Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Ricorda la storia  |      
Autore: Figlia di un pirata    03/02/2016    2 recensioni
Questa è la storia di un intreccio.
L'intreccio tra Luke e Becky, che della chimica ne hanno abbastanza, ma dei biscotti forse no.
L'intreccio tra Calum ed Eleanor, che non si conoscono ma tanto c'è la musica.
L'intreccio tra Ashton e Roxy, che cercano di capire cosa sia l'affezione e cosa significhi "dolceamaro".
L'intreccio tra Michael ed Ellen, che sanno come andrà a finire, ma forse non vogliono che finisca.
E questo è l'intreccio di noi, perché non diciamo mai che va tutto bene, e forse è proprio questo ad andarci bene.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Tangle.



Becky lasciò che i lunghi capelli biondi le ricadessero sulle spalle, pesanti. Si passò una mano fra le ciocche rovinate, dicendosi che forse avrebbero potuto sopravvivere un altro anno senza essere tagliate. O forse no.
Sbuffò, nervosa come al solito, mentre aspettava che il suo ospite arrivasse in casa. L’ansia sembrava ormai costituire la fetta più grossa della sua esistenza: l’ansia per i compiti, l’ansia per l’arrivo di qualcuno, l’ansia di parlare in pubblico, l’ansia prima di una festa, l’ansia per i regali di Natale, persino l’ansia di non avere abbastanza ansia. E quello era solo uno dei tanti giorni in cui l’ansia si faceva sentire: ed ecco, allora, che le doppie punte sembravano peggiori del solito, che quel brufolo tra le sopracciglia non voleva saperne di somigliare un po’ meno a un vulcano, che tutte le felpe migliori erano improvvisamente ricoperte da anestetici pallini; ecco che iniziava a gesticolare e a rimettere, freneticamente, tutto quanto in ordine. Ed era tutta colpa di quello stramaledettissimo aiuto per chimica. Oh, ed era anche colpa della sua dannatissima boccaccia, perché avrebbe potuto benissimo concordare un appuntamento in biblioteca o al parco. No, effettivamente al parco faceva troppo freddo, a febbraio. In ogni caso, non avrebbe dovuto assolutamente permettere che qualcuno – un ragazzo! – ficcasse il naso in casa propria.
Eppure ormai il guaio era fatto e continuava a darsi mentalmente della stupida, perché camera sua non era così in ordine, e chissà cos’avrebbe pensato lui.
Il cuore le balzò letteralmente in gola quando qualcuno suonò al campanello.
 
Quando Luke Hemmings si ritrovò di fronte alla porta che, secondo Google Maps, apparteneva a Becky Ross, era già pronto a scappare a gambe levate. Il timore di aver sbagliato indirizzo era troppo grande, per non parlare della paura profonda per cosa sarebbe successo quel pomeriggio. E, del resto, come dargli torto?
Luke aveva paura, innanzitutto, di annoiarsi a morte: più che giustificato, si trattava pur sempre di un pomeriggio di “aiuto per chimica”, così l’aveva definito lui quando, quasi disperato, aveva chiesto alla compagna di classe un miracolo.
In secondo luogo, aveva paura di cosa sarebbe successo dopo. Non era mica detto che un pomeriggio passato con la “ragazza-geniale-prendo-nove-ma-vado-in-ansia-comunque” sarebbe servito a fargli carpire i segreti di quell’inutile materia. E se non avesse carpito i segreti di quell’inutile materia, be’, avrebbe preso un’altra insufficienza. E un’altra insufficienza equivaleva al linciaggio da parte dei suoi genitori, cosa di cui non aveva assolutamente voglia. Fu per colpa dell’onnipresente minaccia dei suoi genitori che si convinse mentalmente a farlo, ad entrare in quella casa, a costo di trovarsi davanti una vecchia bavosa perché quello era l’indirizzo sbagliato. Passò distrattamente la lingua sull’anellino che portava al labbro inferiore e suonò il campanello.
 
