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Autore: _Reset_    29/01/2016    0 recensioni
"Io non sono muto. Io non sono cieco. Io non sono sordo.
Non sono né pazzo né stupido: sono semplicemente indifferente."
In questo modo si definisce Thomas introducendo nel suo complicato mondo di pensieri i lettori a cui espone i suoi ragionamenti su tematiche più che trattate ma da forse un nuovo punto di vista.
A chi deciderà di leggere: grazie di cuore e non abbiate timore a lasciare una recensione perchè mi fa solo piacere sapere cosa ne pensate e trovare modi per migliorare
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io non sono muto. Io non sono cieco. Io non sono sordo.

Non sono né pazzo né stupido: sono semplicemente indifferente.

Siccome questo racconto parla di me, suppongo sia di dovere spiegarvi chi sono. Cercherò di essere breve, perché questa parte della storia è noiosa sia per voi che per me. Mi chiamo Thomas (il cognome non è importante) e ho 17 anni. Frequento il quarto anno del liceo scientifico della mia città (della quale tralascio il nome perché informazione irrilevante) e sono il migliore della classe, se non della scuola. Non sono particolarmente bello, alto o affascinante: sono perfettamente normale per quanto riguarda il fisico. Vivo con mio fratello Alex di 15 anni, mio padre e ciò che ha seguito la separazione dei miei: la nuova moglie Melissa e loro figlia Letizia di 7 anni. Mia madre viaggia molto e la vedo solo al cenone natalizio. Come ogni ragazzo diciassettenne ho alcuni hobby: non faccio sport e difatti il mio corpo è molto debole, ma gioco a scacchi e leggo molto. Infine c'è quello che tutti chiamano “hobby” ma io definisco “libera espressione”: suono il pianoforte. Suono da quando avevo 5 anni ed al mio decimo compleanno i miei genitori, probabilmente per rabbonirmi per la separazione, mi hanno comprato un vero pianoforte, di quelli con la coda smaltati di nero.

A volte penso di essere più bravo a suonare che a parlare...

Io non sono muto, semplicemente non parlo.

Io non sono cieco, semplicemente fingo di non vedere.

Io non sono sordo, semplicemente fingo di non sentire.

Non sono un asociale, sono solamente un osservatore.

Io guardo, ascolto e ragiono.

Sì, ho il brutto vizio di giudicare tutti su tutto. Mi definisco un po' viziato perché sono veramente molto critico su ogni dettaglio.

Io non sono pazzo, anche se Melissa ha convinto mio padre a farmi andare da uno psicologo.

Che spreco di soldi...

Comunque vado due volte a settimana dallo strizzacervelli che guadagna soldi per niente: a fine seduta è sempre lui quello più confuso...

Ma torniamo alla realtà: è lunedì mattina e come sempre sto andando a scuola a piedi. Parto da casa con un'ora di anticipo sia perché abito dall'altra parte della città rispetto alla scuola, sia perché così posso fare colazione da solo in silenzio.

Raggiungo il cancello della scuola ed entrando noto di fianco alla porta d'ingresso come tutti i giorni tre ragazze di terza se non sbaglio che mi fissano ridacchiando. Una delle tre è paonazza e viene leggermente spinta dalle amiche verso di me, ma lei oppone leggermente resistenza. Le supero fingendo di non essermene accorto e subito sento le amiche sbuffare e borbottare tra loro. Mentre entro non posso fare a meno di voltarmi leggermente. La terza ragazza, ancora paonazza, mi fissa con una strana luce negli occhi ignorando le compagne. Distolgo lo sguardo il più velocemente possibile e mi affretto a raggiungere la mia classe che ovviamente è all'ultimo piano dell'edificio.

Alcuni miei compagni sono già arrivati, ma mi ignorano, così come io fingo di ignorare loro. Mi siedo al mio posto in prima fila, l'unico banco singolo della classe, mi tolgo il giubbino e tiro fuori dalla borsa il materiale per la prima ora, ma intanto li ascolto. Per l'ennesima volta li sento discutere su quanto siano crudeli o impreparati i nostri professori. Ciò mi fa sorridere amaramente: i professori chiamati crudeli sono quelli veramente bravi ma esigenti, mentre quelli impreparati sono effettivamente tali, ma la loro ignoranza è sottolineata dal totale disinteresse alla lezione dei miei compagni che quindi disturbano coloro che sono interessati alla spiegazione, alias io.

Non ho mai legato bene con questa classe... Non che io abitualmente leghi bene con le persone, anzi, di solito cerco proprio di evitare di comunicare, però di norma non c'è disprezzo o odio reciproco...

Lentamente la classe si riempie e noto alcune ragazze con fiori o biglietti a forma di cuore. Controllo sul diario e sì, come tutti gli anni mi sono dimenticato di San Valentino.

Durante le lezioni ovviamente sono l'unico a seguire e prendere appunti mentre gli altri se la spassano chiacchierando amabilmente o giocando al telefono... E poi si chiedono perché loro hanno le insufficienze e io ho come minimo nove... A volte cerco di immedesimarmi in loro, cerco di capire perché si comportano così, ma l'unica risposta che trovo è che sono immaturi e non pensano.

All'intervallo esco in corridoio per sgranchirmi un po' le gambe. Mi ritrovo circondato da coppiette che si baciano, gruppetti di ragazzine che ridono in modo frivolo e ragazzi curiosi in cerca di preda.

Odio San Valentino, e questa vista mi sottolinea il senso di fastidio e distacco.

