Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Flora    13/02/2016    12 recensioni
In un passato in cui le donne nascevano e morivano sotto l'egida di Padri-Padroni, stritolate in un mondo che le voleva solo sante, madri o prostitute, una giovane sfortunata si trova ad affrontare le conseguenze di peccati di cui non ha alcuna colpa, e per i quali non esiste perdono.
------
Benedetta piangeva e pregava per le sue colpe, quelle nuove e quelle vecchie, pregava anche il giorno che fu portata via, senza un abbraccio, senza che nessuno venisse a salutarla, neanche il Signor Padre, neanche i cani che pure amava tanto. Stringeva forte il rosario tra le mani mentre la carrozza attraversava i lunghi filari di cipressi e varcava il cancello di ferro del convento.
------
Racconto scritto per un'antologia che ha per tema il "senso di colpa".
Genere: Introspettivo, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
L’innocente
 
 
 
Perdonami Padre, perché ho peccato
[Sacramento della Confessione]
 
 
 
 
 
 
Dovresti vederla pregare, Benedetta. Nessuno sa pregare come lei. Inginocchiata sulle ruvide assi di fronte all'altare, le mani giunte a stringere un rosario, sembra una santa che invoca il martirio.
Dovresti vederla mentre le labbra si muovono veloci – santa madre di dio prega per me umile peccatrice – dovresti vedere i suoi occhi fissi sull'icona della Vergine, le ginocchia scorticate dalle schegge di legno, i pochi capelli legati stretti dentro la cuffia e la voce bassa che sussurra e sussurra e sussurra – santa vergine lava via le mie colpe lavami l'anima perché ho peccato sì ho peccato.
Dovevi vederla qualche anno fa, quando era ancora l'amato tesoro di suo padre, la beniamina del Conte, padrone delle terre adagiate tra ulivi verdissimi e filari d'uva grassa e rigogliosa.
Era bella, Benedetta; bella come il grano dei campi da cui aveva preso l'oro nei capelli, gli occhi verdi come acini, la pelle purissima.
Ah, se l'amava suo padre. Si beava della sua vista, la guardava correre tra i vigneti mentre giocava a palla o rincorreva i piccoli levrieri da caccia, la risata infantile che era come musica, e ringraziava il Padreterno di avergli dato una figlia così perfetta, così degna di lui. Poco importava che i parenti – prima – e i maestri – dopo – avessero insinuato che forse (ma solo forse, ché dire di più sarebbe suonato sconveniente alle sensibili orecchie del Conte), Benedetta non era esattamente la creatura più sveglia che si fosse mai vista.
I parenti, si sa, sono infidi per natura, e i maestri si possono sempre cacciare.
E poi, si diceva il Conte, cosa se ne fa una femmina dell'intelligenza? Serve solo a farsi venire le fantasie, a spezzare il cuore ai bravi padri timorati. No, una donna deve crescere devota e sottomessa, trovarsi un buon marito e mettere al mondo tanti bei maschi in salute.
Già se la vedeva la processione dei pretendenti, già se la immaginava maritata al rampollo di qualche famiglia importante, circondata da uno stuolo di bambini gagliardi e pronti a far la riverenza all’orgoglioso Signor Nonno.
Meglio bella e un po' tarda che brutta ma intelligente, si diceva il Conte mentre guardava sua figlia giocare e cadere e sbucciarsi le ginocchia – meglio un po' sciocca che con la testa zeppa di strane idee, pensava mentre la tata accorreva a placare gli strilli di Benedetta, che a dieci anni ancora piangeva e se la faceva nelle mutande come quando ne aveva due e la balia tardava a portarle il latte.
I parenti si azzittivano e i maestri cambiavano, tanto che alla fine non ne venne chiamato più nessuno.
Benedetta si faceva sempre più bella, anche se a malapena aveva imparato a leggere e a scrivere. Aveva però imparato a pregare e a quello si dedicava con tutto il suo fervore, piccola e immobile davanti all'altare della cappella di famiglia, sola e sperduta tra le ombre della navata. Di quali biasimi dovesse chiedere perdono non si sa, ma Don Lanzino, il prete di famiglia, gliel'aveva detto: ogni donna nasce peccatrice, quindi prega, Benedetta, prega – e chiedi assoluzione a Dio, ché se la tua anima fosse stata pura ti avrebbe fatta nascere maschio.