 
Eleanor si osservava allo specchio, preda delle “solite paranoie”, così le aveva definite il signor Rollins quando si erano visti l’ultima volta. Mentre con un dito prendeva a torturare il braccialetto comprato all’ultimo concerto degli Arctic Monkeys, pagato un occhio della testa – dei suoi genitori –, si domandò intimamente se fosse il caso di andare davvero in quella piazza, quel pomeriggio, solo per sentirlo suonare.
Eccola lì, di nuovo, lei e i costanti dubbi: voleva davvero prendere la scelta giusta ma, qualunque possibilità analizzasse, era sempre alto il tasso di fallimento. E lei non voleva fallire, non poteva fallire.
Allora, se aveva così tanta paura di fallire, perché continuava a tornare in quella piazza ogni pomeriggio dopo pranzo, senza nemmeno la certezza di trovarlo lì? Non poteva, si diceva, passare ore in piedi, nascosta tra un mucchietto di gente, non quando faceva troppo freddo, non quando faceva troppo caldo, e con l’unico scopo di vedere quel ragazzo suonare magia sulle corde di un basso elettrico. Non sapeva nemmeno il suo nome. Non aveva la più pallida idea di quanti anni avesse, di che scuola frequentasse, da dove venisse. L’unica cosa di cui era certa era che non si esibiva senza la maglia di una band, che il giorno prima aveva suonato Paranoid dei Black Sabbath e che aveva una voce magnificamente carezzevole.
Ma non era abbastanza. Non sapeva se quel pomeriggio sarebbe stato lì come sempre, non sapeva se fosse consigliabile tornare lì, e lei aveva bisogno di una certezza, della sicurezza che quelli non fossero pomeriggi sprecati. Di certezze non ne aveva, eppure i suoi piedi la stavano conducendo automaticamente nel solito posto.
 
Calum Hood era lì anche quel giorno, seduto sullo sgabellino che si era portato da casa, la maglia portafortuna dei Nirvana nascosta sotto il maglione grigio. Stava preparando, come tutti i giorni da qualche mese a quella parte, tutto il necessario per almeno due ore di pura musica, di note che si infilavano nei vicoli più stretti per raggiungere il cuore della gente attraverso le orecchie.
O almeno, sperava che fosse una cosa così poetica, perché lui non vedeva che magia nella potenza della musica. Anche se in realtà la proprietaria del bar dell’angolo si era lamentata un paio di volte per “tutto quel baccano” e, in tutto quello, lui aveva sempre il terrore che i suoi genitori potessero passare per le vie del centro e vedere il figlio impegnato in tutt’altro che lo “studio in biblioteca”. A sua discolpa, Calum poteva dire che visitava la biblioteca ogni giorno, dopo aver suonato. Anche se, a dirla tutta, era per spulciare i nuovi CD nella fonoteca del piano superiore.
Mentre prendeva in mano il basso ormai un po’ vecchiotto e scarabocchiato, notò che qualche curioso iniziava a guardarlo, forse chiedendosi quale fosse la sua strategia per guadagnare. E Calum doveva ammetterlo, non gli dispiaceva quando gli lasciavano delle monete nella custodia del basso, era piuttosto gratificante, sebbene non avesse più problemi economici di qualunque altra famiglia media. Doveva ammettere anche che stava aspettando la ragazzina coi capelli mezzi verdi e mezzi neri, che non mancava mai alle sue piccole performance. Non che lui si ricordasse di chiunque si fermasse a guardarlo, in realtà scappava subito dopo aver finito di suonare, ma la ragazzina era lì tutti i giorni, sempre, ad ascoltare in silenzio e cantare in un sussurro le canzoni che conosceva.
Sperava tanto che venisse, di certezze non ne aveva, eppure cercava tra la folla una ragazzina sconosciuta che anche quel giorno non si sarebbe fatta attendere.
 
 
Roxy aveva messo da parte, per una sera, il rossetto scuro e lo smokey eye per ritornare, solo per una sera, quella ragazza tremolante e un po’ insicura che era stata prima di conoscerlo e di conoscere se stessa. “Domani sono tre anni da quando ci siamo incontrati ed io non ci posso essere, ma ti giuro che ci vedremo presto”. Queste le parole che le aveva sussurrato su Skype il giorno prima il suo migliore amico, e a lei mancava terribilmente. Si ritrovava, un po’ egoisticamente forse, a pensare che quel viaggio a Bali non avesse fatto altro che allontanarli ulteriormente, e lei non avrebbe potuto odiare di più tutto quello.
Un mese non era poi molto, si era detta quando lui era partito “per ritrovare se stesso”, così aveva detto, lui e le sue cazzate spirituali. Un mese di scuola era perfettamente recuperabile, non che gli importasse poi molto, ma a lei importava eccome.
E se n’era andato a Bali con quella scusa, genitori consenzienti e tutto, in mezzo a tutti i casini che c’erano tra loro, in mezzo a quel brutto litigio perché lei si sentiva sola e lui non si sentiva abbastanza ed entrambi continuavano a litigare da soli, mai apertamente, per paura di rovinare quel rapporto che, Roxy aveva paura, si era già sgretolato tempo prima. Lei sapeva di essere insopportabile quando gli rispondeva scazzata ma senza voler litigare, e lo odiava quando lui era sempre nervoso, ma senza voler litigare, e finivano entrambi per farsi solo del male.
Era stanca di farsi del male, stesa sul letto quella sera, con un libro che non stava davvero leggendo tra le mani.

