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Autore: sognovanesio    22/03/2009    1 recensioni
Lavoro introspettivo che reputo sia di grande intensità. Personaggi che appaiono come ombre che vecchi passati mal definiscono. Come alla luce di una candela, come al lume di una luna indifferente, la percezione di uno stile un pò leopardiano, un pò romantico. La memoria che, ostinata, non vuol andar via e che lascia un sapore amaro, a tratti dolciastro. L'impressione che noi diamo di noi stessi non è altro che la proiezione esternata di quelli che sono i nostri ostacoli interiori.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Notturno Chopiniano (in La minore)

Notturno Chopiniano (in La minore)

 

 

 

 

-Guarda… sono appena uscita da facoltà. Ti prometto che appena avrò un attimo di tempo libero, ti chiamerò. Sai che mantengo le promesse.- Ed un sorriso caldo spuntò sul viso rotondo di Flora. Quando Lara cominciava i suoi lamentosi sproloqui sul fatto che non la considerasse nessuno sfociava nel comico.

 

Un attimo di silenzio. Un’altra frase che pretende attenzione.

 

-Certo, Là. Ho la giornata completamente libera. D’accordo. Il 24, okay. Torna a lezione. Ci sentiamo stasera!- e dopo uno sbrigativo saluto chiuse lo sportellino del cellulare.

 

Flora era quella tipica ragazza eclettica, sempre impegnata e priva di tempo libero da dedicare ai suoi amici. Ed era proprio di quello che la sua “sorella-amica” si stava lamentando in quel momento. La sua inafferrabilità, come un raggio di sole, come il vento che spalanca violentemente le finestre a primavera. Magari anche come un’onda di mare, fatta di acqua cristallina e salsedine.

 

Aveva avuto così tanto da studiare in quei giorni che aveva completamente dimenticato di avere una vita sociale. Un vero martirio, per lei. Ma l’esame era vicino e non poteva permettersi il lusso di fallire e perdere altro tempo. Sarebbe stato uno schiaffo agli sforzi che suo padre Nino faceva economicamente.

 

Commerciante di materiale artistico, guadagnava poco e male nella sua lontana Sicilia. Solo e senza alcun affetto familiare a confortarlo, Flora sapeva benissimo quanto ogni giorno piangesse la morte di sua moglie Rita, avvenuta per fatalità la Vigilia di Natale di due anni addietro, quando la vita le si era rivelata subdola e priva di qualsiasi scrupolo. Al pensiero di suo padre strinse involontariamente il cellulare tra le dita, come a sentirlo vicino a sé, vicino nei momenti di minor serenità, nei momenti in cui rimpiangeva la voce melodiosa di sua madre.

E dietro quel sorriso si celavano le paure peggiori che il Natale recava con sé: la fobia di quella lunga serata a casa, lei e suo padre, attendendo una donna che tardava a rincasare, l’orologio alla parete batteva i minuti in maniera incessante, non un attimo di pietà, non un secondo di cuore. La cena freddata sul tavolo, l’albero acceso e tristemente lampeggiante… e lo squillo al telefono di casa… la sua signora è deceduta circa un’ora fa… ne siamo certi, purtroppo. Abbiamo ritrovato i documenti… un motorino, supponiamo, ma è da appurare… fuori città… si, si… aveva in mano un biglietto aereo…

Ma quello era il suo regalo di Natale, per mandarla a Roma a studiare Lettere e Filosofia. E se sua madre non fosse andata a comprarglielo, sarebbe stata ancora viva…

 

Ricordi e poi ricordi, rimorsi e dolori… mordevano…

 

-Scusi, signora. Ha bisogno di una mano?- ecco cosa succedeva a non prestare attenzione. Una signora sulla sessantina e le sue arance rosse per terra. Alcune ancora rotolavano via.

 

-Per la miseria, ragazza! Fà attenzione a dove cammini!- ma già era piegata a terra e raccoglieva i frutti per ridarli alla donna. L’ultima arancia se la portò al naso e sospirò:

 

-Non sente odore di sole?-

 

-Sento solo odore di fretta. La tua sbadataggine avrebbe potuto farmi male.- e poi una mano le strappava via l’agrume e lo rimetteva in busta. Neppure un saluto e già era altrove, la signora. Flora sola sul marciapiede. Sorrise, allora, e sussurrò sarcastica:

 

-Carina…- ed un pensiero che, quella donna, non fosse affatto come sua madre. Affatto. Ma non avrebbe dovuto darci peso. L’allegria che la mattinata regalava non andava sprecata in simili scempiaggini. Perché era una di quelle mattinate che ispiravano serenità, la gioia frenetica di un consumismo natalizio superficiale e futile. E la possibilità di lasciar marcire se stessi ed i propri problemi irrisolti per un altro po’, si. Come accadeva da due anni, ormai.

