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Autore: Pathetic    13/02/2016    6 recensioni
“Che cosa ci fa Freddie in una pozza di sangue?”
Non c’era nient’altro in quella stanza quella sera.
"È brutta questa, Fred."
La pioggia batteva senza vita sul vetro appannato della finestra.
“Che cosa ci fa, Georgie?”
E la stanza divenne muta, fredda come pietra.
“Muore.”
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Famiglia Weasley, Fred Weasley, George Weasley
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Shhh… Silence lies




Sentiva mille aghi sulla schiena, mille punture che lo trapassavano di netto senza smuoverlo di un millimetro, fili eterni che superavano gli ormai miserabili resti della sua anima e sfrecciavano silenziosi sino alla sua mente.
E facevano male.
Sentiva fiumi eterni di parole che lo facevano impazzire, lunghe strisce di invisibili sussurri e strascicati artigli. Alla fine l’aveva trovato, il suo buco nero.
E rimaneva lì, immobile come una statua, lo sguardo perso e irrecuperabile di chi ha gli occhi che affogano nel buio.
“Ti sono cresciuti i capelli” gli aveva detto Fleur in un disperato tentativo di attirare la sua attenzione e aveva ragione, ora quei fili del colore del tramonto riuscivano addirittura a graffiargli le palpebre, a rigargli gli incubi che gli rubavano le notti, a oscurargli con pietà quella vista spezzata della sua famiglia.
George era consapevole dell’aria stantia che gli entrava nei polmoni, li percepiva ampliarsi nel suo petto fino a dilaniare quello straccio rosso che non si decideva a morire. Riusciva a sentire il dolore che, imperterrito, continuava a offuscargli i sensi, l’eco delle voci che ancora non volevano abbandonare la sua memoria, il vuoto che percepiva nei suoi stessi pensieri e sin dentro le ossa.
Al contrario, il ticchettio che le sue unghie continuavano a provocare sul bordo del piatto in ceramica non era che un suono confuso nei battibecchi di famiglia. C’era una piccola parte di lui, un angolo della sua mente che era rimasto inalterato alla follia, che lo rendeva consenziente della presenza degli altri nella stanza. Sapeva fossero lì, semplicemente i suoi occhi non riuscivano a vederli.


Era finita.
Finita la guerra.
Finito tutto.
Finito lui.
Lui.
Lui era morto.
Loro erano morti.
Tutti e due.
Perché anche se il cuore di uno batteva e l’altro taceva,
un cuore che batte per soffrire non batte per vivere.

 

La cucina era piena di voci pazienti e concitate, di conversazioni lunghe e articolate, di facce allegre e spensierate, magari anche un po’ amareggiate, sfiduciate, desolate, rammaricate. Anche nelle lunghe chiacchierate che ravvivavano la stanza si poteva percepire la presente assenza che, con prepotenza, divorava i loro animi. E bastava una fugace occhiata all’angolo cupo e silenzioso della tavolata per comprendere che la guerra in realtà non era mai finita.

Molly aveva sei figli ora e uno di loro era pallido e magro, ricurvo sul piatto ancora pieno con le pupille distanti e un sole che, sulle sue labbra, era tramontato ormai da tempo. Gli zigomi via via più pronunciati, i capelli che parevano un’accozzaglia di aghi del colore del sangue, le lentiggini sempre più simili a pallide stelle, gli occhi vacui e esanimi.
“Che fine ha fatto mio figlio?” si chiedeva Molly Weasley mentre il suo sguardo indugiava più del dovuto sul capo del gemello che era sopravvissuto.

 

Gli incubi che lo venivano a trovare erano sempre un apostrofarsi di indicibili immagini,
un turbinio di sequenze rapide e disconnesse che affondavano i loro coltelli proprio dentro di lui,
là dove la carne faceva più male,
là dove il cuore pulsava fino a farlo urlare.
E non era la notte ad augurargli la morte,
anche il giorno si prendeva gioco del suo dolore.
Anche da sveglio gli orrori riuscivano a scalfirlo.
E portarlo giù.
Giù. Giù nell’abisso.
E ancora più giù.
Là dove un uomo che vive non avrebbe dovuto arrivare.

 

Non ricordava più il colore del cielo, nei suoi sogni era nero come l’inchiostro, nero come la veste spettrale che lei soleva indossare, come le scritte che non riusciva più a cancellare.
Traditore. Scrivevano nell’aria, un grido che si espandeva per la casa e si tatuava sulla pelle.
Debole. Gli sussurravano maligne quelle voci e intanto, col veleno, gliele sputavano addosso.
Pazzo. Sembravano scheletri pronti a squartarlo, spettri torbidi e minacciosi bramosi di ucciderlo.
“Sei morto. Sei morto.” Gli cantilenavano nell’orecchio e gli occhi cominciavano a bruciare, il sangue colava giù per le guance e gli rovinava i vestiti. E allora George guardava le sue braccia, guardava quella pallida pelle segnata di indelebile inchiostro: Traditore. Debole. Pazzo.
“Mamma” voleva urlare, ma dalla sua bocca non usciva un respiro e le lettere cominciavano a vorticare nauseanti sul suo corpo, ne macchiavano la giovinezza e sprofondavano giù nella sua anima, nei brandelli che di essa restavano, e li divoravano, li impregnavano del loro veleno e spremevano quel muscolo che ancora si ostinava a pompare quel sangue sporco. Ed era lì che George ritrovava la voce perduta. Era lì che cominciava a urlare.

