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Autore: mattmary15    07/02/2016    1 recensioni
Costantinopoli, Maggio 1943.
Londra, Settembre 1966.
Venezia, Febbraio 1996.
Katrina, Caterina e Kate. Le unisce un filo rosso fatto di sangue e un uomo che ha scelto l'oscurità per amore. Una vita sola non è bastata a Daniel per spezzare il legame di sangue e orrore che Vlad ha portato nella sua esistenza. Riuscirà a farlo prima che sorga la sua ultima alba?
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Come tutto ebbe inizio


29 Maggio 1453

Costantinopoli brucia.
Nulla può essere più salvato. Le gambe mi trascinano attraverso l’inferno di sangue e cenere che ha invaso le strade della città e che ha trasfigurato la facciata della chiesa di Santa Sofia nella porta degli inferi.
Ogni cosa è in rovina. Faccio fatica a credere che questa sia la città della leggenda. Ora tutto mi sembra una follia. Eppure, nonostante la mia disperazione, la mia totale sconfitta, non posso ancora lasciare questo luogo nemmeno morendo. Sono ferito. Non durerò ancora a lungo ma ho un ultimo compito da assolvere.
Forse Dio non salverà me ma lei ha sempre creduto. Lei aveva fede. Lei avrebbe voluto che lo facessi.
Raggiungo la pesante porta della Cattedrale. Il palazzo delle Blacherne ormai è alla mercé del nemico. Le mura sono cadute. Non resta molto tempo. Percorro la navata centrale. Coloro che credevano nella protezione divina e si sono rifugiati nella chiesa ora giacciono senza vita fra le macerie. Forse gli arazzi caduti sui loro corpi danno finalmente un senso al pregio della loro fattura.
Sollevo lo sguardo oltre l’altare e le forze mi abbandonano. Cado in ginocchio davanti all’altare sporco di fuliggine e sangue.
La tela della Vergine non c’è più. Io, Daniil Hunyadi, ho fallito anche quest’ultimo compito. Forse è per questo che Costantinopoli è stata abbandonata da Dio. La leggenda diceva che fino a quando la Vergine con la spada fosse stata esposta nella cattedrale, nessun nemico avrebbe potuto prendere la città. La tela è stata rimossa. Non ho fatto in tempo ad impedire che cadesse nelle mani nemiche come mi ha ordinato il Patriarca di Costantinopoli. 
Nulla m’impedisce di porre fine al mio tormento adesso ed è questo pensiero che mi porta a credere che lo spettro davanti a me sia reale.
Sorrido di me stesso. Se proprio devo farmi tormentare dai fantasmi, che sia quello di Katrina, il mio unico amore, a raggiungermi e ad accompagnarmi oltre questa vita. Invece una mano pallida e fredda si posa sulla mia spalla. Non appartiene al mondo dei vivi la donna che mi accarezza e mi guarda con gli occhi gelidi della morte. Io l’ho vista distesa in una bara non meno di sei lune fa eppure è in piedi davanti a me. I suoi capelli corvini sono lucenti e contrastano in modo deciso con il pallore dell’incarnato. Conosco il suo nome ma temo di pronunciarlo. Se mi rispondesse, vorrebbe dire che oltre ad essere in fin di vita, sono completamente impazzito. Sorride ora e gira intorno all’altare guardando la cornice vuota del dipinto della Vergine con la spada.
“Sei arrivato tardi, soldato.” Dice con una voce sottile e tagliente.
“Tu sei uno spettro.” Rispondo cercando di mantenere ciò che resta di una lucidità che mi sta abbandonando insieme al sangue che sgorga dalla ferita che ho riportato al fianco.
“Sono reale invece. Tu mi conosci.” Mi contraddice con calma e non sembra preoccupata del fatto che la chiesa potrebbe crollarci addosso da un momento all’altro.
“Somigli a Sophia, la nipote dell’imperatore Sigismondo, che fu data in sposa a Vlad di Valacchia e che perì un anno dopo le loro nozze.”
Lei stringe un pugno e si ferma.
