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Autore: VV_23    25/01/2016    10 recensioni
"Aveva parlato al plurale. Aveva sottinteso un noi. Un minuto prima ero sola, apatica, pronta ad accogliere la morte in ogni istante. Lui, con una semplice parola, aveva reso di nuovo possibile ipotizzare di riaccogliere la vita"
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Paint'
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               Capitolo X


Trascorrono settimane di lavoro frenetico alla panetteria. Quando arriva il camion con tutte le attrezzature e la mobilia, il volto di Peeta si riempie di emozione. Diventa estremamente pignolo nel disporre tutte le cose al loro posto, dirigendo gli operai e spostando lui stesso macchinari dall'aria pesante; mi ritrovo a fissarlo mentre solleva una cassetta piena di strumenti metallici, se la carica sulla spalla, e la trasporta con incredibile nonchalance nel laboratorio: i suoi muscoli si tendono tutti e la maglietta bianca che indossa sembra aderire completamente alle sue spalle larghe. Realizzo con stupore che ho già fatto caso a questi particolari: la prima volta è successo anni fa, quando, ancora ragazzino, lo vidi afferrare e lanciare i sacchi di farina come se non avessero alcun peso. Ricordavo bene la sua prestanza fisica e il suo essere così forte, ne avevo anche parlato a Haymitch al centro di addestramento durante i primi Hunger Games, ma il particolare del suo corpo in movimento – ho già visto quella mascella contratta per lo sforzo, ho già notato quella vena in evidenza sui muscoli in tensione delle sue braccia, e conosco il gesto rapido che fa con la mano quando vuole asciugarsi un lieve strato di sudore dalla fronte... – è qualcosa che ritorna alla mia memoria solo ora che lo rivedo in azione in una situazione simile. Vuol dire che questo interesse per Peeta – per il suo corpo, nello specifico – è, in qualche modo, nato molto tempo fa?
Le attenzioni che ora lui mi rivolge si sprecano. È come se i nostri corpi faticassero a tenersi lontani, e ogni gesto porta brividi incontenibili: un intercettare distratto delle dita, quando poso le chiavi di casa sul mobile vicino alla porta o quando stiamo preparando la cena; un buffetto sul naso, quando si separa da me anche per il solo tempo della doccia; le sue mani delicate tra i miei capelli, quando la notte mi disfa la treccia. E poi ci sono i baci, tanti baci, da quello leggerissimo del buongiorno, quando mi viene a svegliare e mi dice che la colazione è già pronta, a quelli carichi di significato che ci regaliamo la sera, sul nostro tappeto, e che sembrano scaldarsi ancora di più quando l'arrivo di un novembre piuttosto fresco ci porta ad accendere il camino. Io sono ancora un po' restia a lasciarmi andare in presenza di altre persone – mi ricorda troppo quando ero costretta a farlo, quando quelle che ci scambiavamo erano solo stucchevoli effusioni per il pubblico – e Peeta sembra essere d'accordo con me, ma non vuole rinunciare del tutto alla nostra nuova intimità nemmeno quando siamo fuori di casa; per questo motivo, quando lo raggiungo alla panetteria dopo aver passato la mattinata a cacciare, mi accarezza le spalle e mi bacia una tempia, mormorando un sorridente “Benarrivata”. E, puntualmente, mi ritrovo a pensare che tutto questo non abbia nulla a che fare con quelle passate stucchevoli effusioni.

Ma c'è ancora una barriera tra di noi, una sorta di muro che permane strenuamente, senza che nessuno dei due si azzardi ad avanzare l'argomento: lo studio di pittura. La sua casa, ormai spoglia di tutto, ha solo quella funzionalità, e da quell'unica volta io non ci ho più messo piede. Non perché Peeta me lo abbia vietato o mi abbia fatto in qualche modo capire che non sono gradita, ma perché, quando lui decide di rintanarsi laggiù, sento che lo sta facendo per allontanarsi da me. Perché dovrei invadere uno spazio che, fisicamente (dal momento che non si trova nella mia casa), non mi appartiene?
