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Autore: Black Swallowtail    15/02/2016    2 recensioni
Non ho mai chiesto di divenire una cacciatrice. È un destino che non ho scelto io, ma mi è stato imposto e non ho potuto fare altro se non chinare la testa ed accettare in silenzio, con rassegnazione, conscia del fatto che fosse un cammino doloroso ed innominabile da apparire ben peggiore della strada che conduce alla morte stessa.
(...)
Sembra esitare per un lungo istante, prima di parlare di nuovo, “Nashetania.”
“Mh?”
“Pensi ci sia differenza...” una pausa “...tra noi e le bestie?”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hunter

Non ho mai chiesto di divenire una cacciatrice. È un destino che non ho scelto io, ma mi è stato imposto e non ho potuto fare altro se non chinare la testa ed accettare in silenzio, con rassegnazione, conscia del fatto che fosse un cammino doloroso ed innominabile da apparire ben peggiore della strada che conduce alla morte stessa. Non mi avrebbe atteso una morte fisica – ma la decadenza del corpo, e poi il lento disgregarsi della mente che si sarebbe crogiolata nella più nera follia. Ne ho visti, di cacciatori infetti; la maledizione non risparmia nemmeno noi, non lascia scampo nemmeno a coloro che la combattono con tutto loro stessi, che lasciano che essa sbocci con la presunzione di controllarla. Perfino Laurence ne è divenuto una vittima, uno di loro. Quando ha ricevuto la notizia, Gehrman ha schioccato la lingua, come deluso. Come se sapesse. Null'altro. Nessuna altra reazione. È stato un duro colpo, per lui; il suo fisico già provato è sembrato prostrasi del tutto, cadendo inerme su una sedia a rotelle, come incapace di rimanere in piedi, schiacciato da un peso invisibile tale da renderlo infermo.

Quanto tempo fa è stato? La notte, qui a Yharnam, non sembra dover passare mai. Potrebbero essere trascorsi anni, così come poche ore, dal momento in cui ho poggiato qui il mio primo passo. Ho combattuto senza sosta, senza sentire stanchezza; mi hanno ferita e bruciata, lacerata, schiacciata, ma ogni volta mi sono rialzata e mi sono abbeverata del loro sangue, lasciando che il suo sapore ferroso invadesse la mia bocca, scendendo con il suo tepore pungente ed amarognolo tra le mie labbra, attraverso la gola, risanando ogni squarcio, ogni danno. Ma non ha mitigato il dolore, una divorante agonia crescente in me, esplosa in tutto il mio corpo ad ogni nuova lama o artiglio che mi ha raggiunto lambendomi, desiderando la mia fragile vita.

Solo qui, ho capito quanto poco valga la mia vita, quando possa sparire in un soffio, senza nessuna possibilità di difendermi. Per la prima volta, penso di provare davvero una sensazione di fragilità – di morte imminente, sempre incombente. Ed è per questo che la mannaia non si è fermata un solo attimo, non ha mai smesso di fendere e lacerare, farsi strada nella loro carne, nei loro corpi corrotti, resi cadenti e deboli dalla malattia sempre più potente, sempre più crescente, strappando dalle mani di questi abitanti perduti l'effimera, ultima scintilla di umanità nei loro cuori, la loro esistenza condannata a svanire, divenire null'altro che un'espressione della piaga. All'inizio, le loro grida mi hanno scosso – accecati dal morbo, da una fede corrosa in un culto caduto, con gli occhi cuciti per non dover guardare l'incubo che è divenuto il mondo in viso, mi hanno riversato sulle spalle ogni colpa; “Vattene via, schifosa bestia infetta!”, “è tutta colpa tua!”, “Muori, per Dio! Per Dio!”, grida che si sono alzate dai vicoli in cui questi malati di sono persi, camminando senza alcuna meta, in processioni vuote, mosse solo dall'odio e dal terrore sottile di una minaccia troppo grande per essere affrontata. Come un mostruoso richiamo infernale, si sono levate le loro urla di dolore e di agonia, mentre la mia lama ha tagliato i loro corpi, ne segava le ossa e divorava la carne. Questa, per loro, è la più alta forma di pietà: una morte rapida, prima che vengano del tutto corrotti e trasformati negli stessi mostri che odiano.

