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Autore: Filakes    26/01/2016    1 recensioni
Anche questo racconto era stato fatto per il concorso di Chrysalide, per essere poi rivisto e modicato. Lo pubblicai infine nel giornalino scolastico. Spero sia di vostro gradimento!
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Dal testo:
"Se ne stava a testa in giù nell’acquario in cui era contenuta. I capelli color cobalto le aleggiavano intorno al viso, sospesi nell’acqua. Con un colpo della coda, se così poteva chiamarla, si raddrizzò e nuotò per pochi metri. Era da sola in quell’enorme recipiente d’acqua. Gli altri esperimenti con DNA marino erano tenuti altrove."
Genere: Azione, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I CUSTODI


Mi guardo attorno, ansimante. Il capanno è buio e l’aria carica di umidità odora di muffa. C’è qualcosa di inquietante, qualcosa che aleggia attorno a noi, minaccioso.
Marzia mi guarda negli occhi e scuote piano la testa. Nemmeno lei riesce a vedere tra le ombre, lei che è la Custode della vista. Stringo il pugnale che ho infilato nella cintura e mi guardo attorno. Se ci addentriamo troppo finiremo per perderci di vista e lui ci ucciderà in un attimo.
Non mi sarei mai aspettata che dietro a tutte le morti dei Custodi ci fosse Marco.
Non credevo che la sua avidità lo avrebbe portato ad uccidere, pur di possedere i poteri di tutti i Custodi. Noi che abbiamo deciso di proteggere la magia dalle mani criminose degli umani, dividendoci gli oneri per adempire al nostro compito, rinunciando alla nostra vita umana, alla nostra famiglia, alla nostra epoca pur di proteggere la magia dagli uomini e gli uomini dalla magia, non avremmo mai pensato di avere un nemico tra i nostri. Per portare avanti il nostro dovere godiamo di una vita lunga, priva di sogni. Né la vecchiaia, né la malattia ci possono uccidere, ma non siamo immortali: moriamo se l’argento rovente trafigge il tatuaggio, sigillo del nostro patto. Colui che ci ha ucciso prende possesso dei nostri poteri e dei nostri doveri. Sopportare anche solo un potere magico, come quello curativo per me e quello della vista per Marzia, è difficile e doloroso. Mi chiedo come faccia Marco a sopportarne più d’uno.
Avrei voluto che Andrea fosse qui, è un Custode antico, è il Custode dell’aria. Non volevo litigare con lui o allontanarlo, ma l’ho fatto. So che arrivato a questo punto avrebbe affrontato Marco da solo. Sarebbe stato costantemente distratto dalla mia presenza, dalla mia incolumità, ignorando la propria. Ora rimpiango il fatto che non ci guarderà le spalle, ma faccio un respiro profondo, va bene così. Non ho intenzione di morire e senza Andrea nei paraggi posso combattere senza il timore che lui muoia.
Prendo il pugnale e mi taglio il palmo della mano sinistra. La medicina può curare nelle dosi giuste o uccidere nelle dosi sbagliate. Il mio sangue può guarire o annientare a seconda di ciò che voglio. Vedo il sangue scuro uscire denso dal taglio e scorrere fino al gomito, è caldo e profuma di morte. Stringo la mano sinistra e lascio che il sangue ricopra la lama del pugnale. Il veleno sarebbe mortale per chiunque, ma nel caso di un Custode può solo paralizzarlo. Marzia si avvicina e glielo porgo, oltre alla vista estremamente acuta non ha altro con cui combattere e osservando l’oscurità che ci attende non mi stupirei se fosse la prima su cui Marco si getterà.
Prendo un altro pugnale e faccio la stessa cosa, ma questa volta lo tengo per me. Marzia fa un cenno con la testa e io annuisco. Avanziamo lentamente, ascoltando il rumore dei nostri passi, del legno che scricchiola sotto il nostro peso. Le travi sopra di noi, fin dove riesco a vederle, sono marce e pericolanti. Ancora pochi passi e il buio ci inghiottirà. Una delle sue vittime doveva essere la Custode delle tenebre.
Io e Marzia ci lanciamo un ultimo sguardo. Erano secoli che non avevo più un’amica e ora forse la perderò. Butto fuori l’aria che ho nei polmoni e avanzo, guardando dritto davanti a me.
Continuo a camminare, ma non vedo assolutamente nulla. Sarebbe poco saggio mettersi ad urlare, ma una parte di me sa che Marco conosce già perfettamente dove mi trovo. Ogni istante che passa potrebbe essere l’ultimo. Sento uno spostamento dietro me e mi volto, ma è tutto uguale, tutto nero, tutto uniforme.