Almeno finché suo padre non le urlò, dal piano inferiore, di scendere.
 
Ashton Irwin aveva fatto troppi chilometri per tirarsi indietro proprio ora. Non che avrebbe potuto, anche volendolo, visto che aveva prenotato il biglietto di ritorno e il taxi proprio per quel giorno. Comunque stava avendo un sacco di ripensamenti, e non solo perché aveva capito di aver fatto troppe cazzate.
Era sempre stato intimamente convinto che i ragazzi non si affezionassero davvero alle ragazze e che anche quelle facessero fatica ad affezionarsi davvero ai ragazzi. Almeno, fino a quando non aveva capito cosa implicasse l’affezionarsi. A dire il vero non ci sarebbe mai arrivato se non avesse cercato su Google “buco nello stomaco, nervosismo perenne, egocentrismo” e non avesse ricevuto in risposta ai sintomi digitati, oltre a una serie di malattie terminali, “l’amore, la malattia peggiore di tutte”. Ashton era però sicuro che si sarebbe accorto di un suo eventuale innamoramento, sapeva di non essere innamorato, quindi tradusse liberamente "amore" con "affetto". E così aveva capito di voler bene a Roxy Armstrong, e che era per questo che, attorno a lei, si sentiva sempre da Dio. Ed era per questo che, quando lei parlava di qualcun altro, lui diventava improvvisamente acido e permaloso. Ed era per questo che, quando lei gli aveva confessato di sentirsi la persona più sola del mondo, lui si era incazzato da morire, perché com’era possibile che non vedesse che lui ci stava mettendo l’anima per far funzionare quell’amicizia?
Era dopo troppi ripensamenti, qualche rimpianto e tante parole, che si trovava sul pianerottolo di casa Armstrong, con una lettera che non aveva mai davvero riletto fra le mani e troppi pensieri per la testa.
 
 
Ellen non riusciva a smetterla di ridere, dietro le quinte, perché era dannatamente nervosa, e lei non era mai nervosa. Sostanzialmente, cercava sempre di non farsi tangere da alcun sentimento negativo, per essere positiva e propositiva nei confronti di tutti, e anche quella sera appariva come la solita Ellen, così solare, col sorriso cucito addosso. Ma il cuore le tremava forte nel petto, e non capiva cosa fosse. Non era la sua prima esibizione di fronte a un pubblico. Certo, era la sua prima esibizione con lui davanti a un pubblico, ma quello non c’entrava assolutamente niente. Si erano preparati per mesi, aveva ripetuto il copione almeno tre volte, la sera prima, aveva fatto colazione e aveva dormito persino sei ore, quella notte. Un record per una riccia abituata alle quattro ore di sonno fisse e a quell’intruglio dell’omeopata che ogni tanto faceva persino effetto. Sbuffò, per poi ridacchiare di nuovo, stavolta da sola, perché i suoi compagni erano corsi in camerino. Tutti, tranne quelli a cui toccava aprire lo spettacolo.
La ragazza finì per attribuire il proprio nervosismo al fatto che, per quella sera, si era dovuta liberare dai propri vestiti neri, in particolare dai jeans stinti pieni di strappi, che erano i suoi preferiti, nonché i suoi portafortuna. Le avevano detto che il rosso le donava, gli altri, ma lei proprio non riusciva a vedersi senza il nero.
Alzò lo sguardo verso di lui, dall’altra parte del corridoio, che le faceva un pollice in su proprio mentre le luci si abbassavano. Lo sapeva che quella storia andava avanti da troppo tempo, ma non era il momento di pensarci, perché l’adrenalina stava salendo, e non c’era modo di fermarla.
 