“Io sono Sophia di Boemia. Dici bene cavaliere. Fui data in sposa a Vlad principe di Valacchia e fui da lui tradita. In verità ha tradito molti altri oltre che me.”
Le sue parole sono come lame nel mio petto. Molte cose sono accadute dal giorno in cui credetti che Vlad III fosse un eroe, un uomo coraggioso in grado di porre fine alle sofferenze del popolo cristiano, di liberarlo dalla crudeltà di Maometto II e del suo esercito. Eppure, mentre sento l’ultimo anelito di vita abbandonarmi, la voce di questo fantasma mi trasmette ancora più rabbia di quanta io non ne abbia provata sino ad ora.
“Nulla ha più importanza. Anche il fatto che tu sia ancora viva nonostante abbia partecipato al tuo funerale.”
“Forse è come dici, Daniil cavaliere bianco dell’ordine del drago. Se ti dicessi, però, che colei per cui ti sei inflitto tante sofferenze non vaga tra i morti ma appartiene ancora a questo mondo, troveresti la forza di ascoltare le parole di questo spettro?”
Mi porto una mano alla ferita al fianco che mi spinge a piegarmi quasi come se il mio cuore, udendo quelle parole, abbia pompato un po’ più forte il sangue dentro le mie carni lacerate. Sophia si sporge in avanti e con una mano mi solleva il mento perché la possa guardare negli occhi. Ho solo una domanda per questo demone.
“Lei è viva?”
“Lo è. Vlad l’ha condotta a Targoviste. Vi ha raccontato che è stata vittima di un’imboscata dei musulmani per liberarsi di te e di suo fratello Ivan. Non sapete niente di Vlad.”
“Vuoi farmi credere che è stato qui, che ha portato via Katrina e che ha lasciato sua moglie a morire?”
“Te lo ripeto. Tu non sai niente di Vlad e non sai niente di me. Se mi aiuterai nella mia vendetta, io ti aiuterò nella tua.”
“Di cosa devo vendicarmi?”
“Lo scoprirai presto.”
Mi supera e si incammina oltre i corpi dei morti. I suoi piedi bianchi e sporchi quasi non toccano terra. Conficco la spada nel terreno e faccio leva per rialzarmi. Se Katrina è viva, io non posso morire. La seguo consapevole che sto seguendo una creatura talmente lontana da Dio che nulla di quello che potrò fare da oggi in poi mi potrà mai restituire la mia anima.

2 Settembre 1666

Il rumore mi sveglia nel pieno della notte. E’ un suono che conosco bene ma, nel mezzo del sonno, non lo distinguo dagli altri. Mi è familiare eppure non lo riconosco subito forse perché fa da sottofondo ad altri rumori. Un piatto che si rompe, una porta che sbatte, qualcosa che si spezza. Mi alzo e il pavimento di legno della mia camera non è freddo come al solito. Tossisco. C’è fumo nella stanza. Afferro la maniglia della porta ma questa si apre di scatto e mi ritrovo di fronte un uomo. Un estraneo. Rapida, la mia mano corre alla spada che tengo accanto allo scrittoio. L’uomo, occhi scuri incastonati in un viso scarno e bianco, digrigna i denti e mi scaraventa con una sola spinta contro la parete opposta della mia camera.
Sento un dolore alla base del collo e il sapore del mio sangue in bocca. L’uomo salta verso la finestra. Mi accorgo che ha le mani sporche di sangue. Non fa in tempo a lasciare la stanza perché un altro uomo lo raggiunge e lo tira indietro. Combattono. Sembrano straordinariamente forti e veloci.