Poi sento un soffio sul collo e mi immobilizzo. Delle mani mi sfiorano le spalle e la risata di Marco risuona nelle mie orecchie. Tiro una gomitata dietro di me, ma non colpisco nessuno. Giro su me stessa, in attesa, poi sento l’urlo di Marzia e il sangue mi si ghiaccia nelle vene. Un altro urlo più acuto e comincio a correre verso quella direzione. Inciampo in uno scatolone, probabilmente, e cado. Rotolo su me stessa, disorientata, ora non saprei come uscire da quest’incubo, come tornare indietro. Sento l’ansia sbocciarmi nel petto, come un fiore che al posto dei petali ha mille aghi. Ansimo e mi alzo in piedi. Mentre rotolavo, ho stretto il pugnale al corpo per non perderlo e mi sono ferita al fianco sinistro. Potrei rimarginare la ferita senza sforzo, ma forse mi può tornare utile.
Con la mano sinistra spargo il sangue velenoso sulla pelle scoperta: se mi tocca rimarrà paralizzato. Sento un altro urlo, ma questa volta non è di dolore, o di paura. È molto peggio.
«Marco! Esci fuori vigliacco!» grido, mentre fisso un punto davanti a me nell’oscurità.
Lo sento ridere, la sua risata mi confonde, mi circonda. Stringo i denti e sibilo un insulto.
«Non puoi giocare per sempre al gatto e al topo. Sei un uomo o un codardo?» la mia voce è tagliente, sento le mie parole ferirlo nell’orgoglio come un pugnale che affonda nella carne.
L’oscurità si dissolve poco a poco, sento l’aria leggera riempire i polmoni e la pesantezza delle tenebre mi abbandona. Inizio a vedere, dalle finestre rotte del capannone, le luci della città brillare, oscurando le stelle. Il cielo copre la città come un mantello di velluto, l’aria fresca ed estiva mi solletica il viso.
Stringo gli occhi e vedo Marco alcuni metri più in là, Marzia è a terra, accasciata ai suoi piedi. I capelli lunghi e biondi formano un’aureola dorata, gli occhi azzurri sono sofferenti. A un metro da lei c’è il pugnale che le ho dato. Ansima in modo irregolare, è gravemente ferita: profondi tagli le lacerano la maglietta, scoprendole la schiena. Cerca di alzarsi ma, con un calcio, Marco la ributta a terra.
«Lasciala stare» la mia voce risuona minacciosa, è carica di rabbia e odio.
«Perché dovrei?» sorride innocentemente un attimo prima di calpestare la mano di Marzia, che cercava di afferrare il pugnale caduto a terra vicino a lei. «No, non si fa» un largo e sadico sorriso gli illumina il volto. Gli occhi scuri ardono e si compiacciono del dolore di Marzia.
«Lasciala stare» ripeto furiosa, «è una Custode troppo giovane, non ricaveresti nulla da lei».
Il suo sguardo si sposta prima su di me e poi su di lei. «Vedi Ginevra, a me non importa minimamente il potere di Marzia. Non mi interessa vedere meglio, se posso accecare le mie prede, farle brancolare nel buio. Certo, un potere in più o in meno ora non fa molta differenza, quello che mi interessa è il tuo potere. Poter guarire sempre, in ogni momento, rigenerarmi, usare il mio sangue come medicina o come veleno. Questo mi interessa» mi sorride. Avanza di qualche passo, allontana con un calcio il pugnale da Marzia e si ferma solo quando è a pochi centimetri da me. Il suo sguardo è fisso nel mio, profondo e oscuro. È inutile dire che all’inizio, quando l’ho conosciuto, mi ero innamorata di lui. Alto, spallato, atletico. Un sorriso contagioso e un carattere aperto. Come potevo immaginare che dietro quella maschera si nascondesse un assassino?
Le sue dita lunghe e affusolate mi afferrano il mento, tenendomi ferma. Con l’altra mano mi tira indietro i capelli dal viso, sistemandomeli dietro l’orecchio.
«Sta a te decidere se rendere le cose difficili e dolorose o farla finita ora» sussurra socchiudendo gli occhi.
È così vicino che mi sembra di sentire palpitare il suo cuore. I nostri respiri si mescolano caldi, tremanti. Marco mi afferra i polsi e li stringe tanto forte da farmi cadere di mano il pugnale, poi lo scalcia via con il piede. Non riesco a spostare lo sguardo dal suo: è come se mi avesse incatenata. China il capo e appoggia le sue labbra sulle mie. Sono calde e morbide, è una bella sensazione se non fosse completamente sbagliata. Se lui non fosse un maniaco omicida e se io non fossi innamorata di un altro, forse sarebbe stato diverso. O forse no.