 

Attendeva quel giorno da tanto, per esempio. Quell’attesa le metteva addosso la forza per andare avanti e la curiosità di esplorare ogni giorno con un sorriso. Come se ogni istante fosse l’ultimo, come se quel giorno fosse la Vigilia di Natale di due anni fa e lei fosse sua madre, questa volta consapevole che la morte poteva fermarsi da lei da un momento all’altro. Come un vecchio autobus arancio, sbiadito, il motore rumoroso di una corriera anni ’50.

 

Era un peccato che le orecchie umane non fossero in grado di coglierne il rumore. Gli eventi, in caso contrario, avrebbero preso un corso diverso.

 

Aveva un incontro che lei riteneva importante. Per lei era improrogabile, non vi poteva rinunciare.

 

Svoltava angoli, imboccava vie che diventavano man mano più strette. La folla svaniva lentamente, il rumore più lontano e fievole come nebbia che svaniva col sole. E lei incedeva e continuava a farlo, un sorriso sul viso rotondo, le labbra rosse di loro distese a respirare una giornata tersa, anche se un po’ rigida per via dell’inverno. Non era difficile dire quanto il suo cammino fosse durato. Non aveva l’abitudine di misurarlo in minuti, il tempo. Tutto dipendeva dal rumore che riempiva le strade e che man mano scivolava via come una lacrima su un vetro appannato. Poteva dire di essere arrivata a destinazione solo quando non sembrava più di star camminando per una strada di Roma ma per una via deserta, sospesa nel tempo, silenziosa. E dolcemente cullata, poi, dopo alcuni passi, da una musica di violino lenta e trascinante. Proveniva sempre da una finestra che si affacciava sulla stradina e che veniva lasciata aperta in qualsiasi periodo dell’anno, come se chi suonasse non si curasse affatto del clima ma fosse solamente intento a far musica, unica sua ragione di vita. Anzi, rifletteva Flora impaziente e trepidante, la temperatura non faceva altro che essere inglobata nella melodia: si acuiva come per esprimere il freddo che doveva star provando il compositore ma anche il suo umore e le sue sensazioni. Un compositore che non si stancava mai di suonare, incurante del tempo, incurante degli eventi e della vita che trascorrevano frenetici fuori da quella finestra.

 

Poteva dire che quel giorno era malinconico, Flora. La melodia pizzicata al violino mal si intonata con il sole che tentava invano di riscaldare le acque impietose del Tevere. Un flusso di note delicate che affluivano al suo orecchio con incommensurabile dolcezza. Un modo di osservare la vita con un sorriso malinconico.

 

Si accinse a bussare al citofono scarno. Contrastava con la palazzina bassa che sembrava appartenere ad un’altra epoca, ad un’altra città. Come fosse un frammento di vita a sé, una scheggia di esistenza che faceva un corso proprio. La nenia continuava a riempire l’aria, rivelando parti nascoste dell’animo del compositore, sogni che teneva gelosamente nascosti nel suo intimo e che le parole mai avrebbero potuto rendere per intero. Senza sminuirne il concetto.

 

Fantasie che si sommavano a fantasie. Altre ancora. Alleggerivano la realtà.

 

-Sono Flora, signora. Buongiorno.- una voce gracchiò sorridente un saluto. Il portone scattò qualche istante dopo, aprendosi e permettendo alla giovane di entrare. Non le ci volle tanto per abbandonare la strada vagamente appiccicosa per la gelida umidità e raggiungere una porta d’ingresso finemente lucidata, dalla tinta scura, la targhetta di un nome importante a sottolineare chi fosse il padrone di casa. Dei gradini massicci di granito avevano sorretto il suo passo, fremente di raggiungere la meta.

Bussò al campanello. Il suo dolce rumore risuonò ovattato nella scalinata, il suono del violino di certo più grave e malinconico di questo. Una signora anziana venne ad aprire: gli spessi occhiali per ipermetropia le ingrandivano gli occhietti neri che esprimevano curiosità e sincera contentezza. Era una donna accartocciata dagli anni, ben vestita per via della classe sociale della quale faceva parte nella Roma bene, i capelli brizzolati che ormai tendevano ad un bianco candido e la pelle molto chiara mostrava tutte le rughe che avevano accumulato le fatiche della vita. Magra, esile, un sorriso comprensivo ed accogliente. La nonna che avrebbe sempre desiderato avere.