 

Avevano capito che qualcosa già non andava quando avevano ritrovato la sua stanza disseminata di vetri infranti,
lo specchio che rifletteva i pezzi di un’anima già smembrata.
E di George non restava che una sagoma senza colore,
una vita inchinata alla morte.

 

Sentiva le sue vene scoppiare e riversare l’oceano di sangue che l’aveva tenuto in vita fino a quel momento, lo sentiva discendere bollente sulle sue dita e abbandonarlo con indolenza. Percepiva i battiti accelerati del suo cuore che ancora voleva combattere, la mente che si riempiva di sensazioni orribili.
E sapeva che stavano per arrivare. Sapeva che gli avrebbero fatto del male. Di nuovo. Ancora.
Le sentiva strisciare nella sua testa, il corpo ormai scosso dai tremiti.
Eccole.
Arrivano.
Sentiva la testa scoppiare, una serie di martelli che gli fracassavano il cranio fino a farlo piangere.
“Dovevi morire tu.”
Le posate avevano smesso di fare rumore, avevano smesso di tintinnare sui piatti come campanelli e far sorridere l’aria con la naturalezza di quei suoni.
“Non ti vogliono.” Le sue urla spezzarono la cena con violenza, si accasciò al suolo come un pazzo; le mani non toccavano, gli occhi non vedevano, le orecchie non sentivano.
“Dovevi morire tu.” Tremava, tremava come un ossesso, come un epilettico d’ospedale e non riusciva a sentire le braccia del padre, la presa di Arthur, che lo teneva stretto a sé tentando di calmarlo. Non riusciva a vedere le lacrime che rigavano le gote di sua madre, il panico che animava i volti dei suoi fratelli.
“Ucciditi.” Li vedeva tutti, vedeva tutti quei ghigni terrificanti, tutte quelle facce crudeli e senza pace, i loro mantelli neri, le loro bacchette puntate e quella luce verde che metteva fine a tutto.
“BASTA!!” stava urlando, gli occhi che non smettevano di lacrimare, l’impronta tetra di una supplica nella voce impastata dal terrore.
“NOOO!!!”  e intanto si divincolava, tentava in tutti i modi di sgombrarsi il cammino dai mangiamorte, ma loro persistevano e calavano un’ombra cupa sul suo volto.
“Dov’è Freddie?” Chiedevano in coro e ridevano, e le loro risate si tramutavano in serpenti, e i serpenti divenivano cenere. Sentiva il sapore delle fiamme in bocca, il fuoco che aveva arso il castello quel giorno di morte, la guerra che aveva portato la disperazione con sé, la polvere che si era alzata dal terreno e aveva offuscato il paesaggio.
“Tu hai ucciso Freddie.” Sentiva quelle stesse parole rimbombare eternamente sulle crepe del suo cuore, su quello scrigno ormai arrugginito dal pianto, e spezzarlo una volta per tutte.
“Mi hai ucciso tu, Georgie.” E la sentì stavolta, era una voce di bambino che parlava. Vide due occhi nella nube dei suoi deliri, uno sguardo vivido e malandrino che lo condannava a patire per la vita.
“Sei stato tu. Dovevi morire tu.”

 

La prima volta che l’aveva visto era stato sul vetro della finestra,
aveva riconosciuto subito i suoi capelli rossi, il viso di fanciullo,
 il sorriso mascalzone che non abbandonava mai i suoi occhi.
Già. I suoi occhi.
Due laghi d’acqua ghiacciata, di fango putrido e ostile,
un odio viscerale che gli sgorgava dalle pupille e avanzava fino ai suoi di occhi.
“Perché sei arrabbiato, Fred?”
“Io non sono arrabbiato. Io sono morto.”

 

Smise di lottare, gli occhi che tornavano a guardare quelli più vecchi, pazienti e pieni di preoccupazione di suo padre, Arthur lo fissava intensamente, le braccia nolenti a lasciarlo andare. Aveva il fiatone, poteva sentirlo inspirare profondamente nella leggera distanza che li separava. Bill stava abbracciando la mamma, che singhiozzava in modo irrecuperabile, straziata dalla vista.
Sentiva gli occhi di tutti puntati su di sé, il silenzio improvviso ed effimero che gli aveva invaso la mente in un istante. Appoggiò la testa sulla spalla del padre, unico scoglio in quel mare di orrore.
“Non lasciarmi” avrebbe voluto dirgli, ma ancora la voce pareva essersi assopita.
“E mi dispiace” avrebbe voluto aggiungere.

