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Autore: Medea00    08/02/2016    0 recensioni
La storia Malec vista attraverso una raccolta di missing moments, da prima che si conoscessero fino agli avvenimenti delle Cronache dell'Accademia Shadowhunters.
Copertina di cassandrajp
“Tu ti senti… voglio dire, sei felice?”
Magnus si voltò verso di lui, abbandonando momentaneamente il libro per prendergli il volto tra le mani. Amava che al guerriero valoroso, di gran lunga il piú maturo trai suoi coetanei shadowhunters, si contrapponesse un animo così tanto innocente ed umile.
“Mio caro Alexander, poche volte nella mia lunga vita sono stato tanto felice come ora.”
“Davvero?” Gli occhi dello shadowhunter si erano fatti più grandi e luminosi. “Non lo dici solo per farmi contento, vero?”
Magnus emise una piccola risata, dandogli un dolce bacio sulle labbra: “Non ti mentirei mai su questo. E devi credermi quando ti dico che, con te, la mia vita è cambiata per sempre. Te l’ho già detto una volta e lo ripeterò quanto serve: sei tutt’altro che insignificante.”
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo 1

Prima di Magnus

“Non ordinare i piatti delle fate” – disse Jace guardandola da dietro il menù. – “Tendono a mandare fuori di testa gli umani. Un minuto prima ti stai ingozzando di prugne fatesche e un minuto dopo ti ritrovi a correre nudo lungo Madison Avenue con delle corna di legno che ti spuntano dalla testa. Non – aggiunse immediatamente – che questo sia mai successo a me.”
Alec scoppiò a ridere. – Ti ricordi… - iniziò, e si lanciò in una storia che conteneva così tanti nomi di cose e creature misteriose che Clary non cercò nemmeno di seguirla. Ne approfittò per osservare Alec mentre parlava con Jace.C’era in lui un’energia cinetica quasi febbrile che non aveva prima. Era qualcosa in Jace ad attivarla, ad accendere quella scintilla. […] Mentre Alec parlava, Jace guardava in basso, sorridendo leggermente e tamburellando con le dita sul suo bicchiere d’acqua. Clary sentiva che stava pensando a qualcos’altro.  Provò un improvviso lampo di solidarietà nei confronti di Alec. Non doveva essere facile voler bene a Jace. […]
Jace sollevò lo sguardo al passaggio della cameriera. – Credi che prima o poi ci arriverà un po’ di caffè?  - disse ad alta voce interrompendo Alec a metà di una frase. Alec si spense, come se avesse finito le energie.
Città di Ossa, Capitolo 11.



Jace era di fronte a lui, i capelli scompigliati e visibilmente stanco, ma vivo. Alec gli aveva appena salvato la vita, trafiggendo con la sua spada angelica un demone in procinto di attaccare Jace alle spalle. Si era dissolto in una nuvola simile alla cenere, dall’odore di zolfo.
“Grazie”, gli disse Jace, gli occhi dorati pieni di ammirazione, luminosi. “Non saprei cosa fare senza di te, Alec.”
E Alec sorrise, senza la minima ombra di imbarazzo, mentre con fare spavaldo riponeva la spada nella fodera. Era stato un eroe, il suo eroe. Era una bella sensazione, lo faceva sentire bene.
“Siamo parabatai, dopotutto”; Jace si fece più vicino e con voce soffusa aggiunse, “Non vorrei essere il parabatai di nessun altro. E non solo perché sei un guerriero eccezionale, Alec.”
Il cuore di Alec cominciò a battere più forte. Cosa stava succedendo? Cosa stava per dirgli?
“Devo dirti una cosa”, lo sentì confessare, tanto che Alec fece un passo verso di lui e rispose “Anche io. In effetti, dovevo dirtelo da tanto tempo…”
Erano così vicini. Così vicini. Bastava solo bisbigliarlo. Due parole, un soffio di vento, un battito di ciglia…
 