Michael scosse i capelli rossi nel suo solito tic, mentre una compagna del corso di teatro correva in camerino per farsi riallacciare la cuffietta da nonna che indossava. Ridacchiò, perché era proprio una delle ragazze più belle della compagnia a dover interpretare la vecchia bacucca nello spettacolo di quella sera, ed era esilarante.
Lui invece se ne stava lì, appoggiato mollemente al muro col piede sinistro, l’aria tranquilla, mentre mentalmente ripassava ogni battuta e aveva un momento di panico a ogni vergola sbagliata. Si faceva le ultime annotazioni, si diceva “questa battuta devi farla più veloce”, ed era come se nel suo cervello ci fosse un blocco per gli appunti che aspettava solo di essere riempito dai suoi pensieri. Si sentiva proprio come quando scriveva canzoni e anzi, fra una battuta e l’altra, aveva anche terminato il testo di Good Girls, che Ellen Fox gli aveva ispirato tempo fa.
Si morse il labbro già sufficientemente arrossato nel guardare la ragazza che rideva, in piedi al limite tra il sipario e il dietro le quinte. Un sorriso si formò istantaneamente sul suo viso, come su quello di qualunque persona le ronzasse attorno, e come biasimarli? Si trattava pur sempre di una ragazzetta vestita di rosso che si soffocava nelle proprie risate. Michael Clifford sapeva come sarebbe finita quella serata, lo sapevano entrambi, ma quello non era il momento di pensarci. Anche se non riusciva proprio a non pensarci, persino nel momento in cui le luci si spensero e lei si girò inevitabilmente verso di lui.
 
  ***
 
Luke aveva troppa voglia di mettersi a ridere, ma era sicuro che così avrebbe urtato i nervi della compagna, per questo non lo fece.
- Però non ti fa ridere? - le domandò, curioso, mentre si metteva in bocca un paio di biscotti tutti insieme, facendone cadere le briciole sul tappeto.
Quel tappeto avrebbe causato alla ragazza un crollo nervoso. - Cosa fa ridere? - chiese Becky, passandosi una mano sulla fronte perché, diamine, quel ragazzo e la chimica erano due poli positivi. O negativi. Sì, decisamente negativi.
Il sorriso di Luke si allargò. Non ce l’avrebbe fatta a trattenersi dal ridere molto a lungo. - Sono almeno due ore che stiamo studiando chimica. Voglio dire, io e te. E stiamo studiando chimica. E la cosa esilarante è che penso di aver appena capito come si risolve il problema.
Becky si alzò dalla sedia di scatto, lo guardò fisso negli occhi azzurri e si risedette altrettanto di scatto. Si portò le mani tra i capelli e sospirò, tutto molto meccanicamente, tutto sotto lo sguardo sconcertato del ragazzo. - Risolvilo. - ordinò. - Adesso.
- Hai una calcolatrice?
E senza proferire parola, la ragazza gliela sbatté sul libro. Era abbastanza evidente che fosse sull’orlo del tracollo. O delle imprecazioni. E bisogna puntualizzare che Becky era davvero poco volgare, generalmente. Ma due ore di studio, di chimica per giunta, con un Luke Hemmings che non vuole saperne di tenere il didietro a posto sulla sedia e che non riesce a smettere di mangiare, avrebbero provato emotivamente chiunque, santi e martiri compresi.
Luke chiuse gli occhi dopo aver pigiato l’uguale sulla calcolatrice, sperando con tutto se stesso che il risultato fosse… - Quarantadue virgola ventitré. Becky, guarda, quarantadue virgola ventitré, in questo momento potrei sposarti! - urlò, e la ragazza si domandò cosa mai stessero pensando i vicini, mentre non poteva fare a meno di sorridere.
Alzò la mano per battergli il cinque, ma in due secondi lui le fu addosso, con i suoi due metri e mezzo di gambe, per schioccarle un bacio sulla guancia e sventolare il pacco di biscotti come un trofeo. - Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta e i miei genitori non mi spediranno in Burundi a vendere infradito!
In quel momento, guardando quella gioia sincera, Becky si sentì come se un pezzo di ghiaccio si fosse improvvisamente sciolto da sopra il suo petto e capì, finalmente, il vero significato di “lasciati andare”, quelle due parole che tanto spesso le ripetevano. Rise, una risatina forse un po’ isterica ma tanto lui non ci fece caso, impegnato com’era a festeggiare e a ripeterle “Ci dobbiamo vedere anche prima del prossimo compito, e quello dopo, e anche quello dopo ancora se a te va bene”.
E lei, stranamente, non vedeva l’ora che arrivasse il prossimo compito di chimica. Non ci provò nemmeno a chiedergli se volesse fare altri esercizi, erano entrambi troppo fusi, e poi per una volta non le importava affatto.
Si sentiva spensierata anche mentre lo accompagnava alla porta e lo salutava con un “Ci vediamo domani” e un altro bacio sulla guancia che, forse, le fece un po’ battere il cuore, aperto a qualcosa di finalmente diverso dall’ansia. E andava bene così.
 