 

Al suo funerale non aveva voluto venire.
Nemmeno quando Arthur aveva tentato di alzarlo di peso dal materasso e Molly aveva cominciato a piangere.
Aveva urlato più forte di tutti, si era divincolato dalla presa del padre fino a che non gli erano uscite le lacrime
e Ron aveva detto loro di smettere di insistere.
Era rimasto su quel letto per tutto il pomeriggio e quelli a seguire,
in silenzio.
Nel silenzio che gli sussurrava che non era vero niente,
che Fred non era morto per davvero,
che era tutto uno scherzo.
Uno stupido scherzo.

 

Si trovava nella sua camera, suo padre era rimasto per una manciata di minuti per assicurarsi che l’attacco fosse realmente finito, poi gli aveva dato un bacio sulla fronte e gli aveva detto che sarebbero accorsi al minimo rumore e che se avesse avuto bisogno di qualcosa non avrebbe dovuto far altro che chiamare.
E aveva lasciato la stanza.
Ora George era da solo, la mente di nuovo svuotata di ogni pensiero, la pelle nuovamente priva di scritte assordanti.
Eppure sapeva di non essere al sicuro. Sapeva che sarebbero tornati. Sapevano sempre dove trovarlo. Sempre.
Stringeva le gambe al petto, lo sguardo spento fisso davanti a sé, le labbra dischiuse appena. I capelli gli ricadevano sul viso, ma non se ne preoccupava.
Ti sto aspettando, fratello. Pensò, le cicatrici che si riaprivano per l’ennesima ferita.
Vieni. Vieni a farmi del male. Qualcosa nel petto aveva ricominciato a battere, una sinfonia di note taglienti come fili di violino.
Uccidimi.
Fu un attimo.
Le lacrime cominciarono di nuovo il loro corso abituale, il corpo scosso dai singhiozzi e una voce che non gli apparteneva che cominciava a sussurrare.
“Che cosa ci fa Freddie in una pozza di sangue?”
Non c’era nient’altro in quella stanza quella sera.
“È brutta questa, Fred.”
La pioggia batteva senza vita sul vetro appannato della finestra.
“Che cosa ci fa, Georgie?”
E la stanza divenne muta, fredda come pietra.
“Muore.”

 

Hai sempre amato gli indovinelli, eh, Freddie?

 







Questa storia partecipa al Psycho!Contest indetto da Chia_3 sul forum di Efp.

Ho volontariamente omesso il nome della malattia di cui George ha cominciato a soffrire in seguito alla morte del fratello, ossia la schizofrenia.
Molti confondono questo disturbo mentale con il DDI, soprattutto a causa di film come "Io, me e Irene". In realtà la schizofrenia non implica un disturbo dissociativo della personalità dell'individuo, ma tra i sintomi principali vi sono allucinazioni -perlopiù uditive-, abulia, depressione, disinteresse per il proprio corpo o l'igiene personale, anedonia, delirio ...

Credo -e sentitevi in dovere di correggermi se sbaglio- che le malattie mentali rientrino nelle cosiddette tematiche delicate e ho deciso di inserire l'avvertimento Contenuti forti perché penso che i disturbi psichici disturbino alcune persone più di altre.

George è naturalmente sconvolto dalla morte di Fred e si sente in qualche modo colpevole per essergli sopravvissuto.
Traditore, perché vivendo sente di tradire il legame che aveva con Fred, come se avesse dovuto morire con lui.
Debole, perché non è in grado di andare avanti e passa le sue giornate a maledirsi per questo.
Pazzo, perché continua a sentire voci maligne, condanne, colpe, suoni e immagini che non appartengono alla realtà.

La figura di Fred è un po' contorta, me ne rendo conto. George è talmente sicuro di star tradendo il fratello, che vive nella convinzione che lui lo odi. Ho voluto rievocare un Fred bambino che lo fissa dalla finestra con occhi privi d'affetto perché volevo, come dire, distruggere il passato ilare e pieno di gioia dei gemelli per enfatizzare il senso di colpa che affligge George e quanto esso sia radicato nella sua mente.

Ho sempre pensato che gli indovinelli tetri siano la cosa più inquietante e disturbante del mondo, l'idea di un Fred morto che stuzzica il fratello con battute di così pessimo gusto, mi ha attratto sin da subito, tanto che sono state addirittura le prime parole che ho messo giù.

Bene ^-^ ringrazio tutti coloro che hanno letto, chi è riuscito ad arrivare fino alla fine di queste note eterne e un abbraccio a chi è stato in grado di ritagliarsi un po' di tempo per laciarmi una recensione *bacio*

Grazie,
e ci si legge ;)
   
 
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