Decido di tornare in classe, ma appena prima di raggiungere la porta mi sento tirare la manica della camicia. Cercando di nascondere quanto sono scocciato mi volto con aria disinteressata. Devo abbassare un po' lo sguardo per incrociare gli occhi della ragazza che mi sta di fronte. È la stessa che questa mattina era spintonata dalle amiche, è ancora paonazza, ma è sola. Mi sorride imbarazzata cercando di non incrociare il mio sguardo critico, ma poi si fa coraggio, i suoi occhi verdi si fissano nei miei e mi porge un biglietto. Per automatismo, senza quindi ragionare, lo prendo sentendomi le guance stranamente calde. Appena dopo mi riprendo e apro la bocca per dirle chissà cosa, ma lei è già scappata via. Torno al mio posto in classe e solo quando sono seduto ho il coraggio, o forse la debolezza, per guardare il biglietto: è un cartoncino rosa, ovviamente tagliato a forma di cuore, decorato con molti brillantini, troppi. La scritta è poco originale, un banalissimo “Buon S. Valentino”, ma la firma cattura la mia attenzione: Greta Monghi. È strano: di solito in queste circostanze non si scrive anche il cognome...

Al suono della campanella di fine intervallo ripongo velocemente il biglietto nello zaino per non farlo vedere a nessuno. Le ore di lezione sembrano più interminabili che mai, ma come sempre suona anche la campanella di fine giornata.

Mentre cammino verso casa mi trovo a ripensare all'evento inaspettato. Se c'è una cosa che non capisco quella è l'amore ed inoltre ciò che è successo oggi è ancora più inspiegabile ed irrazionale: tra tutti i ragazzi che ci sono a scuola perché ha scelto proprio me? Sono perfettamente cosciente di essere strano: non parlo mai con nessuno, non ho amici (se non si conta quello scansafatiche di mio fratello) e non faccio assolutamente niente di particolarmente rilevante. Ma allora perché Greta ha scelto proprio me? Non sapevo nemmeno il suo nome fino a poche ore fa...

Quando rientro in casa mi trovo faccia a faccia con Alex. Lo saluto e passo oltre fingendo di non aver visto che ha le braccia piene di bigliettini e scatoline di cioccolatini per evitare domande e commentini vari, ma purtroppo non sono abbastanza veloce. Con alcuni goffi passi pesanti raggiunge il tavolo in salotto dove fa cadere tutto il malloppo, poi si volta verso di me con aria divertita. - Come è andato San Valentino, fratellone? Sei riuscito a tenere il muso anche oggi? È venuta una qualche ragazza a cercarti?- esclama fissandomi con aria da indagatore. Scuoto la testa fingendomi indifferente, ma la mano automaticamente scivola verso la borsa. Una scintilla scocca nei suoi occhi e con un movimento incredibilmente veloce per i suoi standard cerca di rubarmi la borsa, ma all'ultimo istante mi sposto di lato facendolo sbattere contro il muro. Controllo che non si sia fatto troppo male, poi corro al mio studio.

La stanza è sicuramente la più ordinata della casa, in quanto io sono l'unico che può entrarci. Un'intera parete della camera è formata da un'enorme finestra che dà sul giardino del retro, poi ci sono il mio pianoforte a coda e la mia scrivania con tutti i miei libri e quaderni di scuola, la mia postazione computer e delle librerie. Mi siedo alla scrivania e tiro fuori il biglietto. Lo osservo per qualche minuto con aria confusa, ma non riesco comunque a trovarci un senso, quindi decido di lasciar perdere. Sento in lontananza la voce irritante di Letizia.

Spontaneamente i miei occhi si volgono verso quell'unica fotografia che tengo sulla mia scrivania: quella di mia madre. Mio padre dopo la separazione aveva fatto in modo di nascondere ogni sua traccia, ma io ero riuscito a conservarne una foto. Probabilmente ora è in un qualche strano paese a divertirsi oltre che a lavorare... Il suo lavoro era stata l'unica motivazione per cui al divorzio non sarei potuto andare a vivere con lei. Il giorno in cui se n'è andata è probabilmente uno dei miei peggiori ricordi: in quel giorno infatti sono stato separato dall'unica persona che non mi avrebbe mai considerato pazzo.

Nuovamente la vocina irritante di Letizia mi fa tornare alla realtà.

Guardo l'orologio e noto che manca solo un'ora all'incontro quotidiano con lo psicologo. Sbuffo scocciato, poi cerco di riordinare i miei pensieri. Niente, non ci riesco. Il filo dei miei pensieri è così intricato che quasi mi fa venire il mal di testa...

Capisco che c'è solo una cosa ce posso fare: mi alzo e vado al mio pianoforte.

Inizialmente sfioro solamente i tasti senza suonare, per sentire ancora quella sensazione familiare, quel fremito che mi coglie ogni volta che sto per suonare.

Attacco.

Inizialmente i suoni sono macchinosi, ma presto raggiungono la velocità e precisione usuale. Le mie dita scorrono sulla tastiera così come il groviglio dei miei pensieri si scioglie e diventa fluido.

Ora non penso più, sono cieco e sono muto.

Siamo solo io e la mia musica.

I problemi, i pensieri complicati e le incomprensioni non mi toccano più: la musica mi protegge.

Ormai non esiste più nient'altro per me, nulla ha più importanza.

Sorrido a questo pensiero e chiudo gli occhi facendomi trasportare dalla melodia lontano dalla realtà: sono solo i momenti come questo che mi rendono veramente felice.

  
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