Approfitto della situazione per guadagnare la porta. Raggiugo le scale e comprendo che il rumore che mi ha svegliato è prodotto dalle fiamme che stanno divorando il piano terra dove è situato il panificio della mia famiglia. Torno indietro e raggiungo la stanza dei miei genitori. Apro la porta e li vedo. Mia madre giace riversa nel letto con la gola squarciata, mio padre è finito per terra con l’osso del collo spezzato. Il mio cuore perde più di un battito. Il mio pensiero vola a mia sorella. Corro verso la sua stanza. La mia mano trema mentre apro la porta. Chiudo gli occhi mentre entro e li riapro lentamente. E’ rannicchiata in un angolo. Le sue manine di bimba abbandonate ai lati del corpicino. I sui occhi pieni di lacrime sono ancora aperti. Un taglio profondo le segna il collo. La sua camicina da notte è macchiata di sangue. I miei singhiozzi sono coperti dalle urla che vengono dall’esterno. Mi chino e la sollevo. La sistemo sul letto e le chiudo gli occhi. Le metto tra le mani il suo coniglietto di pezza ed esco chiudendo la stanza. Mio padre ha una pistola nello studio. Vado a prenderla e torno nella mia camera. I due uomini combattono ancora. Punto l’arma contro quello che ha le mani sporche del sangue della mia Lily e sparo. L’altro uomo mi guarda e mi urla qualcosa che somiglia ad un ‘vai via’. Ho sparato per uccidere. Ho colpito l’estraneo in pieno petto ma lui mi guarda e ride. Senza che possa realizzare come abbia fatto, mi raggiunge e mi solleva da terra afferrandomi per il collo. Mi ucciderà come ha fatto con il resto della mia famiglia. Eppure la morte non arriva. Mi scaraventa contro il muro e fissa i suoi occhi neri nei miei.
“Radu!” urla l’altro uomo come a voler spostare l’attenzione di questo assassino da me.
“Ha fegato, questo stupido!” gli grida l’altro in risposta “Non ci saranno mai abbastanza folli nel mondo, non credi Daniil?” gli sento dire prima di provare il dolore più grande che mi sia mai stato inflitto. Denti aguzzi nella carne del mio collo. Il sangue che dovrebbe fluire fino al mio cervello fuoriesce dalla mia gola succhiato avidamente da questa creatura. Brucia. Non saprei come altro descriverlo. Le forze mi abbandonano e cado per terra. I miei occhi sono incapaci di chiudersi. Per questo lo vedo avvicinare la sua mano ferita alla mia bocca. Mi costringe ad entrare in contatto con il suo sangue. Perdo i sensi.
Non so quanto tempo sia passato quando riapro gli occhi. Le fiammo hanno ormai avvolto tutta la stanza. Mi alzo e mi porto una mano al collo. La ferita non c’è più. Forse ho sognato. Per un attimo penso che anche i miei genitori sono ancora vivi. No, non lo sono. Lo capisco perché tra tutti i rumori che adesso percepisco distintamente come se il mio udito fosse improvvisamente più fine, non sento quello che mi ha accompagnato da che ho memoria di vivere. Non sento più il battito del mio cuore. Mi guardo le mani. Non tremano. Mi affaccio alla finestra e la vedo. Londra in fiamme. Nella piazza sotto la mia casa, tra la gente che urla e fugge, riconosco i due uomini che si sono introdotti nella mia casa.
Non so cosa mi porta a credere che saltare giù dal tetto della mia casa non mi ucciderà. Lo faccio perché probabilmente non ha più senso che io abbia paura di morire.
Mi lascio cadere e toccare il suolo dopo un salto di oltre trenta metri non mi fa niente. Mi nascondo dietro un vicolo e spio i due sconosciuti che ora parlano come se non avessero più fretta di uccidersi.
“E’ finita Radu. I tuoi sono stati tutti trucidati. Credi davvero che potrai fuggire ancora? Non vedrai un’altra notte. Con Londra brucia anche ciò che rimaneva del tuo folle piano. Ora dammi il dipinto.”
“Ci vuole ben altro che la solitudine per uccidermi, Daniil. Avete sterminato i miei adepti? Ne creerò degli altri. Nulla di più semplice!”
“No, Radu, non questa volta. Ti abbiamo inseguito per mezza Europa. Per mesi ti sei nascosto a Londra approfittando del pallore che la peste ha dipinto sul volto degli uomini. Hai mischiato i tuoi miserabili servi ai malati.”
“Miserabili servi? Quei miserabili, come li definisci tu, hanno accettato ciò che sono. Non fingono, come te, di avere ancora a che fare con tutto questo!” dice l’uomo chiamato Radu indicando la folla che fugge dal fuoco che si sta mangiando ogni cosa.