 

-Buongiorno, cara! Che piacere vederti! Entra, ti prego!-

 

-La ringrazio infinite, signora. La trovo splendidamente, sa?-

 

-Questa benedetta ragazza eccede sempre troppo nei complimenti per lusingare l’animo di una vecchia signora come il mio… Dove sei stata per tutto questo tempo?- E nel frattempo Flora era entrata e la vecchietta aveva chiuso la porta dietro di lei, continuandola poi a rimirare con quello sguardo affettuoso che si riserva volentieri ad una cara nipote.

 

-In facoltà ogni giorno c’è una novità. In questo periodo gli esami si stanno facendo imminenti e non mi danno un attimo di tregua.-

 

-Quando vorrai calmarti un attimo? La tua giovinezza merita anche di essere vissuta. Non dovrai ricordarti solo le pagine di un libro quando avrai i miei anni!- ed una risata aggraziata e tossicchiata terminò il discorso. Flora si sfilò la sciarpa e l’appese con il cappotto bianco sull’appendiabiti elegante, slanciato.

 

-Voglio rendere orgoglioso mio padre. Al momento aspiro a questo.- La signora anziana le rivolse un sorriso silenzioso ma non aggiunse altro. Si diresse in salotto e la invitò a sedersi. Flora rifiutò gentilmente.

 

-Vado ad avvisare mio nipote del tuo arrivo. Non essere timida! Accomodati!-

 

-Si figuri!- ma da rituale lei sempre scuoteva il suo capo riccioluto e disordinato e la mano destra paffuta, rimanendo comunque in piedi. La signora con altrettanta ritualità si dirigeva verso lo studio del ragazzo e diceva qualcosa. La musica ad un tratto si dissolveva, lasciando nell’aria un senso di vuoto, come di favola di cristallo che si infrangeva tristemente a terra. E poi riappariva la signora e la invitava a percorrere il corridoio largo e ben areato. Per terra del marmo chiaro lucidato in maniera perfezionistica. Le pareti erano bianche, quasi come intonacate il giorno prima. Il corridoio terminava con una porta aperta, un minuscolo studio dall’aria raccolta. Una scrivania di legno massiccio occupava il centro della stanza. Una sedia imbottita, dall’aria vittoriana, foderata in pelle bordeaux si intonava benissimo con l’ambiente. Sulla scrivania fogli bianchi , accatastati ordinatamente ad un angolo del tavolo. Un portapenne in pelle vicino al bordo esterno e tanti fogli di spartito sparpagliati senza una regola un po’ dappertutto: sul tavolo, per terra, in bilico sul davanzale interno della finestra, su un leggio completamente orientato verso di essa. Qualche altro mobile basso qui e lì ed un’altra sedia in pelle a ridosso della parete, affianco alla porta.

 

Un ragazzo ad attenderla dietro la scrivania, in piedi, il violino ancora tra le mani con il suo arco. Un bel ragazzo che aveva all’incirca la sua età: statura media, un bel sorriso, sincero di vederla, che gli stendeva delicatamente le labbra sottili e rosee. Il viso curato nei minimi dettagli, non un tratto di viso su cui cresceva della barba incolta, non un difetto a sciuparne la perfezione quasi femminile. I capelli bruni gli oscuravano i tratti, il viso pallido, quasi cadaverico. Ma il suo era un candore congenito che faceva apparire i suoi occhi neri come occhi attenti anche a qualcosa che orecchie o occhi umani, troppo ancorati alla realtà, non riuscivano a cogliere. Davano l’impressione di un ragazzo come smarrito in un altro mondo, la cui sola presenza fisica lo tratteneva alla Terra. Ma anche la presenza fisica dava a tratti cedimenti di stabilità. E quella chioma scura che gli arrivava fino a qualche centimetro sopra le spalle, e quel ciuffo che gli copriva dispettosamente l’occhio sinistro non facevano che aumentarne il fascino anarchico e non ferocemente ribelle.

 

Un anarchico che credeva nel potere onnipresente della musica.

 

Un bel jeans nero si abbinava ad un pullover beige con una sola riga bianca orizzontale che gli passava giusto sul petto. Il colletto di una camicia bianca spuntava garbatamente da fuori. Rimase quasi incantata sulla soglia della porta a guardarlo; il suo carattere frizzante e spigliato volatilizzato, ormai quasi dimentica del motivo per cui era lì. Lui continuava a sorriderle non del tutto presente, rimanendo dell’altra parte della scrivania.