Non so cosa avesse in mente Gehrman. Non so come pensasse di salvare un luogo tanto perduto e decadente come Yharnam. Non sembra esserci un modo per risolvere la situazione, è tutto semplicemente fuori dalla nostra portata – l'unico modo, sarebbe distruggere tutto, non lasciare nulla in piedi. Ed anche così, la piaga forse rimarrebbe. Vivrebbe ancora in noi. Tutti i cacciatori, perfino alcuni tra gli Anziani, non sono tornati. Nessuno di loro ha inviato un rapporto o si è messo in contatto con la Chiesa, lasciando tutto avvolto nel mistero, ed ora che ho visto quale inferno sia sbocciato nel mezzo di questa città, posso comprendere perché. Sono tutti morti, o folli, impossibilitati a sfuggire da questa notte infinita. Ma Gehrman è sinistramente astuto, un manipolatore esperto, un subdolo pianificatore che ha fatto del suo ruolo un mezzo, anche dopo il momento in cui la perdita della gamba non lo ha costretto a ritirarsi – è una figura di alleato misterioso, che non scopre le sue carte, che si limita a guardare senza intervenire direttamente, come seguendo uno schema in cui noi non siamo altro che pedine. È capace di uccidere chiunque osteggi queste macchinazioni invisibili a noi così in basso. Dopotutto, grazie ad una infinita esperienza di anni ed anni passati in questo mondo, Gehrman è sempre stato, chiaramente, la mente dietro a tutti i cacciatori, pronta a supportare l'intera macchina che egli ha imbastito.

Quando sono stata inviata a Yharnam, nonostante avessi appena terminato l'addestramento, mi sono ripromessa una cosa; mi sono detta che non sarei morta. Che non avrei mai lasciato il mio corpo in questa città marcente. Ho giunto le mani in una silenziosa preghiera, senza trovare le parole adatte, né qualcuno a cui affidarmi, perché nella mia testa c'erano solo immagini apocalittiche di bestie disumane che non riuscivo nemmeno a concepire del tutto. L'unica cosa di cui ero sicura, era che da quel momento avrei scritto la mia storia, avrei iniziato ad inchiostrare le prime parole sulla pergamena vuota che era stata la mia esistenza fino a quel momento. Senza alcun ricordo del passato, senza alcuna via per il futuro se non quella di andare incontro alla morte seguendo il cammino di cacciatrice.

Fresca del Contratto, stringendo convulsamente la mia arma, avvolta nel mantello, ho guardato la città avvicinarsi attraverso i vetri sporchi ed opachi della carrozza fatiscente diretta verso i cancelli dell'inferno che era la città fatiscente e perduta di nome Yharnam.

Ho promesso a me stessa che non avrei mai lasciato la mia vita in questo luogo. Che avrei continuato a combattere e a vivere, ad ogni costo – e che avrei rivisto l'alba, vissuto abbastanza da poter vedere nuovamente il sole sorgere tra i tetti.

 

Non posso certo dimenticare il Contratto, il primo ed unico che abbia mai siglato. Ho sentito il sangue maledetto scivolare nelle mie vene, mentre con le dita tremanti ho scritto il mio nome, nello spazio bianco rimasto alla fine del piccolo foglio sgualcito – Nashetania. Gehrman, attraverso i suoi occhi ciechi, nascosti dalle pezze grigiastre e consunte, non ha smesso un secondo di osservarmi, nemmeno mentre mi allontanavo, uscendo nella pioggia battente e nel vento ruggente, barcollando verso la carrozza che attendeva pazientemente. Quando un singolo lampo ha squarciato la notte, ed ho alzato lo sguardo verso l'alto, lui era lì, sulla sedia a rotelle, lo sguardo che ancora mi seguiva attraverso la vetrata del balcone. Solo qualche tempo dopo, ho scoperto che anche lui si è recato a Yharnam, a dimostrazione che qualcosa si sta muovendo, dopo tanto tempo.