Senza pensarci due volte gli tiro una ginocchiata nel basso ventre. Lui geme e mi morde il labbro facendolo andare a sangue, poi sputa a terra, cercando di evitare il veleno in esso contenuto. Mi afferra per la gola e io gli graffio il viso. Le mie unghie penetrano nella sua carne e si arrossano per il suo sangue.
Impreca a mezza voce e mi scaraventa a terra. L’impatto col suolo mi toglie il fiato dai polmoni, fatico a respirare. Mi appoggia la punta della scarpa sullo sterno.
«Stronza» sputa.
Io prendo il pugnale a terra e glielo affondo nella gamba. Lui urla e fa pressione con il piede. Un dolore acuto mi s’insinua nel petto. Lascio andare il pugnale e cerco di spostargli la gamba dal mio sterno. Sento le ossa spezzarsi e subito rigenerarsi. Lui preme ancora e ancora.
Sento le lacrime bruciarmi gli occhi: anche se così non morirò il dolore che provo è immenso. Annaspo, cercando di divincolarmi, ma non ci riesco. Lui tira fuori dalla tasca un ago d’argento e con lo schiocco delle dita fa apparire una fiamma. Come fa a muoversi ancora? Il veleno non ha funzionato?
«Se ora ti ammazzo e mi impossesso del tuo potere il veleno non sarà servito a nulla, non credi?»
Non distinguo bene i suoi movimenti, le lacrime mi offuscano la vista, sgomitano per scendermi sulle guance. Avvicina l’ago al fuoco e istintivamente con la mano destra vado a proteggere il tatuaggio che ho sulla spalla sinistra. Lui sorride e si china, facendo ancora più pressione sullo sterno.
«Addio» sussurra.
Gli tiro una testata e prima che si tiri indietro gli colpisco con i palmi delle mani le orecchie, facendogli perdere l’equilibrio. Marco barcolla all’indietro e io mi tiro su, sento le ossa aggiustarsi con dolore. Senza perdere tempo mi butto addosso a lui, bloccandolo a terra. Lui cerca di colpirmi il viso ma io gli blocco le mani.
«Sono Custode da più tempo di te, novellino» sorrido e gli spezzo prima un polso poi l’altro. L’ago cade ai miei piedi e lo afferro. Ha un tatuaggio sul collo.
«No, non farlo» mi implora.
Esito alcuni istanti. Se lo uccidessi mi farei carico dei poteri di tutte le sue vittime, potrei persino morire per lo sforzo.
Marco approfitta della mia distrazione per divincolarsi dalla mia presa, mi spinge e cado. L’ago rotola via a pochi metri da me. Vedo Marco andare in quella direzione e lo afferro per le caviglie, facendolo cadere. Con le braccia davanti al volto si protegge dall’impatto. Alza il viso, furioso. Dalla mano destra si genera una fiamma minacciosa. Come fa a muoverla, con il polso rotto? Provo ad alzarmi ma non ci riesco. Mi guardo le gambe: sono strette in radici robuste.
«Tu hai ucciso due Custodi antichi?!» sono sorpresa e colpita, non lo credevo tanto forte. Mi sorride e si avvicina, il fuoco ancora nella sua mano.
«Certo che sì. Non puoi nemmeno immaginare cosa posso fare…»
Poi, senza che io possa scappare mi brucia la pelle delle gambe, dandomi fuoco. Sento le mie urla uscire con prepotenza dalla gola. Non avrei voluto dargli questa soddisfazione, ma non ci posso fare nulla. Le fiamme risalgono fino alle ginocchia, poi le cosce. Sento l’odore di bruciato della mia carne misto a quello dei pantaloncini che vanno a fuoco. Urlo ancora, le lacrime offuscano gli occhi, lo vedo raggiungere l’ago, ma poi trema e cade. Esulto tra le urla di dolore, finalmente il veleno ha fatto effetto.
«Come hai potuto? Tu… piccola…» non riesce a finire l’insulto: anche la bocca e la lingua ora sono immobili.
Mentre il fuoco raggiunge il bacino sento la pelle ustionata delle gambe rigenerarsi e bruciare ancora. È una tortura infinita. Se Marco fosse morto, ora il fuoco sarebbe cessato, invece avanza e lui non può bloccarlo.
La gola ormai è secca, sento il sapore del sangue in bocca, ho urlato troppo. Con la coda dell’occhio vedo Marzia che striscia verso di me, il sangue le ricopre gli abiti. So che non morirà, le ci vuole solo molto più tempo del mio per guarire.