Doveva smetterla di fare certi sogni.
Alec si svegliò nel cuore della notte con uno scatto, la maglietta sgualcita bagnata di sudore e i pantaloni che gli si erano incollati alle gambe. Le lenzuola erano umide, accartocciate tra di loro, le mani tremavano mentre stringeva il cuscino.
Sembrava che avesse appena avuto un incubo, da quanto era spossato; non poteva essere più lontano dal vero. Alec aveva sognato quello che desiderava da troppo tempo, ormai, e che dentro di sé sapeva di non poter avere.
Perché Jace non lo vedeva affatto in quel modo, e non gli avrebbe mai rivolto parole simili a quelle del sogno.
… Giusto?
La porta risuonò con due tonfi secchi, che lo fecero sussultare e perdere la concentrazione dai suoi stessi pensieri. Si chiese che ore fossero, il sole era ben alto nel cielo da quanto poteva intuire attraverso le tapparelle.
“Alec! Che stai facendo? La colazione è pronta da venti minuti, muoviti!”
Sua sorella Isabelle non aveva mai avuto una gran pazienza, e ne aveva ancora meno quando si trattava di dover tirare giù dal letto gli altri; di solito era lei la ritardataria, lei la noncurante che, con un cenno della testa atto solo a smuovere i suoi lunghi capelli, si giustificava dicendo “siete tutti uomini, non potete capire le esigenze di una donna”.
Per fortuna Alec era dotato di abbastanza pazienza per entrambi. Imprecò sottovoce, conscio del suo visibile ritardo, e scattò fuori dal letto con leggerezza. Si sarebbe fatto la doccia dopo l’allenamento mattutino, pensò, anche se forse era proprio il caso di raffreddare gli spiriti con una doccia fredda.
Hodge aveva già mangiato e si era chiuso nella biblioteca, come era suo solito fare; Alec ormai era abituato alla sua presenza-assenza, così come era abituato a quello stile di vita, a tal punto da amarlo: dopotutto, cosa poteva chiedere di più? Sebbene talvolta avvertisse in modo più cocente la mancanza dei suoi genitori e del suo fratellino Max, vivere con Jace e Isabelle, loro tre contro il resto dei demoni, era tutto ciò di cui aveva bisogno. Li avrebbe protetti, come sempre aveva fatto; li avrebbe consigliati, specialmente quando l’impulsività di uno dei due avrebbe preso il sopravvento; ma, soprattutto, ci sarebbe sempre stato per loro. In ogni occasione.
Non desiderava altro: non voleva essere il più abile spadaccino tra gli Shadowhunter, come Jace; non voleva essere il più affascinante, come Isabelle. Semplicemente voleva essere tutto ciò di cui avessero bisogno.
Quando arrivò in sala da pranzo, Isabelle era già in tenuta da allenamento, un reggiseno sportivo e dei leggins aderenti, mentre Jace era vestito più o meno come lui, pantaloni e t-shirt nera, con la sola differenza che gli abiti di Jace sembravano meno deteriorati dei suoi. Si sedette davanti a lui, scambiandosi un “buongiorno” un po’ trascinato. Alec pensò che era affascinante anche così: un po’ assonnato, con i suoi capelli biondi che gli cadevano pigramente sugli occhi, chino a inzuppare un cornetto nel suo caffè.
“Hai visto l’Angelo?” Chiese Jace. Alec si destò dal suo momento di trance sbattendo più volte le palpebre: “Ho visto cosa?”
“Hai un’espressione strana. Che hai sognato stanotte?”
Per l’Angelo, a volte odiava il loro legame parabatai, che permetteva a Jace di osservarlo così attentamente; oppure, forse, il legame non c’entrava niente. Forse era solo lui ad essere un libro aperto con le espressioni, e quella cosa era decisamente un’arma a doppio taglio.
“Non ricordo”, mentì spudoratamente, facendo finta di essere concentrato a spalmare la marmellata sul pane, “Mi ha svegliato Isabelle di soprassalto, ecco perché sono così.”
“Ringraziami che l’ho fatto!” Ribatté lei stizzita; Alec le rivolse un sorriso comprensivo, e la sorella gli fece una linguaccia, come per far capire che non fosse davvero offesa.
