essere “un incompreso”, e non mi sentivo affatto stupido nel riesumare per te quella romantica bugia in tutta la sua goffaggine. Tutto, piuttosto che scoprire le carte ed ammettere che, semplicemente, ero una persona estremamente irritante.

(Ancora adesso non capisco bene il perché, ma se non altro sono tornato ad accettalo come un dato di fatto.)

 

Anche prima dell’esperienza sul set avevo avuto conoscenze per lo più negative, poche compagnie, praticamente nessuna amicizia. Per la prima volta, però, mi ritrovavo a desiderarlo, un amico.

Anche un amico che, su istigazione di Arianna, si metteva a fare il bullo con le comparse. Mi spiace un po’ averti guardato così male, quella volta... ma capisci che sentirti urlare “muti!” non era esattamente molto incoraggiante, per me. Eppure, in qualche modo, ci somigliavamo, o almeno così mi sembrava. Volevo credere che ti interessassero davvero i miei discorsi su registi e film e tutta la bellezza che li, dentro quella cripta di set, non vedevamo neanche col binocolo. Volevo credere che le confidenze bisbigliate, appena Biascica girava le spalle, non fossero solo un modo qualsiasi di riempire il silenzio. Volevo pensare che, alla fine, mi avessi scelto. Per condividere la mia gioia, quando sono passato al ruolo di operatore, e per condividere la tua quando ti capitò quella fortuna sfacciata di dormire in teatro e... beh, lo sai, non c’è bisogno di entrare in dettagli.

 

In tutto questo, ancora non riesco a capire esattamente quando ho iniziato a deluderti. Forse la volta in cui non ho potuto ospitarti? Forse quella in cui non ti ho ascoltato, troppo preso dal gioco al ribasso per tenermi un posto decente? Magari volevi parlarmi di Arianna, quella volta, ed io non ti ho ascoltato...

(Se può consolarti, ho poi scoperto di essermi fatto fregare mille euro da Pinuccio, altro che fare il furbo...)

Eppure facevamo ancora progetti di lavoro, insieme. Ci vedevamo oltre un arco di tempo (ogni volta, tristemente, più lungo) tu al combo al posto di Renè e io, un po’ più attivo, al posto di Duccio, a fare quello che volevo ed ero sicuro di saper fare.

 

Tic...tic...tic...

Due metri, sposti con un calcio la sedia, rovesciando il vassoio di carta. Ti guardi di nuovo attorno. “Tranquillo, non ti ha visto nessuno” vorrei dirti, ma le parole mi rimangono in bocca, sanno di bile. Sanno un po’ d’invidia. Perché alla fine hai sempre avuto più fortuna di me in queste piccole cose. Forse in generale. Se di fortuna si tratta.

 

Sei sempre stato più paraculo di me. Non trovo un altro termine per descrivere questo dato di fatto. Quando aprivi la bocca tu la gente non sbuffava prima ancora che ne uscisse suono. Riuscivi a capire gli altri, molto più di me. Avevi l’empatia, che a me non è mai appartenuta. (Lo ammetto senza problemi: le mie giornate mi sono sempre sembrate abbastanza pesanti senza caricarmi addosso anche gli affanni altrui.)

Neppure la furbizia, avevo. O la simpatia. Nessuna delle tante cose che allora cercavo di tenere fuori dal mio campo visivo, quando ti guardavo in faccia. Tutte quelle cose che ci stavano già allontanando, e che ti avvicinavano agli altri.

 

Come ti ho già detto, non sono bravo a capire le persone e i rapporti interpersonali, quindi sicuramente sbaglio, ma ho cercato a lungo di individuare il punto di non ritorno, e credo di averlo trovato: il concorso. Il corto girato a casa di Renè (a casa di Renè... allora forse il danno era già fatto?).

Non so se a deluderti sia stato l’imbroglio, che ho cercato, goffamente, di coprire con prosopopee sulle opportunità in questo Paese, o al contrario il mio ridicolo darmi pena per la consegna, quando era scontato che avremmo vinto lo stesso. Il compromesso o l’ingenuità, cosa ti dava fastidio?

Io di quel giorno, però, mi ricordo soprattutto l’acquario. E tu infuriato, oppure esasperato, che facevi il gesto di darmi una botta con un retino. Non mi hai colpito davvero ma hai comunque mandato in frantumi qualcos’altro, assieme all’acquario. Ho visto per la prima volta i cocci di qualcosa che si era spezzato, e da allora ho iniziato a sentirli scricchiolare ad ogni passo.

Tic...tic...tic...

Tre metri e sei già stufo. Te lo leggo in un primo piano di faccia. Sono una seccatura, un problema. Sono oltre una barricata troppo alta che tu hai scavalcato senza che me ne accorgessi. Un muro invisibile su cui batte appena le nocche il suono regolare del metallo.

Tic...tic...tic...

 

La rabbia è un’alterazione mentale che non mi appartiene. Non mi è mai rimasta addosso troppo a lungo. Delusione si, ne ho provata tanta. Odio anche, ma non di quel genere che ti fa maledire tutto e tutti, sbraitare, aggredire. Il mio dolore è sempre stato un dolore malinconico, col freno a mano tirato.