Io vorrei, invece, che Peeta non si isolasse. Vorrei che condividesse con me anche i suoi momenti peggiori, che mi permettesse di aiutarlo in ogni momento, e che non si sentisse costretto a mostrarmi solo la versione perfetta di se stesso.
Dopo averci riflettuto per ore e ore, una mattina mi decido ad agire. Invece di andare nei boschi, resto in casa e scelgo la stanza più adatta da trasformare in studio, quella in fondo al corridoio del piano superiore: è identica per dimensioni a quella di casa sua, ma qui la luce entra prorompente da due finestre, e immagino che questa sia una cosa buona per disegnare. L'unico problema sono i mobili in legno massiccio che mi è assolutamente impossibile muovere da sola, così mi decido a chiedere aiuto all'unica persona che potrei volere accanto per fare questa cosa.
Busso con vigore alla porta di Haymitch per almeno dieci minuti, prima di arrendermi al fatto che non c'è speranza che venga ad aprirmi, perciò spingo la porta ed entro cautamente in casa. È mesi che non vengo qui, e i motivi sono numerosi e tutti validissimi: il disordine che regna sovrano, la puzza di cibo andato a male, la sporcizia irreparabile. Mi guardo intorno e lo trovo nella sua posizione preferita, ossia riverso sul tavolo, con un coltello ben stretto nel pugno e una bottiglia di liquore bianco accanto a lui. È quasi con divertimento che gli verso addosso dell'acqua e lo vedo alzarsi sbraitando e sbracciando ovunque, esattamente come successe prima del Tour della Vittoria. Quando finalmente mi mette a fuoco, mi guarda con gli occhi gonfi di sonno e rossi di alcool.
“Ti rendi conto di che razza di ore sono??” sputa fuori con voce roca, brandendo il coltello davanti alla mia faccia.
“Sì” rispondo tranquillamente “ma mi servi”.
“Come sarebbe a dire che ti servo??” sbotta irritato.
“Mi serve una mano” dico “per Peeta”.
Lui mi guarda interrogativo, e, per qualche stupido motivo, arrossisco. Non è proprio il caso di imbarazzarsi di fronte a Haymitch, mi dico, facendo vagare lo sguardo ovunque tranne che su di lui. Con la coda dell'occhio, scorgo una grossa scatola di cartone – quella grossa scatola di cartone – buttata quasi per caso in un angolo della sala: sento che il mio cuore inizia ad accelerare in preda alla paura, e mi ritrovo a dondolare da un piede all'altro, impaziente. Voglio andarmene di qui. Haymitch sbuffa e borbotta qualcosa sull'andare a vestirsi, e io esco subito di casa, tirando un sospiro di sollievo quando mi trovo nel piccolo portico. Mi raggiunge qualche minuto dopo e mi scruta attentamente – quegli occhi grigi che riescono a essere sobri e vigili persino quando il loro proprietario non lo è affatto – ma io evito il suo sguardo e mi dirigo a passo svelto verso casa, mettendo più distanza possibile tra me e quella scatola.
Davanti ai mobili pesanti che ci si parano davanti, Haymitch mi guarda con odio.
“Senti, dolcezza, non sono un dannato facchino!” si lamenta, e io sospiro.
“Lo so, Haymitch! Ma è solo questa stanza, se mi aiuterai ci metteremo pochissimo!” gli dico, sperando di essere convincente. Lui mi fissa un secondo in silenzio, e i suoi occhi si accendono di malizia.
“D'accordo, ma prima voglio sapere una cosa” esordisce. Io ricambio il suo sguardo, e sulle sue labbra si forma quel mezzo sorriso che non preannuncia niente di buono. Ahia.
“Tu e Peeta. State insieme per davvero?” chiede semplicemente.