“Io non sono come te!” gli risponde l’altro e Radu ride con cattiveria.
“Illuditi che sia così. Non c’è alcuna differenza tra noi! Tu sei esattamente uguale a me. Un non morto. Ed esattamente come me, vuoi solo due cose: potere e sopravvivenza.”
“Ti sbagli. Io voglio solo vendetta. Quando avrò distrutto finanche il ricordo di tuo fratello, allora potrò anche morire.”
“Se le cose stanno così, ti accontento volentieri subito.” Conclude il non morto lanciandosi addosso all’altro.
Nella colluttazione, Radu perde una pergamena che finisce a bordo strada. L’afferro e la srotolo. Sembra un pezzo di un dipinto raffigurante una donna ma non se ne vede il volto.
Un urlo attira la mia attenzione. Radu ha una lama conficcata nel petto che lo trapassa da parte a parte. Nonostante questo non si arrende alla sofferenza che l’altro sembra riuscire ad infliggergli e riesce a conficcare nel fianco del suo nemico un pugnale. Per qualche istante restano in piedi così. L’uno avvinghiato all’altro senza dare la sensazione che uno dei due stia per cedere.
Sorridono. Cos’hanno da sorridere mi domando. Improvvisamente cade il silenzio.  Non avverto più urla, né rumore del fuoco, né il clangore delle carrozze che fuggono. Solo una voce di bambina che canta una melodia triste, una nenia. La mia disperazione aumenta perché oltre a me la sentono solo i due non morti e questo mi fa capire che sono diventato come loro. Un mostro di una qualche misteriosa natura. Tutto intorno a noi, non sembra incantato da questa voce. Poi la vedo. Una ragazzina di circa quindici anni, magra, con dei capelli lunghi appena sopra le spalle neri come la notte. Indossa un abitino elegante pieno di merletti di un viola scuro. In un paio di mani inguantate porta una specie di urna. E’ lei a cantare. Radu indietreggia mentre l’altro lo trattiene.
“La mamma dice che tu sei davvero molto cattivo, Radu.” Dice la vocina e Radu si svicola dalla presa del suo avversario.
“E così sei arrivato a questo, Daniil, a servirti di una bambina? Credi che non la ucciderò?”
“Non hai ascoltato bene, tu sei cattivo. Io odio le persone cattive.” Continua a dire la bambina e percepisco immediatamente che lei è come loro. Come me.
“Io sono un primo nato. Credete di potermi uccidere?” urla Radu che adesso mostra di avere paura.
“Io non ne sono in grado ma mamma sì.” Conclude lei fermandosi al centro della piazza.
Alle spalle di Radu è comparsa un’altra figura. Quando è arrivata? Una donna dai lunghi capelli neri fasciata in un abito scuro. Radu si volta e indietreggia finendo nella stretta dell’altro uomo che lo blocca.
“Voi non potete uccidermi e lo sapete!”
La donna allunga una mano verso la ragazza e si fa consegnare l’ampolla.
“Tu verrai ridotto in cenere stanotte. Nulla potrà salvarti, Radu. Ti rendo la gentilezza che mi mostrasti quando tuo fratello mi tradì.” Dice facendo un cenno all’altro uomo che con un coltello, recide la gola di Radu. Il sangue che sgorga dalla ferita è nero e denso. Il non morto cade a terra e il suo nemico gli taglia la testa con un colpo secco della sua spada. La donna pronuncia delle parole in una lingua che non sono in grado di comprendere e gli getta addosso il contenuto dell’ampolla. Si volta e tende una mano alla ragazza che le corre addosso e la stringe. Si allontanano insieme e spariscono nel fumo che ha appestato l’aria. Il guerriero afferra un tizzone che brucia poco distante e da fuoco al corpo. Una serie di scintille si sprigiona dai resti che si consumano in pochi istanti.