Infatti non sono stato arrabbiato con te, mai. Nemmeno per un istante. Anzi, ancora adesso ti rivorrei soltanto indietro. Rivorrei solo tutto com’era.

 

Ci ho provato anche, a trattenerti. Aveva funzionato la volta che volevi mollare il set, perché non questa?

Sbagliavo sempre qualcosa. Il tempismo, l’umore, la cosa da dire. In quel periodo ero preso da mille cose, ma di notte rimuginavo soprattutto su una: non mi avevi mai detto niente su Arianna. Che ti piacesse l’avevo intuito persino io, ma, per l’appunto, era un’intuizione rubata con l’osservazione, non una confidenza. Volevo che me lo dicessi. Anche un’allusione andava bene. Anche un gesto di disagio, imbarazzo, nervosismo. Anche una vampata in faccia.

Eppure, il discorso non usciva mai, o non trovavo io il modo di affrontarlo senza sembrare anche un impiccione (cosa che proprio non volevo).

Come sempre sbagliai cosa da dire, cercando di prendere l’argomento attraverso il suo amico Tyron. Mossa davvero idiota, ripensandoci. Eppure ero disposto anche a farti incazzare pur di ricevere quella confidenza. Ricevetti invece una spinta e un (più o meno meritato) vaffanculo. Rimbalzai contro l’ennesima parete e l’accettai come l’ordine naturale delle cose, rinunciando a farti capire che ero solo tanto stanco di vivere murato vivo senza sapere perché, con la sola compagnia delle mie domande senza risposta. Mi avevi disabituato al vuoto della mia esistenza, e nella tua assenza, adesso, risuonava un’eco devastante.

Mi chiedevo se davvero persino Stanis si era meritato quella confidenza prima e più di me... e tanto più mi sembrava ovvia la risposta, tanto meno mi capacitavo di essere stato mandato a fanculo. Eppure avrei dovuto esserci abituato.

 

Chissà se ti sei accorto che c’ero fino alla fine. Fino all’ultimo istante in cui ancora abbiamo condiviso qualcosa. Fino alla delusione di Medical Dimension. Mentre tu ti vantavi di scrivere quel genere di dialoghi orrendi di cui prima ridevamo, dietro le quinte. Mentre abbracciavi il primo anello della catena di merda a cui siamo stati attaccati per una vita, mentre i tre coglioni che lo rappresentavano festeggiavano perché “Questa è tutta Siae!”

C’ero mentre smontavamo tutto, giusto per beccarmi l’ennesima stretta di mano mancata, l’ennesimo fallimento, e c’ero mentre proponevi l’improponibile facendoti definire “promettente”. Stavo uscendo, e non mi hai salutato.

 

Quando è stato il momento in cui tutto questo è cominciato? E soprattutto... durerà per sempre?

 

Non sono neanche quattro metri precisi, quando la tua radiolina gracchia. Le parole di Arianna, deformate, non sono percettibili nella mia visione inutilmente drammatica. Sento solo il sibilo del metro che hai abbandonato a se stesso, e mi rendo conto di non aver mollato la presa in tempo solo quando arriva il dolore del taglio sulla mano. Dettaglio del metro che cade, e quando si torna alla precedente inquadratura tu non ci sei più.

Mi hai mollato, a cercare di misurare ad occhio una distanza di cui in fondo importa ancora solo a me... e che non c’entra niente con il proiettore.

 

 

Angolo inutile di IMmatura

Tra indiscrezioni e smentite su un’eventuale quarta serie, Sermonti e Tiberi tornati sul piccolo schermo, e la mia pazzia galoppante, era inevitabile per me provare a scrivere qualcosa su Boris. Dato che l’atmosfera comica della serie è inimitabile, mi sono buttata sulla traGGedia dando voce al personaggio più ignorato e vessato di tutti, Lorenzo. Io stranamente lo adoro e, si, lo so che nemmeno lui è proprio senza peccato, ma essendo la storia dal suo punto di vista l’ho riempita di pseudo-giustificazioni e omissioni più o meno volontarie (Svevo docet).

La dura legge di Boris (che poi è quella della vita) penso sia comunque salvaguardata, dato che il fulcro della fic è proprio la NON solidarietà che si crea tra questi due personaggi da cui, invece, me la sarei aspettata *coff coff* povera ingenua *coff coff*. Tutto ciò è molto amaro e realistico. Viva Boris! T.T

Nella speranza di non aver prodotto uno schifo completo nonostante l’ora, mi rimetto al giudizio di chi(?) si ritroverà mai a leggere questo sclero. Fatemi sapere che ne pensate, se vi va.

Saluti

IMmatura

PS Consiglio la lettura con in sottofondo "Freaking me out" dei Simple Plan che, pur essendo una canzone molto più "rabbiosa" della fic, è stata una delle mie principali fonti d'ispirazione ;)

  
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