Finirono la loro colazione parlando del più e del meno; o meglio, Isabelle e Jace parlavano, e Alec ascoltava come suo solito, sorridendo, a volte accennando ad una risata quando Jace diceva qualcosa di particolarmente divertente. Non era mai stato un ragazzo loquace, e non voleva esserlo: era seriamente convinto che un suo intervento, in qualsiasi conversazione, non avrebbe apportato nessun tipo di contributo. A volte, però, gli capitava di voler attirare l’attenzione di Jace. Di stabilire un legame, come per ricordargli che lui c’era, era lì.
Si allenarono come ogni mattina e, dopo la doccia, andarono a mangiare qualcosa da Taki, perché nessuno dei tre aveva voglia di cucinare. O meglio, Isabelle sì, ed era proprio quello il motivo per cui decisero di andare da Taki; Alec non si era ancora ripreso dall’ultimo “risotto” della sorella.
Il pomeriggio ricevettero una segnalazione di alcune pixie dispettose a Central Park, che scatenavano mulinelli dal niente e li scagliavano contro i passanti. Fu paradossalmente più spossante di dover uccidere dei demoni-drago: le pixie sono piccole, agili e fastidiose. Alec sperò soltanto che i suoi fratelli mantenessero la calma abbastanza a lungo da non incendiarle per uno scatto di rabbia.
Isabelle fu la prima a perdere la pazienza con una di loro, abbandonando il retino in favore della sua amata frusta; Alec dovette parare un colpo con il suo stesso braccio, per evitare che uccidesse quella fatina ridacchiante. In fondo non c’era bisogno di ricorrere alla violenza estrema, non in quel caso. Jace invece abbandonò il tentativo dopo la prima ora, scagliando armi e retini a terra e annunciando “Non le sopporto più queste nane malefiche, io vado a farmi un hamburger”. Alec non gli aveva dato retta, sapeva che il suo parabatai sarebbe tornato. E così infatti fece, dopo nemmeno dieci minuti, perché sotto sotto gli dispiaceva lasciare Alec a cavarsela con quell’orda di pixie volanti, e non lo avrebbe mai lasciato solo. Raccolse le sue cose, rimettendo tutto apposto tranne il retino, si avvicinò ad Alec e disse soltanto: “Così non funziona, non possiamo fare gli apicoltori per tutto il giorno.”
Alec si fermò un attimo, raccogliendo la sua quinta pixie e mettendola in un barattolo magico, destinato alla regina Seelie. Rifletté con calma, mentre una pixie tentava di colorare i capelli di Jace di rosa, e lui la stava scacciando come si scaccia una mosca.  Alec ridacchiò, gli sarebbe piaciuto vedere Jace in rosa, non tanto per il colore ma per vedere il suo volto contratto dalla rabbia. Decise di porre fine alle sue sofferenze ed ebbe un’idea: chiamò Isabelle, che si era già allontanata da tanto, e le ordinò di portare una cosa. Jace non capì immediatamente a cosa si riferisse, fino a che non vide la sorella tornare con una busta di bacche fatate di Taki, dall’odore delizioso.
“Mi sono fatta dare le migliori che aveva.”
“Ottimo sorellina”, disse Alec, dopodiché posizionò le bacche in una zona un po’ appartata del parco, dove i mondani non passavano spesso. Anche se fosse, avrebbero solo visto una insolita folata di vento. Prese i retini dei suoi fratelli e li strappò, per farne uno più grande e capiente. A Jace si illuminarono gli occhi, cogliendo finalmente il punto della situazione. Aiutò Alec a sistemare il retino e si nascosero dietro a un cespuglio; Isabelle salì sull’albero sopra le bacche, nascosta tra le foglie.
Le pixie non ci misero molto ad arrivare, attirate dall’odore pungente del loro frutto preferito. Quando erano tutte raccolte a mangiare, i tre sbucarono di colpo, formando un cerchio e catturandole un po’ con le mani, ma per la maggior parte con il retino gigante, che impediva a loro di muoversi tramite una runa di pietrificazione.
Spedirono le pixie alla corte del regno fatato, che ovviamente non si degnò di ringraziarli per il lavoro svolto. Dal loro punto di vista, probabilmente, erano solo stati d’intralcio; ma a loro non interessava granché di ricevere lodi forzate.
 