Per quanto ci provi, non riesco a impedire alle mie guance di arrossire. È Haymitch, mi dico, non ha senso nascondergli qualcosa. Ma non è per vergogna che mi ritrovo a tentennare, è per quella frase che mi aveva detto – ubriaco e arrabbiato, e per questo nel pieno della sua saggezza – all'annuncio dell'Edizione della Memoria.
Potresti vivere cento vite, e ancora non lo meriteresti.
“Sì” rispondo di getto, prima che quel ricordo attecchisca troppo in me. “Sì, siamo una coppia”.
Una coppia.
Lui sorride un po' più apertamente.
“Lo sapevo” commenta, semplicemente. Io spalanco appena gli occhi.
“Lo sapevi?” ripeto. “Come sarebbe, che lo sapevi?”.
“Andiamo, dolcezza! Si vede lontano un miglio da come vi guardate! E poi che pensi, che non abbia notato quelle dannate mani che si rincorrono sotto il tavolo? Spero solo che rimangano in zone lecite, almeno mentre siete a cena con me!”.
Sento di non esser mai stata così rossa in vita mia, mentre intanto penso a tutti gli sguardi e i sorrisi che non riusciamo a non lanciarci, anche se ci sono altre persone con noi, e a come le nostre dita trovino sempre il modo di entrare in contatto.
“Ma...ma...” balbetto, e lui scoppia a ridere. Io mi infastidisco un po'. “E allora perché me l'hai chiesto, se eri così convinto di saperlo??” chiedo indispettita. Mi scocca uno sguardo divertito, che però non cela l'affetto che prova per me.
“Perché a dirle, le cose, hanno tutto un altro aspetto, non ti pare?”.
Ammutolisco, mentre le mie parole risuonano nella mia testa. Una coppia. Adesso sì, che è reale.
Ci vogliono almeno un paio d'ore per riuscire a eliminare i mobili dalla stanza, tra le lamentele e i tentativi di fuga di Haymitch; la cosa buona è che smette subito di muovere battutine allusive nei miei confronti, forse perché la pesante cassettiera scivolatami accidentalmente dalle braccia e caduta ancor più accidentalmente sul suo piede è stato un valido deterrente. Quando terminiamo, Haymitch ci mette un nanosecondo a scappare prima che io gli metta davanti pennello e vernice, ma lo lascio fare e mi dedico da sola a riportare al bianco i muri ingrigitisi dall'inutilizzo della stanza. Anche stavolta, lo strusciare del pennello sulle pareti ha un potere rilassante su di me, al punto che, dopo mesi di “mutismo”, mi ritrovo a canticchiare. Le ore scorrono senza che io me ne renda conto, finché non passo la mano di bianco sull'ultima parete e mi volto verso la porta, dove c'è Peeta che mi sta guardando con un sorriso. Ero così presa dal mio lavoro che non mi ero accorta di lui.
“Che stai facendo?” mi chiede, un po' stupito. Io arrossisco.
“Oh, beh...” dico “doveva essere una sorpresa. Ma missà che mi ci è voluto più tempo del previsto”. Mi rendo conto solo adesso che il sole sta tramontando e che sono rimasta qui dentro per un'intera giornata.
Poso il pennello nel secchio, sposto la scala e mi avvicino a Peeta.
“Ci ho pensato” esordisco “e vorrei che trasferissi qui il tuo studio di pittura”.
Lui spalanca gli occhi, sorpreso, e io continuo.
“Potresti lasciare definitivamente l'altra casa, e portare tutto qui. È grande abbastanza e ha tanta luce...”. Non so perché mi senta un po' sciocca ora a dire questa cosa, e mi interrompo. Lui sospira.
“È un pensiero bellissimo, Katniss, e la stanza è perfetta. Ma...”. Abbassa lo sguardo, e sento la colpevolezza nella sua voce. “Tu sai che vado lì a dipingere quando mi sento vicino a un episodio. Non voglio rischiare di metterti in pericolo”.