Calum stava già sorridendo quando vide, con la coda nell’occhio, che la ragazza dai capelli mezzi verdi gli si stava avvicinando. A dire la verità stava combattendo tra la voglia di fare conversazione e quella di scappare a gambe levate, perché semplicemente non era da lui fare conversazione. Oh, e perché c’erano sempre i suoi genitori in agguato, ovviamente.
Tuttavia non fece nemmeno in tempo a scegliere una delle due opzioni, perché lei era già lì, a guardarlo accovacciato alle prese col suo basso.
- Secondo me Drown ti si addice. Sta bene con la tua voce. - cominciò Eleanor, e sarebbe apparsa come una ragazza sicura di se stessa se non fosse diventata rossa un secondo dopo. Non poteva fare a meno di domandarsi cosa stesse facendo e la paura di essere malgiudicata iniziò a farsi spazio nel suo stomaco.
Contrariamente a quanto si aspettasse, però, il bassista si girò verso di lei e si alzò in piedi, arrivando alla sua altezza. O forse leggermente più in alto. - Ti ringrazio. - le regalò un sorriso smagliante, al punto che lei indietreggiò un pochino.
Eleanor non fece in tempo a trovare qualcosa di intelligente da dire, perché la loro imbarazzante conversazione fu interrotta da una signora con dei sacchetti della spesa in mano. - Calum! E tu cosa ci fai qui in questo momento? Pensavo fossi andato a studiare in biblioteca come al solito.
E in quel momento, il ragazzo non sapeva quale fosse la voglia predominante: quella di urlare, quella di imprecare, quella di fingere di essere un’altra persona o quella di adottare la tecnica del “Ti presento la mia ragazza!”. Ma in effetti nessuna di quelle era particolarmente attuabile, soprattutto se si considera che lui sembrava parecchio in difficoltà, perso tra una ragazza timida e ancora senza nome e una madre dal cipiglio severo. Doveva trovare una via di scampo. - Mamma, lei è la ragazza con cui studio matematica il giovedì. Siamo appena usciti dalla biblioteca, la stavo accompagnando a casa come ogni settimana. - finse con maestria che la custodia del basso poggiata per terra e lo sgabellino non esistessero e, del resto, sua madre non fece domande.
La donna squadrò la ragazzina con aria apparentemente soddisfatta. - Oh, e come si chiama?
Eleanor non fece in tempo a rispondere, perché Calum aveva già visto il braccialetto degli Arctic Monkeys della ragazza e si era affrettato a sparare il primo nome che gli era venuto in mente. - Arabella.
- Molto bene, Arabella, Calum. - la donna si sistemò lo chignon con la mano libera, ricominciando a camminare. - Vi saluto, ci vediamo dopo a casa tesoro!
Il ragazzo poté giurare di non essere mai stato così in ansia in vita sua, mai. E in effetti, non era il tipo che andava in ansia molto facilmente, se non in presenza dei suoi genitori, davanti ai quali era necessaria la commedia del figlio perfetto. - Grazie per non aver detto niente di fronte a mia madre. - sorrise nuovamente, il ragazzo, prima di mettersi la custodia in spalla. - Credo sia meglio che io vada, per oggi ho avuto abbastanza emozioni forti. Ti rivedrò domani?
Lei si era già girata per andare via, confusa dalla velocità con cui erano successe le cose, ma accennò un sorrisetto, senza rispondergli. - Sono Eleanor, comunque.
Lui la guardò andare via, ed entrambi avevano, per la prima volta, una certezza. Si sarebbero rivisti il giorno dopo. E forse anche quello dopo ancora.
Entrambi avevano perso un battito, guardandosi negli occhi. E andava bene così.