Le porte dell’ascensore si chiusero alle loro spalle, quando finalmente erano tornati all’istituto. Isabelle e Jace brontolarono di avere una gran fame, e Alec era dietro di loro, le braccia conserte, gli occhi che gli si chiudevano malamente per la stanchezza: voleva solo lavarsi la giornata di dosso e dormire per almeno dieci ore, in modo da recuperare un po’ del sonno della notte prima.
Jace si voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata intensa. Alec inarcò un sopracciglio, chiedendosi cosa gli volesse dire.
“Senti… mi dispiace se oggi ho perso la pazienza. Non volevo veramente lasciarti lì da solo.”
“Lo so”, disse Alec. Si fidava ciecamente di Jace. “Figurati.”
“È solo che quelle pixie sono così-“
“Snervanti.”
“Esatto”, ammise, rilassando le spalle e sorridendo al suo amico. Era bello come si capissero in un attimo. Ad Alec cominciò a battere il cuore un po’ più forte; tutto quello gli ricordava il suo sogno, il modo con cui erano vicini, la voce di Jace un po’ imbarazzata per parlare di sentimenti… ma Jace gli rivolse un sorriso sghembo, e riprese a parlare con il suo solito tono beffardo. Gli diede una pacca sulla spalla, come un fratello: “Tutto apposto quindi? Bene, vado a cucinare prima che ci provi Isabelle.”
Alec fu costretto a ricomporsi un secondo, come destatosi da un dejà-vu. Non era per niente come nel suo sogno. Jace non lo aveva guardato pieno di sentimento e ammirazione. Si limitò a sussurrare un “Tutto apposto”, ma Jace era già andato via.
Come sempre. Non aspettava mai una risposta, o che finisse un discorso; quando Jace voleva finirlo, lo faceva e basta. Non era cattiveria, la sua, era solo geneticamente portato a non saper trattare le persone con un’infinita pazienza. E con Alec, a volte, ci voleva. Perché Alec non era come lui, non riusciva a dire le cose senza riflettere nemmeno un secondo. Gli venne voglia di urlare il suo nome, di richiamarlo lì, di dirgli “mi hai fatto una domanda, quanto meno abbi la decenza di aspettare una risposta ”. Magari avrebbe anche aggiunto che gli piace. Così, su due piedi.
Certe volte voleva solo essere ascoltato. Niente più.
Ma il suo scatto d’ira terminò così com’era nato: interiormente, con velocità, perché non poteva davvero essere arrabbiato con Jace, non con lui. Di tutti quei pensieri, restò soltanto un’espressione imbronciata, un po’ spenta; un Alec chiuso, silenzioso, che se ne stava in disparte con Isabelle e Jace che litigavano su chi avesse la meglio sui fornelli, quella sera. Ma una parte di sé si era quasi rassegnata all’idea che avrebbe avuto questa cotta per Jace per sempre, e che lui non ne sarebbe mai venuto a conoscenza. Che in fondo andava bene così, che era giusta così, la sua routine quotidiana: colazione, allenamento, qualche chiamata d’emergenza, struggersi per un Jace che non si sarebbe mai accorto di lui. Non come lui voleva.
Poteva farlo, pensò Alec. Poteva andare avanti così per i prossimi anni. Era felice, dopotutto.
Nonostante tutto.
Isabelle gli chiese che tipo di pasta volesse, e lui si strinse nelle spalle, mormorando un “quello che volete voi”. Jace la prese di peso, spostandola dai fornelli e mettendosi lui al posto suo. Con una mano dosava il sale nell’acqua bollente mentre con l’altra teneva Isabelle a dovuta distanza, facendo finta di non sentire le sue lamentele.
Alec rideva, certe cose non cambiavano mai, e dentro di sé era davvero grato che il suo parabatai si stesse imponendo sulla cucina, perché aveva davvero fame e non aveva voglia di mandare giù a forza il cibo bruciato della sorella. Si stiracchiò sulla sedia, congiungendo le mani dietro la testa, e si rilassò cullato da quell’atmosfera familiare, solida, imperturbabile nel tempo.
Amava la stabilità del loro trio: era convinto che niente e nessuno l’avrebbe minacciata.
Non avrebbe mai creduto a quante cose potessero cambiare in così poco tempo, con l’avvento di una sola, semplice, mondana dai capelli rossi. E l’incontro con uno stregone.


***
Angolo di Fra:
scusate, non mi ero accorta che prima EFP dimmerda aveva tagliato la fine. Ecco qui! Oggi nuovo aggiornamento!
   
 
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