Ho assistito a più nefandezze in poche ore stanotte che in una vita intera e forse è per l’indifferenza con la quale le ho accettate che mi stupisce vedere quella creatura piangere. Mentre nei suoi occhi ancora si riflettono le fiamme di quel macabro falò, dense lacrime scivolano sul suo viso. Stringe un pugno e d’improvviso si volta nella mia direzione. Punta quei suoi occhi cobalto su di me. Mi schiaccio d’istinto contro la parete e poi comincio a correre lontano da lui, da quella piazza, da quelle fiamme.
Quando credo di essermi allontanato a sufficienza, mi fermo. Non sento fatica. Non sento nulla. Mi accorgo solo in questo momento che stringo ancora quel pezzo di quadro che sembrava la causa del loro confronto. Un rumore mi fa scattare. Mi volto e lo vedo. Immobile, avvolto in un mantello blu fuori e bianco all’interno. Indietreggio ma so che non servirà a salvarmi. Ha la mano stretta intorno all’elsa.
“Ti avevo detto di andare via quando ancora potevi. Ora è troppo tardi.” Dice con una voce severa ma triste. Sembra dispiaciuto per quello che mi è successo ma io non sono più in grado di ragionare. Ho paura di morire anche se sono già morto. Ho paura di estinguermi ed è una sensazione animalesca.
Lui avanza verso di me.
“Puoi rendere tutto molto veloce o soffrire. A te la scelta. Dammi il dipinto.”
Vengo distratto da una figura che, correndo, finisce casualmente nella strada a pochi passi da me. E’ una giovane donna in cerca d’aiuto. E’ stanca e in preda al panico. Odora di sangue. I miei sensi si acuiscono. Non avevo mai pensato che il sangue avesse un odore.  Le afferrò un braccio e lei mi guarda con occhi carichi di speranza. Non immagina che io semplicemente voglia sbranarla. Si aspetta aiuto.
“Lasciala andare.” Dice di nuovo il guerriero con voce ferma.
La donna mi guarda ora con il timore nello sguardo. La vedo già abbandonata tra le mie braccia mentre le mordo il collo e le succhio via la vita dal corpo eppure la lascio andare. Lei scappa in un vicolo. Non farà parte di questa brutta storia. Io cado in ginocchio e lascio andare il dipinto.
“Fallo in fretta.” Dico soltanto. E sono sincero. Per una frazione di secondo ho capito quale destino attende una creatura come me e non mi piace per niente. Lui si avvicina e solleva la spada. Forse brucerà anche il mio corpo. Un tremito mi attraversa e con la mente vado a Lily.
“Alzati.” Mi sento dire e sollevo lo sguardo. “Io sono Daniil Hunyadi. Tu non meriti di morire. Ciò che ti è capitato stanotte è la peggiore delle disgrazie tuttavia se lo vorrai, ti insegnerò a conviverci.”
Mi alzo e lo fronteggio. Non è molto più alto di me.
“Io sono Victor Farrinor. Forse è meglio se mi uccidi ora. Non credo di essere più la persona che ero fino a qualche ora fa.”
“Nessuno è più lo stesso dopo. Una parte di te però, una piccola parte, la più profonda e vera, rimane sempre ed è questo a rendere dolorosa la sopravvivenza per quelli come noi.” Dice rinfoderando la spada.
“Non ho più niente. Neanche una ragione per vivere. Quel Radu, lo hai ucciso. Non posso più neppure vendicare la mia famiglia.” Dico guardandomi le mani.
“Jacques Savoy.” Mi risponde voltandosi e incamminandosi in un vicolo “L’ha creato Radu. Ora che lui non c’è più, prenderà le redini dell’ordine del drago al suo posto. Vuoi vendicarti? Ora hai un nome.”
Lo seguo senza neanche rendermene conto.
“Daniil” dico sottovoce “ho fame.”
Lui si ferma e mi guarda.
“Regola numero uno. Noi non uccidiamo esseri umani. Ti insegnerò a procurarti ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Regola numero due. Noi siamo invisibili. Nessuno deve fare caso alla nostra presenza. Regola numero tre. Dimentica ciò che sei stato. Ora sei un cacciatore. Non hai più un cognome, una famiglia, un luogo da chiamare casa.”