 

-Flora… che piacevole sorpresa…-

 

-Ho sentito da fuori che suonavi qualcosa. Spero di non averti disturbato.- e gesticolava imbarazzata, quasi timorosa di entrare nel suo studio.

 

-I giorni sono solo un susseguirsi di albe e tramonti. Un accumularsi di sospiri. La gente vive la sua vita illudendosi di star concludendo qualcosa… quante persone però lo stanno facendo davvero?- e le indicò con un gesto elegante della mano affusolata e curatissima di accomodarsi sulla sedia accanto alla porta. Il suo sorriso distratto continuava a stregarla.

 

-Poche, suppongo. Al giorno d’oggi si tende a sopravvivere.- ribattè con enfasi, l’aria da ragazzina sperduta sapientemente nascosta dietro un’apparente sicurezza cordiale. Lo sentì sospirare ed annuire aggrottando vagamente la fronte, come avesse udito nella sua mente una voce in disaccordo con l’atmosfera del luogo. Posò lentamente il violino sul tavolo e l’arco affianco e poi alzò il viso su di lei per ritrovarla sorridente, il viso vagamente paffuto ancora da bambina ad ispirare tenerezza. Attimo di silenzio. Il ticchettio dell’orologio a parete scandiva i battiti del tempo.

 

-Mia nonna appare trepidante ogni qual volta ti vede, Flora. Hai un piacevolissimo ascendente sulla sua persona…- La ragazza respirò insuperbendosi comicamente.

 

-Non credevo di avere la capacità di portare serenità ed allegria a quanti mi vedono…-

 

-Ti sottovaluti, allora… le doti nascoste sono sempre le migliori…-

 

-Che suonavi prima?- Dario la guardò pensieroso, di nuovo quella lontananza che lo separava anni luce da una realtà chissà quanto mai umana. Un attimo di pausa nella quale le scrutò sbadatamente i lineamenti mediterranei. Una ragazza corpulenta dai capelli neri, ricci e crespi, un sorriso contagioso come la sua allegria e delle sopracciglia folte e dal taglio nettamente siciliano. Un bello spettacolo genetico. Dopo riprese, come mettendola a fuoco:

 

-Io non stavo suonando… stavo parlando.-

 

-Parli con la musica?-

 

-Chi ha mai imposto di non farlo?-

 

-Nessuno, per fortuna. Esistono ancora certe libertà...-

 

-Bene, allora. Dovresti parlare anche tu con le note.- la ragazza rise e piegò il capo di lato per guardarlo scettica ed incantata:

 

-Oh no! No, no, Dario! Io non so parlare con le note! Questa è una tua assoluta priorità!- Il ragazzo girò intorno alla scrivania, fermandosi poi davanti a questa. Le si appoggiò sopra:

 

-La musica… cosa non è in grado di esprimere la musica? E’ uno degli errori che fa l’uomo: affidare alle parole ciò che un paio di note saprebbero descrivere meglio! Capisci adesso qual è lo sbaglio che macchia la nostra specie?- e i suoi occhi si accesero di interesse e passione.

 

-Sei un ottimo musicista, Dario. Ma non c’è bisogno che io te lo ricordi…- Per contro il ragazzo le rivolse un sorriso abbagliante e perfetto e si passò una mano tra i lisci capelli che odoravano di bagnoschiuma.

 

-Fa sempre piacere sentirselo dire. Anche se io non lo credo affatto.-

 

-Oh… ora sei tu che sottovaluti le tue capacità. Ti togli punti così…- e gli ricambiò il sorriso guardandolo con occhi ingenui. Lo vide incrociare educatamente le braccia sul petto, il silenzio sembrava far parte dello charme del quale si circondava. Bello, slanciato e magro, l’espressione distratta gli toglieva pesantezza: lo faceva apparire come privo di corporeità. La ragazza arrossì per l’attenzione che lui, sorridente, le stava concedendo.

 

Non aveva parole per esprimere quanto provava: un’agitazione simile a fuoco le incendiava il petto, un’attrazione psicologica verso quello che era lui, verso i suoi modi gentili, verso il suo comportamento sempre e comunque conforme al galateo. Era sempre stato il suo opposto: una ragazza rustica, sbrigativa, solare e con i piedi per terra, lei. Lui così etereo, gentile, dalle espressioni quasi femminili, senza mai perdere di virilità e contegno.