Sento un tutto al cuore nel realizzare quanto Peeta metta sempre me al primo posto. Potresti vivere cento vite, e ancora non lo meriteresti.
“Non lo farai” rispondo convinta. “I tuoi episodi non mi spaventano. So che li stai gestendo bene. E io voglio esserti di aiuto, non voglio che tu debba scappare per proteggermi. Poi...poi ho come l'impressione che quell'ambiente non ti faccia bene”. Aggrotta un po' le sopracciglia, e io cerco di spiegarmi. “Nel senso, quella casa vuota, così solitaria...mi sembra che ti ispiri solo brutti momenti, invece qui...qui ne stiamo vivendo di belli”.
Lui mi sorride, e mi accarezza una guancia.
“È vero” dice semplicemente. Lo guardo negli occhi.
“Fatti ispirare da questo posto, Peeta. Da casa nostra. E forse, così, non dipingerai solo quando senti di star male. Forse inizierai a dipingere anche solo perché ti va”.
I suoi occhi brillano, e mi attira a sé in un abbraccio vibrante.
“Sai, ero preoccupato perché non sei venuta al Distretto. Cioè, ero un po' arrabbiato in realtà” dice, e c'è un sottofondo di divertimento nella sua voce.
“Arrabbiato?” chiedo, la voce attutita dalla sua maglia.
“Sì, arrabbiato” conferma “perché non c'eri e non mi avevi detto nulla. Ma poi sono andato da Haymitch per invitarlo a cena, e lui mi ha risposto di no, perché preferiva non disturbare la coppietta”. Scimmiotta la voce del nostro mentore, e mi ritrovo a ridere. “E poi, quando ti ho ascoltata cantare mentre pitturavi, non mi sono sentito più arrabbiato. Ora mi sento solo felice”.
È felice. Peeta è felice.
Mi solleva il viso e ci guardiamo negli occhi.
“E così hai detto a Haymitch che siamo una coppia” afferma, un sorriso a decorargli il viso. Arrossisco ancora di più.
“Sì” rispondo a bassa voce. “Anche se me l'ha fatto dire solo per autocompiacimento, visto che, a suo dire, lo sapeva già”.
Peeta ride divertito.
“Immagino che per lui fosse evidente” afferma. Mi accarezza la treccia. “Ma a dirlo sembra più vero, non credi?” mi chiede, gli occhi luminosi. Mi ritrovo a sorridere e ad annuire. “Poi, se siamo una coppia, posso sentirmi autorizzato ad essere arrabbiato con te” continua, con un sorriso malizioso che mi fa rabbrividire “così poi tu puoi farti perdonare”.
Lo guardo con sfida.
“Non ho proprio niente da farmi perdonare” ribatto, e lui sorride ancora di più.
“No, è vero” asserisce, “volevo solo una scusa per fare pace”.
Mi prende il viso tra le mani e mi bacia con estrema dolcezza, mentre l'odore della tinta fresca mi stordisce un po' – riportandomi alla panetteria, a qualche settimana fa, a quando qualcosa di nuovo è iniziato – e le mie mani si aggrappano alla sua maglia. Poi mi abbraccia di nuovo, forte, e mi dondola un po'.
“Domani niente lavoro al forno” esordisce “mi dai una mano a trasferire lo studio qui?”.
Sento un magone che mi blocca la gola, impedendomi di parlare, e mi limito ad annuire contro il suo petto, mentre un'unica lacrima di pura gioia lascia i miei occhi per spegnersi sul mio sorriso.

E, il giorno dopo, il nuovo studio prende vita. I vecchi quadri vengono conservati dentro un armadio, mentre Peeta si appunta di ordinare da Capitol degli espositori per le sue tele preferite. Posiziona il cavalletto nel punto migliore – “Avevi ragione, c'è davvero tantissima luce!” afferma entusiasta – e, alla fine, il suo sguardo è luminoso e soddisfatto.