Lo ascolto anche se i miei occhi lo oltrepassano e raggiungono il profilo del quartiere di Londra in cui ho vissuto e che adesso crolla sotto il mio sguardo e quelle parole. Non appartengo più a questo mondo. Non sono più vivo e non sono ancora morto. Non del tutto almeno. Anche se la sete di sangue mi sta torturando, sono grato a questa creatura che mi ha risparmiato. Se lui ritiene che questa mia possa essere considerata ancora vita, allora io l’accolgo e fino a che sarò in piedi userò ogni fibra del mio essere per vendicare la famiglia di cui facevo parte e che stanotte è stata cancellata.

Venezia 08 Febbraio 1996

Guardo le macerie e non riesco ancora a credere che sia vero. Forse il teatro potrà rinascere dalle sue ceneri come l’uccello mitologico cui si erano ispirati per dargli un nome. Mia madre, invece, è morta. Nessuno potrà restituirmela. Hanno detto che è rimasta chiusa dentro i camerini e che il fumo l’ha soffocata. Non ha sofferto, hanno detto. Mia madre è bruciata nel rogo della Fenice. Nessun corpo da seppellire.
E’ carnevale a Venezia. La gente viene nel nostro negozio a comprare maschere e Lisa mi sostituisce nel dare loro notizie sulla città e sui vari significati dei costumi.
Mio padre ha fatto tenere una piccola funzione nella chiesa del nostro quartiere. Solo io, lui, Lisa che lavora con noi e la zia Nicoletta. La nonna, che vive ancora a Chester, ha mandato un uomo a consegnarci alcuni effetti che la mamma aveva lasciato dopo il suo matrimonio con papà. Mi sarebbe stato di conforto vederla. Ho bei ricordi della nonna Anna nonostante papà non voglia mai parlare di lei e dei motivi che hanno portato al suo allontanamento. A quanto pare è molto malata e non ha potuto affrontare il viaggio per il funerale della figlia. Ci hanno riferito che il dolore l’ha distrutta. Ho provato a proporre a papà di andare a trovarla ma ha rifiutato. Ha accampato le solite scuse sul negozio che non può restare chiuso nel periodo di carnevale. Come se gliene importasse davvero dopo la morte della mamma. Anche se non mostra il suo dolore davanti a me, io lo sento piangere ogni notte. L’amava molto. Come si poteva non amare la mamma? Era bellissima, intelligente, dolce. Quando cantava, ammaliava chiunque. Adorava il suo lavoro. Passava più tempo che poteva al teatro. Nonostante non fosse divenuta una stella di fama internazionale, era molto apprezzata in Europa e si esibiva regolarmente nella compagnia del teatro La Fenice. Provava anche la sera che è morta, hanno detto. Quando ero più piccola, mi portava spesso con sé. Con il passare degli anni ha smesso di farlo. Diceva che ero troppo cresciuta e  che mi annoiavo ad ascoltarla. Non era vero. L’avrei ascoltata cantare per ore ed ore. Qualche volta, quando lei andava a cambiarsi nei camerini, salivo sul palco e cantavo l’aria della timida Christine del Fantasma dell’Operà.
Mia madre é morta e ciò che mi resta di lei è chiuso in una scatola che uno sconosciuto mi ha portato dall’Inghilterra. Come fa la vita di una persona a stare dentro una scatola?
Una volta a casa, l’ho aperta pensando di trovarci un qualche vecchio tesoro o una lettera misteriosa. La verità è che la vita delle persone è più semplice di quanto non pensiamo. Si nasce, vivendo incrociamo la nostra con la storia di altre persone e poi si muore. Nella scatola ci sono vecchie fotografie, qualcuna di me neonata, qualche altra di mia madre e della nonna, un paio di braccialetti e un ciondolo a forma di chiave e un libro sulla storia della rivoluzione russa.