 

Un nobile, in pratica. Un appartenente alla Roma bene che, magari, ancora da qualche parte esisteva. Una volta le aveva raccontato la storia della sua famiglia, durante uno dei loro incontri pomeridiani, dove il tempo sembrava non esistere o scorrere troppo in fretta. Aveva parlato di conti, contesse che erano detentori di grandi fortune, di grande contegno e umanità. Signori nell’animo che il tempo aveva cancellato, come le onde portano via con sé delle orme sul bagnasciuga. Una leggenda, forse una favola sperduta nel mare del tempo. E i tempi d’oggi che avevano lasciato alla sua famiglia solo un cognome e delle maniere da uomini d’onore ad attestarne la grandezza. Oltre che una buona posizione economica.

 

Ma questa era una delle tante cose di cui il ragazzo le aveva parlato. Avevano in comune molto di più che una semplice passione per la cultura. Se Flora ne era affascinata e si faceva docilmente corteggiare da lei (con libri, quadri, teatro, musica e quant’altro), Dario la reputava la sua amante, l’unica donna che mai avrebbe avuto la capacità di tradirlo e di distruggere la sua personalità così sensibile e sottile. Un patto con un qualcosa di immortale, di diverso dall’umanità, dalla quale era stato dolorosamente ferito.

 

Viveva con sua nonna da quando aveva 12 anni. I suoi genitori lo avevano lasciato orfano in uno sfortunato incidente stradale che lo aveva visto perdere anche sua sorella maggiore, alla quale era tanto legato. Già bambino introverso di suo, il ritrovarsi senza famiglia ne aveva acuito l’intensità, al punto che non aveva amici, e non ne ebbe fino alla ventina, a parte il violino che suo padre gli aveva regalato per il suo undicesimo compleanno. E per lui suonarlo era come la chiave d’accesso ad un’altra realtà dove i suoi erano ancora vivi e non lo avevano lasciato solo. Come sentire ancora la voce di suo padre e sua madre. Come dare loro il fiato che un automobilista ubriaco e sotto l’effetto della droga aveva strappato loro prematuramente.

 

Dario non era tipo da arrabbiarsi col mondo e con Dio, maledire tutti e progettare vendetta, propulsore per una ripresa gloriosa che avrebbe fortificato il suo ego.

Dario soffriva e basta.

Ma sapeva nasconderlo molto bene, al punto che neppure sua nonna, che in lui rivedeva il padre, riusciva a decifrarlo e svelarlo.

 

Eppure lei lo percepiva e lo ammirava persino: perché lui guardava in faccia il dolore ogni giorno, abbracciando la sua croce e portandosela in spalla. Lei continuava a rifiutarla e a lasciarla coprire di polvere nel fondo della sua mente, consapevole che, quando sarebbe stato inevitabile affrontarla, il peso eccessivo l’avrebbe schiacciata. Forse lui un giorno sarebbe guarito; lei ne ignorava sintomi e malattia.

 

-Non vedevo l’ora di vederti… non ne potevo più…- si sentì bisbigliare con un sorriso infantile al suo indirizzo. Lo vide ricambiare l’espressione con maturità, malinconia recondita e vaga dolcezza,

illanguidita da pensieri che sembravano continuare a distrarlo.

 

-Tutte le dipendenze fanno male. Cosa dice la tua Filosofia?-

 

-Che… la dipendenza da una persona a volte può capitare…- ed abbassò lo sguardo sul pavimento lucidato e pulito. La sua voce arrochita per il tono basso che usava per risponderle, una conferma del fatto che lei era l’unica, o una delle pochissime persone, che avessero stabilito un qualche rapporto con lui:

 

-Questo è quello che pensi tu…- ma il loro rapporto era profondo. Dario stabiliva solo rapporti di quel genere.

 

-In effetti è così… Questo lo penso io…- lui non aggiunse altro. Inclinò il viso di lato e la osservò curioso, con tenerezza, un pizzico di apparente serenità. Dopo un po’ afferrò con delicatezza il violino e lo appoggiò nell’incavo della sua spalla sinistra, con l’arco in mano a sobbalzare di qualche millimetro.

 

Lo osservò ancora, sembrava così concentrato che a momenti esprimeva, con un’espressione, il dolore che la mente gli doveva star dando.

 

Occhi che studiavano la sua persona, occhi che fissavano i suoi occhi, non intenzionati a parlarle, perché le note esprimono molto più di quanto le parole sappiano fare. Altra dolcezza per lei, forse. O per il pensiero che gli attraversava il viso.