Prega, Benedetta, prega – e infatti lei pregava, e non importava se fuori c'era il sole, non importava se i bambini delle serve erano ancora nei campi a correre nel grano; Benedetta la potevi trovare quasi sempre in chiesa a chieder clemenza per le sue colpe, la potevi trovare inginocchiata sul velluto del confessionale a salmodiare qualche atto di contrizione, un velo tirato sul capo e sulle spalle a coprire gli sgargianti vestitini a fiori e i gomiti sbucciati. Passavano gli anni e, pur con quel poco di sale in zucca che il Signore le aveva concesso, Benedetta cresceva beata, devota, amata e vezzeggiata.
Venne il giorno, doveva essere passato da poco il suo quattordicesimo compleanno, che Benedetta fu ritrovata sanguinante in mezzo ai campi, muta e immobile, pareva morta.
Ma non era morta, il cugino più grande si era divertito con lei e poi l'aveva lasciata lì, abbandonata nell'erba. L'avevano visto, nei giorni precedenti, che la faceva giocare, e Benedetta rideva mentre si davano la caccia per i giardini. Qualche zia aveva suggerito che era un po' sconveniente che una ragazza se ne andasse in giro così, le gonne tirate fin quasi al ginocchio, la faccia tutta rossa come una serva. E avevi il tuo bel da fare nel convincerle che Benedetta era solo una bambina – ma quale bambina, con quel seno che quasi straripava dal bustino troppo stretto – quale bambina, con quel corpo arrotondato e quelle gambe lunghe da gazzella? Il cugino le ronzava sempre attorno da quando era tornato dal militare, e naturalmente era stata colpa sua – di Benedetta – se s'era messo qualche idea in testa. La carne è debole e la donna è peccatrice, e non c’è penitenza che tenga.
Il Signor Padre non ci aveva visto più: svergognata, le aveva detto non appena Benedetta era stata riportata a casa e resa presentabile – svergognata, le aveva urlato, nonostante Benedetta non capisse nemmeno cos’era successo. Non lo capiva proprio perché si fosse ritrovata in quel campo con i vestiti e le carni lacerate, né comprendeva perché il Signor Padre fosse così arrabbiato con lei da batterla fino a lasciarle i lividi addosso. Capiva solo che il biasimo doveva essere suo, solo suo – come diceva Don Lanzino, come dicevano le zie, i cugini, tutti quelli che la guardavano e abbassavano gli occhi, scuotendo la testa.
Benedetta piangeva e pregava per le sue colpe, quelle nuove e quelle vecchie, pregava anche il giorno che fu portata via, senza un abbraccio, senza che nessuno venisse a salutarla, neanche il Signor Padre, neanche i cani che pure amava tanto. Stringeva forte il rosario tra le mani mentre la carrozza attraversava i lunghi filari di cipressi e varcava il cancello di ferro del convento.
Le fecero indossare le ruvide vesti del noviziato, le tagliarono i capelli per infilarli nella cuffia e le misero al collo il crocifisso di legno scuro con l’effige del Redentore. Ogni giorno, dopo le funzioni, Benedetta correva trafelata al cancello nella speranza di vedere la carrozza del Signor Padre, ma la carrozza non giunse mai, né mai arrivarono doni a Natale o a Pasqua, quando il convento risuonava delle allegre voci dei parenti in visita.
Chi vuoi che torni a prendere una svampita come te?, le dicevano le novizie mentre tutte insieme si davano da fare in lavanderia, brave e operose figlie di Dio, e Benedetta si guardava le mani screpolate e infilava le unghie nel sapone, senza sapere cosa rispondere.
Chi vuoi che si ricordi di una svitata come te?, ribadivano le novizie a mensa, tra una preghiera e l’altra, e la Badessa zittiva i risolini con un’occhiataccia.
Benedetta stringeva i denti e correva in chiesa, giorno dopo giorno, mese dopo mese, e sempre in chiesa la potevi trovare quando la primavera lasciò il posto all’estate e l’estate fece spazio ai primi freddi.
Avvolta nelle vesti scure, Benedetta si confessava, china sull’inginocchiatoio del piccolo confessionale di legno, le mani rese insensibili dal gelo e dalla liscivia; sciorinava ogni giorno i suoi peccati a Don Luigi, il sacerdote che veniva a dir messa in convento.
A Don Luigi piaceva la voce morbida di Benedetta, il suo pigolio spaurito da uccellino, gli occhi verdi che brillavano nella penombra. Gli piacevano soprattutto le sue mani piccole, amava baciarle e tenerle tra le sue mentre Benedetta sussurrava piano le sue frasi di poco conto, e lui neanche la ascoltava.