Mentre passo le mie dita su questi oggetti penso che non la rivedrò mai più. Prendo la scatola e la porto di sopra, in soffitta. E’ un posto dove teniamo gli oggetti più cari dato che a Venezia l’acqua alta è sempre in agguato, pronta a prendersi una parte delle cose che fanno parte della nostra vita di tutti i giorni. Raggiungo una vecchia cassapanca coperta da una altrettanto vecchia coperta. L’odore del legno mi riporta indietro nel tempo a quando io e la mamma venivamo quassù a riporre le maschere che avevamo disegnato per noi stesse. Dentro la cassa è pieno di cose nostre. Sollevo una scatola del corredo della nonna Anna e la apro. All’interno c’è solo un vestito nero. E’ logoro ma pulito. La nonna lo aveva regalato alla mamma ma lei non lo ha mai neppure tolto dalla scatola. A me piace ma lei diceva sempre che le cose morte devono rimanere tali. Non ho mai veramente compreso perché madre e figlia abbiano smesso di parlarsi. Per quante incomprensioni ci possano essere tra una madre e una figlia, non accetto che un rapporto tanto importante sia finito così. Ora lei è morta e la nonna la piange da lontano. Odio l’idea che ci sia ancora qualcosa che potevo dire alla mamma. Ripongo la piccola scatola che contiene le sue cose insieme all’abito e richiudo la cassapanca. 
Mentre sto per rimettere la coperta sulla panca, mi accorgo che dalla scatola è caduta una foto. E’ in bianco e nero ed è datata 1918. Ritrae una donna con in braccio un ragazzino. La donna somiglia alla mamma e potrebbe essere la nonna. Non ho idea di chi sia il ragazzino. Da quanto ne so, la nonna non aveva fratelli né sorelle. Ciò che mi colpisce è il  bottone sulla giacca del bambino. Raffigura un drago che si morde la coda ed è identico a quello che ornava il cappotto dell’uomo che ha consegnato la scatola con gli effetti personali della mamma a mio padre. Era alto e composto, capelli neri e un paio d’occhi blu pieni di tristezza. Troppo giovane per essere un amico della nonna, forse un amico della mamma. Papà non me ne ha parlato. Lo ha congedato in fretta.
Torno nella mia camera e mi sdraio sul letto. Sul comodino c’è una nostra foto. Piango. Un rumore mi scuote. In casa non c’è nessuno. Scendo lentamente le scale. Lisa è già andata a casa e mio padre ha accompagnato la zia Nicoletta alla stazione. Forse non ho chiuso la porta del negozio.
Entro nella bottega dalla porta che la collega alla mia abitazione. Ormai è buio e il negozio è immerso nell’oscurità. Accendo solo le luci di emergenza che sono collocate in basso sulle pareti della stanza. Ne prendo una e vado verso il salottino di prova dei costumi. I manichini sono stati vestiti con gli abiti che alcuni nobili tedeschi ci hanno ordinato per la grande festa nel palazzo del doge del martedì grasso. Sembrano vivi. Non c’è nessuno. Forse ha semplicemente sbattuto una finestra rimasta aperta. Spengo le luci ma quando sto per chiudere la porta mi sento tirare all’indietro.
“E’ un piacere conoscerla, zarina.” Dice una voce sinistra “Mi consegnerebbe il terzo dei quattro senza fare troppe storie? Sa, ho fatto un lungo viaggio e sono stanco. Non sono di buona compagnia quando sono stanco.”
Mi stringe ma non così forte da non consentirmi di rispondergli. Sento uno strano profumo, come di rose.
“Non so di cosa parli. Lasciami andare, tra poco mio padre sarà di ritorno. Se te ne vai ora, farò finta di nulla, lo prometto. Qui non ci sono molti soldi ma quelli che sono nella cassa sono tuoi, prendili.” Lui ride.
“C’è qualcosa di molto più prezioso dei soldi qui dentro.” Risponde. Provo a sollevare lo sguardo ma lui mi blocca. Non vuole che lo guardi in viso ovviamente.
“Ti ho detto che non so di cosa parli.”
“Sei tale e quale a tua madre. Deve essere il ceppo dei Vasilevic. Resistenti per natura. Sta attenta, mia cara. Se rimani troppo rigida, finirai per spezzarti.” Le sue parole mi gelano. Il riferimento a mia madre non me lo aspettavo e ora ho paura. Come fa a conoscere mia madre?