«Ginevra…» ansima. Con la mano tremante indica qualcosa alla mia sinistra, volto la testa, cercando di vedere oltre le fiamme. Stringo le palpebre, gli occhi prima straripanti di lacrime ora sono asciutti per il calore, tanto da farmi male.
Poi lo vedo: è il mio cellulare. Mi deve essere caduto dalla tasca durante la lotta.
Allungo le braccia ustionate dal fuoco, ma non ci arrivo. Marzia continua a strisciare verso quella direzione. Le fiamme mi arrivano alle spalle quando le sento digitare un numero.
«Andrea» le sento dire, poi il dolore si fa insopportabile e perdo i sensi.
 
Quando apro gli occhi vedo un soffitto intonacato di bianco. Giro la testa, non sento più dolore, e vedo gli occhi verdi di Andrea che mi fissano con rabbia.
«Sei un’idiota. Come hai potuto nascondermelo? Come? Forse ora non saresti piena di ustioni» ringhia. Alzo gli occhi al soffitto. Non ho voglia di parlare, non con lui.
«Ginevra, guardami» lo dice con voce ferma, ma sembra meno arrabbiato di prima, il tono è più calmo. Volto la testa nella sua direzione. Ha i capelli biondi arruffati, come se li avesse tormentati per ore. Odora di sudore ed ha gli occhi stanchi. Per quanto mi è rimasto qui accanto?
«Lo so che sei una ragazza forte, lo so. So anche che odi essere aiutata e fai sempre di testa tua, ma non devi rischiare così la vita. Non c’è motivo di essere tanto avventati» mi posa la mano calda sulla guancia e mi accarezza. Al contatto sento un brivido salire sulla schiena, sento il cuore battere più forte.
Inspiro a fondo l’odore di sudore e sapone che lo accompagna.
«Se ieri qualcosa fosse andato storto, se tu fossi morta…» la voce gli si spegne sulle labbra. Gli occhi ora non mi fissano più, sono vitrei, persi in una realtà alternativa, dove io non ci sono più e lui è di nuovo solo. Condannato alla solitudine come tutti i Custodi.
«Andrea» la voce esce roca, solo ora mi accorgo di avere una sete pazzesca, «non ti avrei lasciato solo di nuovo, ma se tu fossi venuto con noi, ieri… be’, io non sarei riuscita a battermi senza continuare a controllare che tu stessi bene e lo stesso sarebbe valso per te. Tenerti fuori era la cosa migliore».
Lui mi guarda con attenzione, sa che ho ragione, ma è ancora troppo arrabbiato per ammetterlo.
Mi metto a sedere sul letto e lui mi passa un bicchiere d’acqua. Bevo avidamente, sentendo l’acqua fresca bagnarmi le labbra screpolate, inondarmi la bocca e scendere giù per la gola. Vuoto il bicchiere e lui mi versa altra acqua, bevo ancora e ancora.
Quando appoggio il bicchiere e alzo lo sguardo alla ricerca del suo, sa già cosa sto per chiedergli.
«Marzia sta bene, si rimetterà presto» comincia, sospirando. «Per quanto riguarda Marco non è stato ucciso. È in una cella sotto il Quartier Generale, costantemente sorvegliato. Gli verranno imposti i sigilli, tanti quanti i suoi attuali poteri e poi, una volta trovati nuovi Custodi, verranno nuovamente spartiti».
«E del suo potere? Cosa faranno poi di lui?»
«Le nostre leggi parlano chiaro: niente pena di morte. Probabilmente gli verranno tolti i poteri senza ucciderlo e gli verrà cancellata la memoria. Non saprei essere più preciso» mi risponde. Allunga una mano e l’appoggia sul mio viso, facendola scorrere dalle tempie fino al mento.
«Non è stata una bella scena vederti andare a fuoco, sai?» Mi dice con amarezza.
«Lo so, mi dispiace» abbasso lo sguardo e lui ritrae la mano. «Dov’è Marzia?» chiedo subito dopo, ansiosa di vederla e di accertarmi delle sue condizioni.
«È nella stanza qui accanto».
Non ho bisogno di sentire altro. Mi alzo, infilo le ciabatte che si trovano accanto al mio letto e mi precipito da lei. Ora che mi guardo intorno mi rendo conto di dove sono: è l’ospedale che si trova nel Quartier Generale. Come tutti gli ospedali odora di disinfettante e tristezza.
Quando entro nella stanza mi accorgo subito che Marzia è messa davvero male: il corpo è fasciato, il battito è aritmico e deve anche avere la febbre. Mi avvicino a lei e le appoggio una mano sulla fronte e una sul torace. Inspiro ed espiro, rilassandomi. Faccio uso del mio potere di guarigione e in pochi attimi Marzia è guarita da ogni male.