 

E poi lo vide chiudere gli occhi e suonare a memoria una melodia. Abbandonarsi completamente a lei, ai suoi gesti lenti e a tratti nervosi che compiva per accarezzare il violino, la sensazione di fusione tra lui ed il legno, l’aria fredda che penetrava nella stanza, il silenzio che faceva da sottofondo al suo aleggiare tra le pareti bianche.

 

Era una musica delicata, che lo portava a spostare il capo e la spalla a cui era appoggiato lo strumento con una lentezza ed una delicatezza quasi commovente, come a descrivere l’idillio che lui e la sua arte stavano avendo. Il suo completo farsi trascinare come un’onda nel mare in burrasca porta con sé la sabbia del bagnoschiuma. Un’estasi che si sentiva con la stessa intensità anche da fuori, anche dalla sua posizione di spettatrice. Quella musica a tratti malinconica, a tratti giocosa e divertente che graffiava e tremolava insieme ai gesti determinati ed esperti delle sue mani. Un vento fresco che arrivava dalla finestra e gli scompigliava i capelli ma lui incurante continuava a parlarle, a raccontarle di sé e di altre cose di cui a voce non avrebbe mai parlato. Una dolce ninna nanna che a tratti diventava spinosa, come violenta, impetuosa. E da lì i suoi gesti si impennavano, diventavano teatrali, i suoi occhi si serravano come se stesse provando dolore di fronte a quelle note che da raccontare avevano molto.

 

Quel suono le prese il cuore, glielo strinse tristemente in una morsa senza speranza. Le sembrava di sentire la sua voce bassa, senza nessuna inflessione  regionale di preciso, narrarle di una storia molto più complicata di un semplice racconto. Le sembrava sentito, vissuto interiormente con tragicità. Le sembrava le stesse raccontando una parte di sé, dei suoi sentimenti che a galla non venivano mai quando parlava. Lo vedeva colpire quasi con rabbia e violenza le corde del violino e mordersi il labbro inferiore con i denti, come per evitare di urlare. Strinse maggiormente le corde dello strumento. Un suono acuto ed agghiacciante di dolore risuonò nella stanza.

 

Poi uscì fuori nel vicinato deserto.

 

Lo vide allontanarsi dal tavolo e piegarsi un po’ di lato. Il suono che ne ebbe origine fu malinconico e nostalgico, colmo di rammarico. E poi divenne una nenia di nuovo dolce, che entrava nel cuore. Colma di amore e di tenerezza. E poi di nuovo come un’altra voce che rispondeva a quella dolce.

 

Flora chiuse gli occhi ed un’immagine soffusa prese vita nella sua mente. Le stava raccontando una storia d’amore tra due giovani così diversi, così uguali. Lui soffocato dai suoi rimorsi, incapace di uscirne e di assicurare un futuro radioso a lei. Soffocato dalla sua interiorità, dal suo pessimismo che si adagia sul fondo, che non ha voglia di combattere. Le chiede di guardare oltre lui, intorno a sè, alla ricerca di qualcun’altro che si faccia meno problemi, che abbia la capacità di assicurarle la felicità. E’ una richiesta dolorosa, che dentro lo piaga perché per lui è la cosa più bella che abbia mai incontrato sulla sua strada. Una parte di sé è troppo egoista per desiderare la libertà di lei, il suo bene. L’altra è disposta a sacrificare ancora, l’ennesima volta, se stessa per la persona che ama, spingendola a ricercare fuori una felicità surrogata, un’illusione che anestetizzi un po’ il dolore della sua mancanza. Lui prova rabbia verso di sé, vorrebbe essere diverso ma non può. Ha già provato e non ci riesce. La luce di lei è la sola terapia che possa riportarlo alla vita. Ma con la sua presenza rischierebbe di affievolirla, di ucciderla. Lei non crede alla sua freddezza esteriore. E’ troppo innamorata per fermarsi alle apparenze. Gli dice che sa aspettare, che se sarà necessario invecchierà pur di attenderlo, affinché anche lui trovi la propria libertà da sé. Il tutto si conclude con una promessa da parte di lui.

 

Quando riaprì gli occhi la musica aveva smesso di animare la stanza, lasciando un musicista immobile, appoggiato al suo strumento, come per riprendere aria. Come se il buttare fuori tutti quei tumulti interiori lo avesse affaticato. Affascinata notò una lacrima percorrere la sua guancia rasata alla perfezione. Scomparve velocemente alla sua vista, quella pausa troppo lunga per non sottolineare il suo gesto musicale.

 

Quando anche lui ebbe riaperto gli occhi la guardò intensamente per un attimo, gli occhi umidi che non avrebbero versato altre lacrime per orgoglio. Dopo il suo sguardo cambiò e fu mascherato con un sorriso sereno.