“Chi diavolo sei tu?” chiedo con un tono di rabbia mista a paura.
“Scorretto. La domanda è chi diavolo sei tu, cara.”
In quel momento la luce va via. Io sento la presa allentarsi e rumori di oggetti che cadono. Nella stanza c’è un’altra persona. Sollevo la luce d’emergenza e vedo due figure lottare. Infrangono la vetrina e finiscono in strada. Li seguo. Uno dei due si ferma un’istante e guarda verso di me.
“Torna in casa.” Dice con un urgenza ma la sua voce è ferma e bassa. L’altro si è dato alla fuga.
“Aspetta!” urlo d’istinto e, incredibilmente, lui si blocca. Non si volta, probabilmente neanche lui vuole farsi vedere in viso.
“Non avvicinarti.” Dice piano sottovoce. La luna illumina il suo profilo e fa scintillare il bottone sul polsino del suo cappotto. Un drago che si morde la coda.
“Chi sei? Chi era quell’uomo? Cosa voleva da me?”
“Ti basti sapere che non lo vedrai mai più.” Risponde allontanandosi velocemente. I vicini hanno chiamato la polizia perché li sento vociare alle finestre. La vetrina in cui erano esposti i costumi di Maria Antonietta di Francia e del duca di Fersen è distrutta. Cerco di sollevare la povera regina e mi accorgo che uno di quei bottoni è rimasto impigliato nell’intelaiatura della vetrina. Lo prendo e lo infilo nella tasca dei jeans un attimo prima che la polizia arrivi sul posto.
Mio padre arriva quasi contemporaneamente alle forze dell’ordine. Mi abbraccia e mi chiede cosa è accaduto.
Gli racconto dei rumori, della colluttazione nel negozio e della fuga dei due uomini. Ometto i dettagli della mia conversazione con uno degli intrusi.
Quando la polizia va via con i rilievi sul posto, mio padre è cupo in volto.
“Papà, va tutto bene? Non preoccuparti per i danni. Pagherà l’assicurazione.”
“Lo so.”
“Allora no preoccuparti neppure per me. Io sto bene.” Lui mi abbraccia. Mi sembra il momento giusto per fargli questa domanda.
“Papà, credi che la mamma sia morta a causa dell’incendio?” Lui mi allontana da sé e mi guarda negli occhi.
“Perché mi fa una domanda simile, Caterina?” Io guardo per terra. Mi fa effetto essere chiamata così. In effetti è il mio nome. Caterina Fabris anche se agli uffici del registro di Chester, città dove sono nata, sono stata iscritta come Katrine e quasi tutti mi chiamano Kat.
“E se la mamma si fosse sentita male la sera dell’incendio? E se fosse stata chiusa per sbaglio nel teatro? E se piuttosto l’avessero costretta a rimanere la dentro?” Mio padre mi scuote per le spalle con dolcezza.
“Caterina, smettila. Non dire cose simili. Beth adorava il suo lavoro. E’ stata una tragedia. Non torturarti in questo modo.”
“Sì papà. Hai ragione. Scusa, non volevo turbarti.”
“Sta tranquilla.”
“Vado di sopra. Chiudi tu a chiave?”
“Sì.” Mi dice lasciandomi andare.
Raggiungo la mia camera e prendo il bottone dalla tasca dei jeans. Guardo in strada dalla finestra. Ripenso alle parole del mio aggressore. ‘La domanda è chi diavolo sei tu.’ Chi sono io ora che mia madre è morta? Lei è stata quasi tutta la mia vita fino ad ora. Mi rigiro distrattamente il bottone tra le mani e il vento che si alza dalla laguna mi fa rabbrividire. Le parole di mio padre non sono riuscite a tranquillizzarmi e, soprattutto, non credo che riuscirò più a dimenticare la voce dell’uomo che mi ha salvata stanotte. La polizia ha detto che si è trattato di un regolamento di conti tra due malviventi ma io so che non è così. Uno dei due mi ha salvato e io, prima o poi, scoprirò cosa li ha condotti stanotte in una Venezia che non è mai stata così fredda.

 

  
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