Sbatte piano le palpebre, apre gli occhi ancora stanchi e sofferenti. Io le sorrido e lei ricambia. Le verso un bicchiere d’acqua e glielo porgo. Lei beve con cautela, come se temesse di sentire dolore. Una volta bevuta tutta l’acqua appoggia il bicchiere sul comodino.
«Come ti senti?» le domando e lei alza le spalle leggermente.
«Direi abbastanza bene. Un po’ “frullata”, ma bene» mi risponde e poi mi osserva. «Tu, invece?»
«Mai stata meglio» sorrido e lei mi tira un pugno amichevole sulla spalla.
«Certo, come no» alza gli occhi al cielo mentre ancora sorride. È bello avere un’amica.
«Ti ringrazio per aver chiamato Andrea» sussurro poi.
Lei mi accenna un sorriso. «Non potevo fare altro».
Passano alcuni istanti di interminabile silenzio, poi mi chiede: «Pensi di trasferirti, ora?»
La sua domanda è come un pugno in pieno viso. Come può sapere quello che penso? Mi conosce così bene?
«A cosa ti riferisci?» balbetto e il suo sguardo si addolora.
«Ti prego, dopo quello che abbiamo passato insieme, non mentirmi. Lo so che hai questa stupida idea di dover vivere da sola, di dover stare lontana dagli altri, per una stupida frase detta da una veggente da due soldi. Non puoi sempre rinunciare alla tua vita solo perché hai paura di viverla».
Abbasso gli occhi. Marzia non può capire. È da quando sono diventata una Custode che capitano cose terribili a chi mi sta vicino, sempre. Non voglio che ora sia il suo turno o quello di Andrea.
«Guardami» mi incita e io a fatica sostengo il suo sguardo azzurro e penetrante. «Siamo amiche e anch’io non ho nessuno, ormai. Lo sappiamo, funziona così, come se la nostra missione fosse una maledizione più che una benedizione, un onere più che un onore, qualsiasi cosa dicano i Saggi. Però non per questo dobbiamo essere infelici. Se si vuole arrivare alla felicità, si deve lottare, fino all’ultimo. Non devi scappare, solo perché ti illudi di essere tu il problema. Noi tutti siamo un problema, a modo nostro. Perché tu dovresti soffrire più degli altri?» mi domanda.
Sto per parlare quando la voce di Andrea mi interrompe. «Marzia ha ragione. Qualunque sia il tuo, il nostro destino, qualunque cosa ci attenda nel futuro, sarà più sopportabile se ce ne facciamo carico tutti e tre, no?»
Mi volto e lo guardo, è appoggiato allo stipite della porta e mi osserva triste. Deve aver sentito tutto.
«Io non voglio perdere anche voi, se vi succedesse qualcosa…» ansimo, non riesco nemmeno a pensare a tutto il dolore che mi assalirebbe.
«Se ci succederà qualcosa ne saremo consapevoli e non te ne faremo di certo una colpa. È una nostra decisione. Meglio morire che stare ancora una volta da soli» afferma Marzia, il suo sguardo è determinato, gli occhi ardono per la loro sincerità. Andrea si avvicina e mi abbraccia. Il suo respiro mi muove ciocche scomposte di capelli – sono ricresciuti anche quelli dopo essere andati a fuoco? Wow - e un brivido mi sale fino alla nuca. «Non mi lasciare, ok?» Sussurra e io annuisco, le lacrime agli occhi. «Se ne siete sicuri…»
Ora capisco cosa vuol dire amare ed essere amati, avere degli amici, delle speranze. È un attimo, ma per un istante mi sento di nuovo io, quella Ginevra nata nel diciottesimo secolo da una famiglia di contadini. Quella ragazzotta semplice e felice, che mai avrebbe sospettato a quale destino andava incontro, né come il fato si sarebbe divertito della sua sofferenza. Sento di nuovo l’aria pulita, il sole caldo sulla pelle. Rivedo le mie sorelle giocare a nascondino nel fienile, mia madre indaffarata a cucinare, mio padre chino nell’orto, fuggito a una vita da commerciante che gli aveva creato più guai che felicità. Mi rivedo seduta sotto una quercia, a leggere di nascosto, dopo che mio padre me l’aveva insegnato, o mentre cerco di imparare a scrivere con entrambe le mani. Quanto ero felice allora.
Ora mi sembra di essere nuovamente felice, anzi, ne sono certa: in questo istante, dopo anni, sono davvero felice.
Prima o poi ne sarebbe uscita.
   
 
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