 
 
Roxy iniziava a pentirsi di aver lasciato il ragazzo entrare in camera sua, perché ora erano entrambi in piedi, lei che leggeva per la seconda volta quelle parole – e un pochino si preoccupava, perché senza lo smokey eye e il rossetto scuro non si sentiva a suo agio – e lui che semplicemente la guardava, l’espressione seria e la pelle un po’ più abbronzata. Quando ebbe finito di analizzare con occhio critico ogni parola, ogni segno di punteggiatura, ogni carattere affilato tracciato velocemente, fece l’inaspettato.
Scoppiò in una risata. Una risata che forse, in fondo, aveva qualcosa di amaro. E allo sguardo confuso e, probabilmente, anche un po’ disperato che lui le rivolse, rispose dopo aver appoggiato la lettera sulla scrivania. - Io non ho pensato agli altri dicendoti di sentirmi così tanto sola e tu ti senti egocentrico?
E Ashton, che non aveva ancora proferito parola con la ragazza, si mise a ridere a sua volta, al suo posto, con la paura che avvicinarsi a lei avrebbe destabilizzato quella sorta di equilibrio che si era venuto a creare.
Lei scosse la testa, facendo dondolare un piccolo boccolo che si era ribellato alla piastra del giorno prima, e cercò di non deglutire troppo rumorosamente, perché Ashton le era mancato da morire e perché sentiva già un groppo formarsi nella gola. - Un mese a Bali e sei più rincoglionito del solito.
E lui lo sapeva, Ashton lo sapeva che quello era il via libera. Così, la raggiunse in un solo passo per poi fermarsi di nuovo, mentre lei stava solo aspettando un abbraccio che non arrivò. - Nel mio viaggio spirituale mi sono reso conto che sono tre cazzo di anni che ti sopporto, e che voglio continuare a farlo anche se sei una psicopatica egocentrica che in questo momento vorrebbe uccidermi. - e fu solo allora che la strinse forte a sé, lasciando che il cappello cadesse chissà dove, e la poteva sentire, sapeva che aveva una voglia matta di prenderlo a ceffoni per quello che aveva appena detto, perché “Sono l’unica a potermi insultare, tu non hai voce in capitolo”, ma non gli poteva importare di meno. Aveva finalmente capito cosa voleva davvero e sapeva che nessuno avrebbe potuto portarglielo via.
In effetti sì, Roxy non vedeva l’ora di togliergli quel bel sorrisetto dalla faccia con una delle sue scenate, ma in quel momento era troppo felice per poter escogitare qualcosa di diabolico. Fu per questo che si limitò a una pacca sulla nuca. - Irwin, al tuo prossimo viaggio spirituale ti stacco le palle. - e quella era la loro normalità, quelli erano loro, era per questo che Roxy si sentiva così piena. Perché era proprio come bere l’ultimo sorso d’acqua, come terminare una saga tanto amata, come tornare dal viaggio più bello del mondo. Era dolceamaro, una vittoria col sapore di un rimpianto: in quel caso, il rimpianto di aver momentaneamente perso la cosa più preziosa che avesse per colpa sua, perché non si era accorta dell'unica persona che non se n'era mai andata. Roxy si ritrovò a pensare, ancora stretta fra le sue braccia, che Ashton era davvero come tornare dal viaggio più bello del mondo, perché Ashton era la sua casa.
- Comunque la prossima volta ti porto con me a Bali. Guarda come sei pallida!
Stavolta il pugno arrivò davvero al ragazzo, sul bicipite, piuttosto forte, in effetti. E andava bene così.
 