 

Tutta una finzione per sfuggire da sé.

 

Flora aprì un paio di volte le labbra carnose e non emise alcuna parola. Dopo bisbigliò ancora impressionata:

 

-Davvero… notevole.- Lui non aggiunse nulla e si limitò a sorridere educatamente, il suo sguardo una lenta carezza sulle sue guance. Dopo lo sentì sospirare e le diede compostamente le spalle, forse per sistemare il violino sul tavolo, forse per respirare una boccata d’aria pura, ancora. Allora lei prese coraggio e domandò, guardandogli intensamente la schiena:

 

-E come va a finire questa storia d’amore?- Attimo di pausa. Dario smise di armeggiare col suo violino. Un respiro profondo, più degli altri.

 

-Lui è estremamente complicato dentro, Flora… dovrebbe rinascere daccapo affinché le cose funzionino come devono. Come lei vorrebbe. Come meriterebbe che le accadessero.-

 

-Lei è piena di speranza. E’ disposta ad attenderlo tutta la vita…-

 

-La vita è un battito di ciglia così leggero… per coglierne il senso non sarebbero sufficienti tutte le promesse del mondo…- le sussurrò di rimando.

 

-Ma lui manterrà la sua promessa?- chiese lei bruscamente, mostrando la sua impulsività solare. Dario si girò per scrutarla, come ponderando la risposta migliore da darle. Rimase un minuto buono ad osservarle gli occhi scuri, limpidi, in attesa di risposta, trepidanti.

 

-Chi può saperlo, in fondo? La storia è solo a metà.- e poi le rivolse un altro sorriso che andava via via allargandosi sul viso. Un’ombra malinconica nei suoi occhi. La ragazza si sentì avvampare ed abbassò il viso, sorridendo controvoglia a sua volta.

 

-Mi spiace farti accomodare nello studio, ogni volta che vieni a trovarmi… sono un pessimo ospite.- e si mosse verso un mobile basso, dal quale estrasse una bottiglia ambrata. Doveva essere liquore pregiato.

 

-Al contrario, invece. Sei sempre così gentile…-

 

-E’ quanto di più intimo possiedo qui. Qui passo le mie giornate. Le pareti sono colme della mia musica. La mia camera da letto a volte mi è estranea.- poggiò la bottiglia sul tavolo. Poi fu la volta di due bicchierini a calice, eleganti, semplici, luccicanti.

 

-Io passo più tempo in cucina. Non so perché, ma mi ricorda la mia terra.- Il ragazzo rise divertito ed obbiettò seducente, più di quanto volesse realmente apparire:

 

-La Sicilia… terra di bontà culinarie, delle arance e del sole.-

 

-E terra di affetti. Prima di tutto è quello.- Un vago sorriso ancora sulle sue labbra sottili. Un invitarla ad alzarsi e a prendere posto accanto al tavolo, al posto suo. Flora ubbidì ricambiando il sorriso. La sedia sulla quale era accomodata prima fu spostata di fronte a lei. Lui vi prese posto soddisfatto. Rimasero un attimo a fissarsi in silenzio. Il freddo pungente non lo scalfiva.

 

Sembrava fatto di ghiaccio morbido.

 

La ragazza allora mormorò:

 

-Perché tieni sempre aperta la finestra?- Il ragazzo abbassò lo sguardo sui bicchieri luccicanti e gliene avvicinò uno in silenzio. Lei in silenzio lo afferrò. Lo vide aprire con calma la bottiglia. Appena fu stappata un aroma pungente si diffuse nell’aria fredda. Le versò con educazione una giusta quantità di liquido prezioso. La versò a sé. La bottiglia tornò al posto di prima.

 

-E’ un cognac squisito. Ha almeno 7 anni di vita.- stava sfuggendo.

 

Quella finestra aperta per lui valeva cose che nessuno poteva comprendere. Non sarebbe stato difficile capire che forse non avrebbe parlato.

 

-La tua passione per liquori del genere è innegabilmente raffinata.-

 

-Momenti speciali. Li apro quando si verificano momenti speciali.- lei era uno di quelli. Le sorrise il cuore.

 

-Rischierai di farmi perdere il senno, allora… ogni volta che vengo a trovarti mi dai assaggio di meraviglie sempre diverse.- Dario rise brevemente. Dopo bevve con garbo e per qualche secondo. Quindi prese a far oscillare il liquido chiaro nel vetro del calice. Come ipnotizzato dal suo movimento bisbigliò:

 

-E dimmi, dunque: ogni momento è ripetibile?- Breve esitazione. La sua risposta.