Gli avevano raccontato della sua vergogna, ma era bella Benedetta, bella da dannarsi l’anima – nonostante i suoi peccati, o forse proprio per quelli. Era un po’ stupida, è vero, ma Dio ama tutte le sue creature, anche quelle più sfortunate. L’aspettava tutti i giorni nel buio soffocante del confessionale, pazzo d’amore, apriva le imposte e le afferrava le dita sottili infilandosele tra le cosce. Lei provava a ritirare la mano, ma Don Luigi la stringeva più forte – metti la tua manina qui, Benedetta, le mormorava alzandosi di poco la tonaca – fai la brava, metti la mano qui sotto e tutti i tuoi peccati verranno lavati.
L’assoluzione arrivava puntuale e Benedetta ritornava ogni volta, piena di speranza, e ogni volta se ne andava col cuore alleggerito e le dita umide del sudore del prete.
Un giorno Don Luigi la chiamò in sacrestia, Benedetta ne uscì un’ora dopo con dieci Ave Maria da recitare per penitenza e una creatura ficcata a forza nel grembo.
La mandarono via quando iniziarono le nausee, nessuno ne fece parola. Le suore la guardavano con riprovazione – svergognata, sussurravano, peccatrice senza cervello – e Don Luigi non la voleva neanche più confessare, anche se lei andava ogni giorno a bussare alla finestrella del suo cubicolo, puntuale come una liturgia. Il graticcio rimaneva chiuso e Benedetta pregava da sola con la guancia appoggiata al legno, pregava tenendosi la pancia che già s’era ingrossata dentro le vesti.
Il sacerdote non si fece vedere neanche quando le sorelle la misero su una carrozza, con le sue poche cose infilate in un baule e giusto i denari per pagare la famiglia di fattori che l’avrebbe ospitata fino a quando avesse fatto quel che c’era da fare.
Il bambino nacque in ottobre, dopo un’estate passata a raccogliere fieno nei campi e a mungere vacche, il seno che si ingrossava e penzolava pesante quando si metteva in ginocchio sulle fredde pietre della sua stanzetta  per pregare al crocifisso appeso alla finestra; nacque che era cominciata da poco la stagione di vendemmia e le cime dei monti avevano iniziato a coprirsi di neve.
Partorì con l’eco dolce dei braccianti che cantavano raccogliendo l’uva e con la vociaccia della levatrice che la incitava e la scherniva mentre Benedetta si sentiva squarciare in due come un pollo da farcire – prima ti sei divertita e adesso piangi?
Il neonato era un ranocchietto rachitico, un girino tutto rosso e bianco che strillava da spaccarsi i polmoni, ma quando glielo misero tra le braccia Benedetta si sentì colmare d’amore per quella creatura, si sentì per la prima volta perfetta e pura e assolta e piena di grazia come una vergine immacolata.
Glielo tolsero che era ancora sporco del suo sangue, neanche si accorse quando glielo portarono via, stremata com’era, vinta dal sonno.
Al risveglio pianse e gridò e scalciò, si strappò i capelli, e continuò a piangere e a gridare anche quando la riportarono al convento, pallida e smagrita, gli occhi infossati nelle orbite come un’anima in pena.
Le suore la guardavano con compatimento  neanche si rende conto, dicevano, povero agnellino stolido, tempo un mese e avrà già dimenticato – ma Benedetta non dimenticava, le lacrime si asciugavano sulla pelle essiccata dal sale e gli occhi non trovavano pace.
Da allora si è messa a pregare giorno e notte, Benedetta, in chiesa a tutte le ore, anche quando fuori nevica e il gelo stringe il convento in una morsa senza perdono.
Prega per me vergine madre prega per me e dammi la pace dammi la pace dammi la pace, biascica Benedetta, il fiato che si condensa in nuvole di vapore e i denti che battono e marciscono nella piccola bocca, giorno dopo giorno, anno dopo anno, Padrenostro dopo Padrenostro.
Inverni sono venuti e passati, ma Benedetta è sempre lì, come un nodo nel legno, cero votivo corroso dagli anni, piccola icona sacra abbandonata e dimenticata, mai rimpianta, mai perdonata.
La dovresti proprio vedere pregare, Benedetta, senza quasi più capelli ormai, il corpo rinsecchito di cicogna malata, il seno vuoto come un seme in inverno.
La dovresti proprio vedere mentre prega. Non te la scorderesti più.







  
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Flora