Per ringraziarmi di quest'idea, prepara la cena più spettacolare del mondo, che si conclude con una fantastica torta al cioccolato da consumare davanti al fuoco del camino. Mentre mi passa le mani tra i capelli, tira fuori da dietro la schiena una primula e me la porge in silenzio. Deve averla raccolta dal giardino senza che me ne accorgessi. Ne inspiro profondamente l'odore, e non provo tristezza. Prim sarebbe felice per me, perché sto andando avanti, perché lei aveva ragione – Non darlo per spacciato – perché sento la sua presenza.
Lo guardo negli occhi con un sorriso, e, alla luce delle fiamme, li vedo tremare, carichi di emozione.
“Katniss”. Il suo è un sussurro, ma non c'è incertezza nella sua voce. “Katniss, io ti amo”.
Il mio cuore manca un battito, per poi fare un balzo fino ad arrivare alla gola. Il mio viso impallidisce all'improvviso, per poi diventare rosso di botto. I miei occhi si aprono di più, e le mie labbra si schiudono, mentre un'espressione di assoluto stupore si forma sul mio volto.
Io ti amo.
Mi accarezza il viso, sorridendomi.
“Non mi devi rispondere, se non te la senti” dice “ma io non potevo più non dirtelo. Non sentirti sotto pressione. So che non ci sai fare, con le parole”.
Il suo amore. Il suo altruismo. Sento che tutto questo dovrebbe spingermi a dirgli che lo ricambio, ad abbattere quest'ultimo muro, ma non riesco. Non riesco perché, ancora, l'unico nome che posso associare alla parola amore è quello di Prim. Stringo più forte la primula che tengo tra le mani, e mi sembra quasi di sentire la voce della mia sorellina che mi rimprovera bonariamente e mi spinge ad andare avanti.
Lasciami andare.
Mi sento sciogliere dentro nel realizzare che, ancora una volta, Peeta non mi sta chiedendo niente in cambio alla sua dichiarazione. Peeta è dono puro – mi dà se stesso, mi confida i suoi sentimenti, mi affida il suo cuore.
“Solo...” conclude, con occhi che mi trapassano l'anima “solo stai con me”.
Ecco l'unica cosa che mi chiede: di custodirlo. Di non lasciarlo. Di affrontare quello che sarà – la gioia, il dolore, la fatica – insieme. Perché forse non sarò brava con le parole, ma mi riprometto di essere il più brava possibile con i fatti.
“Sempre” gli rispondo fissando i miei occhi nei suoi oceani azzurri. Ci ritroviamo persi in un bacio ricco di sentimenti, pieno di noi. E, mentre le mie dita si perdono tra i suoi capelli, e le sue mani sostengono la mia schiena, facendomi sdraiare sul tappeto e approfondendo di più il nostro bacio, so che ogni muro è destinato a crollare. Se lo vorremo.

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Quando ho scritto questo capitolo, ho capito che era la fine, anche se in origine il progetto era tutto un altro (infatti ci sarà un seguito, come avrete capito); però questa storia non poteva avere altra conclusione, almeno non per me.
Mi ci sono affezionata molto perché è la prima long che io sia mai riuscita a concludere, perciò è un vero traguardo! :D

Grazie a Rancy Lastrega, Mockingjay00Forever, Boom Clap, Mary90, Bal00n, Miki_Nala, The Dreamergirl, Game_Master, Giulietta_22 per ogni recensione, commento e messaggio, per tutti gli scambi di opinione che mi hanno dato una nuova immagine di questi personaggi straordinari; un grazie aggiuntivo alle mie più acerrime recensitrici Pandafiore e Katniss03, che mi hanno inondata di entusiasmo e allegria! Mi sono divertita un sacco a leggere le vostre recensioni, grazie davvero!!
Ci sentiremo presto con il sequel, che è già in lavorazione ;) per ora è tutto! Vi abbraccio forte!!!
VV**

  
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