 

-No... Credo di no.- lo vide annuire d’accordo, un vago sorriso malinconico gli fermava i tratti delicati. Una bellezza irraggiungibile che nemmeno il tempo avrebbe intaccato e che il dolore continuava a modellare e scolpire. Portò il proprio bicchiere alle labbra. Ne annusò l’odore pungente e poi bevve un buon sorso.

 

Cognac francese. Fortissimo. Non era abituata a bere, lei. Le penetrò nello stomaco bruciando silenziosamente quanto giaceva al suo interno. Pensieri ed emozioni. Anche quelli. Quasi li anestetizzava, li rendeva più mansueti e distaccati da sé. Quel gusto né amaro, né dolce, quel gusto come una carezza data con troppa forza, rabbia repressa nei propri confronti. Desiderio di esplodere.

 

Dario era fatto così: non usava parole. Anche il liquore faceva parte del suo linguaggio. Le stava facendo provare il suo stordimento interiore, la sua rabbia schiacciante. Quel fuoco che a lui bruciava tutto, a lei si limitava ad incendiarle lo stomaco. Le regalava un piccolo frammento di sé. Lei lo custodiva gelosamente, difendendolo dal mondo e da se stessa. Lo vide chiudere gli occhi, serrare le palpebre e buttare giù un altro sorso di cognac. Per sentirsi più leggero. Quando non suonava ricorreva a stratagemmi del genere. Dopo lo sentì mormorare:

 

-L’aria è di quanto più innocente e libero c’è.- Flora appoggiò il bicchiere sul tavolo e sospirò osservando la sua espressione contratta in una morsa di dolore. Una tagliola sembrava dilaniarlo dall’interno. Lei impotente osservava. –Come la musica. Come la luce del sole.-

 

-Non è colpa di nessuno.-

 

-Suono per chi mi vuole ascoltare. Racconto la mia vita.-

 

-Qualcuno l’ascolterà sempre, Dario.- e avrebbe voluto prendergli la mano e stringergliela forte. Avrebbe voluto fargli capire che era lei quella che avrebbe voluto udirla per sempre. Quella che lo avrebbe aiutato a trasportare la sua croce. Non sarebbero più stati soli. Non avrebbero…

 

-Non sono che accordi. Non sono parole… non ti lasciano mai solo. Non ti racconteranno mai bugie.-

 

-Credi che qualcuno te le racconterà mai?-

 

-Qualcuno, qualcosa… qualsiasi…-

 

-Qualcuno che farà di te il centro della sua vita?- Dario si riprese dallo stato in cui era caduto e la fissò intensamente negli occhi per poi sorridere, il suo dolore di nuovo celato:

 

-Morirei per l’arte…- le spezzò il cuore. Sorrise tristemente ed abbassò lo sguardo sul proprio grembo. Altro silenzio tra loro.

 

Erano arrivati ai saluti.

 

Quando rialzò il viso lo trovò ad osservarla. Tristezza infinita nei suoi occhi. Si alzò barcollante. Il cognac non stava influendo sulla sua andatura.

 

-Si è fatto tardi…-

 

-Si… si è fatto tardi.- gli rivolse un sorriso di circostanza e si guardò intorno impacciata. Dopo fece il giro della scrivania e gli andò vicino per salutarlo. Lui rimase a fissarla seduto. Tormento, altro ancora. Non voleva che andasse via.

 

-Tornerò appena…- ma scosse la testa e face qualche movimento con le braccia nervose. Le mani veloci, troppo veloci per non trasmettere il suo stato d’animo semidistrutto. Il suo ottimismo e la speranza solo di superficie.

 

Sospirò e, non riuscendo a trattenersi, si allontanò velocemente da lui. O almeno ci provò. Sentì una mano che afferrava la sua con delicatezza, la stessa con la quale trattava il suo violino. Interruppe il suo cammino e si girò a guardarlo sorpresa. Lo vide baciarle dolcemente la mano e le nocche. Le strinse per un secondo il palmo, come per imprimersi nella pelle il suo tocco. Dopo la lasciò andare via.

 

Lentamente.

Con malinconia.

 

Lo guardò un’ultima volta e lui ricambiò il suo sguardo. La guardò intensamente e poi le sorrise con tristezza. Si portò l’indice e il medio alle labbra e le soffiò via un bacio.

 

Chiuse gli occhi.

Accostò la porta alle proprie spalle.

 

 

 

 

  
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