Ellen ridacchiò sulle labbra del ragazzo che la stava tenendo ancorata al muro prima di mordicchiarle di nuovo e chiudere gli occhi, perché tutto quello era troppo.
E anche Michael, con le mani di lei tra i suoi capelli rossi, si diceva che tutto quello era troppo, ma era così scontato che sarebbe finita così, finiva sempre così tra loro due.
Nel buio di quel camerino, tra un oggetto di scena e l’altro, Ellen lo strinse più forte a sé, smettendo per un attimo di baciarlo, giusto per poggiargli la guancia sul petto e calmarsi. Sentire il battito del cuore di lui per ritornare un attimo coi piedi per terra, per calmare i brividi e quella sensazione opprimente che le impediva di pensare lucidamente, ecco di cosa aveva bisogno ogni volta che stava con Michael.
Andava avanti dalla sera in cui lei era rimasta un po’ più a lungo in sala prove e lui aveva deciso di non lasciarla sola. Nessuno dei due avrebbe scommesso mezzo centesimo su di loro, quel giorno. Ma poi avevano continuato ogni giovedì sera. Per un motivo o per un altro, uno dei due se ne usciva con “Pauline dammi pure le chiavi che oggi chiudo io, tranquilla, tanto devo aspettare” o “Rimango a provare ancora un po’”, e casualmente l’altro si offriva di fargli compagnia. Ecco come consumavano quel
qualunque cosa ci fosse tra loro, tra una scenografia incompleta, copioni svolazzanti e sedie malandate.
Ma Ellen se lo ripeteva in continuazione, tutto quello era troppo travolgente per lei, non sapeva quanto ancora avrebbe resistito senza che il suo cuore esplodesse nel mezzo di un bacio, senza che le sue gambe diventassero niente più che cera colata mentre lui le alzava la maglietta, e non ce la faceva più perché se avesse dovuto usare una parola per descrivere quel maledetto ragazzo, avrebbe scelto “troppo”.
Lui la lasciò fare, appoggiarsi sul suo petto, e le carezzò i capelli ricci. Adorava farlo. - Dobbiamo andare per il saluto finale, penso. - sussurrò, per non spezzare quella magia che poteva sentire nell’aria quando lei gli stava accanto. Erano così vicini. - Va tutto bene? - ma poi si diede dello stupido, perché lei stava sempre bene, non si poteva fare una domanda del genere alla ragazza che portava il buonumore ovunque.
Lei si staccò immediatamente, recuperando il senso della realtà. - Andiamo. - disse, iniziando a camminare per paura di essere in ritardo e fare una figuraccia, ma prima di uscire, nella penombra si girò verso di lui. - Sono tanto sconvolta in faccia?
Lui rise. - Solo il tuo rossetto. E i capelli.
- Merda! Devo correre in bagno. - ed era già pronta a volare nel suo camerino, ma lui la strinse a sé da dietro, ed Ellen si sentì intorpidita in ogni suo membro, come se avesse all’improvviso perso la facoltà di muoversi. - Faremo in modo che non se ne accorga nessuno. - un bisbiglio appena accennato, le braccia possessive che trattenevano la schiena di lei al proprio petto, le labbra appena sotto l’orecchio della ragazza, il suo grande punto debole.
Lei si domandò se sarebbe mai finita tra loro due, se sarebbero mai arrivati a una conclusione o si sarebbero sempre limitati a nascondersi in un buio che sapeva di passato. Ma in quel momento, lui era con lei. E andava bene così.
 
  ***
 
All’ingresso di scuola, Roxy, che aveva appena spento una sigaretta, si avvicinò a Becky, Ellen ed Eleanor con un sorriso eccitato sulle labbra dipinte di scuro.
- Oh cielo, e ora quale sarà la nuova meravigliosa scoperta? - domandò Eleanor ad alta voce, facendo ridere le altre.
- Ragazze, ragazze, ragazze! - Roxy sembrava piuttosto impaziente. E parecchio urlante. - Domani sera dovete venire con me al tendone. Sembra ci sia una nuova band in città!
Ellen fece un passo in avanti con aria solenne. - Amica, tu lo sai, dove c’è una band ci sono io.
- E di chi si tratta? - chiese Becky, curiosa.
- È questo il bello, nessuno lo sa! Non vogliono svelare la propria identità fino al concerto, non possiamo non esserci! Sarà una figata!
Becky sbuffò, sapendo che si sarebbero fatte convincere, alla fine, e sorrise.
Eleanor inarcò un sopracciglio. - Almeno ce l’ha un nome, questa band?
- Sembra si chiamino 5 Seconds of Summer.



Argh.

Ho poco da dire. Questa è la mia prima Fanfiction sui ragazzi e, devo ammetterlo, è stato un pochino emozionante scriverla, anche se non saprei descrivere bene il perché.
Ognuno di questi personaggi è un pezzo di me, sento particolarmente mia la storia di Ellen e Michael, è piuttosto personale. Ma ripeto, ognuno di loro ha qualcosa di me, un tratto caratteristico, un atteggiamento, un'attitudine, un bisogno.
E siccome non voglio annoiarvi ulteriormente, vi lascio sperando che questa storia un po' strana vi sia piaciuta e vi invito a farmi sapere che ne pensate anche perché, essendo la prima volta che scrivo in questo fandom, non avevo idea di come districarmi ahahah
Un abbraccio a tutti.

Figlia di un pirata


 

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: Figlia di un pirata