Non ho fatto altro che uccidere e proseguire senza mai fermarmi. Uno dopo l'altro, meccanicamente, li ho fatti a pezzi. Sono divenuta un'automa il cui unico scopo di vivere è uccidere. Ho seppellito il sapore della bile ed il disgusto per le mani imbrattate di sangue, cremisi, caldo, così pulsante e lucido da tingere completamente i vestiti con gli spruzzi di ogni nuovo colpo inferto. Il mantello, che prima era nero, ora è totalmente imbrattato e pregno da non poter essere più lavato. La lama della mannaia non ha perso il filo, non ha mai vacillato, come a rappresentare una volontà inattaccabile che invece manca nel mio animo; sulla sua lama, la frase incisa non ha nemmeno un graffio. Fedele fino alla fine - “Che mi sia concessa forza”. L'ho ripetuta talmente tante volte, scorrendola con le dita guantate, lettera per lettera, come una preghiera, una formula a cui aggrapparsi per non cadere preda degli incubi.

Yharnam non fa paura, noi cacciatori non possiamo certo provarne. Non possiamo temere nulla, nemmeno la morte stessa. Ma allora, perché il mio cuore non smette di battere all'impazzata? Perché quando, alla fine della battaglia, sento il corpo collassare, non posso fare a meno di provare una fitta allo stomaco? Nonostante tutto questo, ho continuato. Ho camminato nelle strade devastate, ho abbattuto creature abominevoli vomitate direttamente dagli abissi infernali, sotto un cielo oscuro ed illuminato appena da una luna cremisi, come se sanguinasse beffarda assieme a noi che ci scanniamo di fronte al suo volto indifferente.

A volte, mi chiedo quanto siamo diversi dalle bestie. Mi chiedo, ora che usiamo il loro sangue come fonte del nostro potere; ora che bevendo il loro, il nostro corpo si risana; ora—possiamo ancora definirci umani?

“Sei una recluta?” chiede tetramente il cacciatore seduto sul bordo del cavalcavia, senza staccare lo sguardo annoiato puntato al di sotto, assorbito dal lento movimento dei paesani che, in una sinistra processione, trasportano il grosso cadavere di una bestia simile ad un lupo dal folto pelo nerastro ed i denti ancora digrignati, trascinandolo verso una enorme pira che sta già ardendo di fiamme arancioni, lingue di fuoco che si innalzano danzanti al centro della piazza sottostante.

“Sì. Mi chiamo Nashetania. Sono qui per cacciare,” rispondo laconicamente, tirando su il bavero del cappotto e tormentando una ciocca di capelli albini con le dita nervose.

L'altro ride amaramente, “Come tutti noi, bocciolo. Sei proprio sfortunata. La tua prima caccia, qui, a Yharnam… forse sarà la prima di tante e potrai un giorno vantarti di essere sopravvissuta ad un incubo come questo. O forse morirai. Non vedrai più l'alba. Proprio come noi altri.”

“La situazione è talmente disperata?” Non riesco a nascondere l'incertezza nella mia voce, quando la domanda scivola tra le mie labbra. È una domanda quasi retorica. L'intera faccenda va ben oltre la disperazione, sfiora l'impossibilità. Qualcosa che va oltre le nostre capacità. Una malattia misteriosa, una notte infinita, nemici in ogni dove e nessun luogo sicuro sono solo i primi problemi di una lista che potrebbe procedere ancora a lungo. Il cacciatore si volta verso di me, ed un sogghigno si arcua improvvisamente sul suo volto nel vedermi ricoperta di sangue, così tremante, “Ora come ora, solo un miracolo può salvare Yharnam. Ieri un gruppo di cacciatori ha tentato di infiltrarsi nella cattedrale, per scoprire cosa è successo alla Chiesa della Cura. Erano tipi che sapevano cosa facevano, reduci da molte cacce – nessuno di loro è tornato.”

“C'è qualcosa?”

Il cacciatore scrolla le spalle, e tende il braccio ad indicare una tozza costruzione che si staglia imponente in lontananza, torreggiando su tutti gli edifici attorno, talmente massiccia da ispirare un senso di soggezione al solo guardarla, “Non qualcosa. Qualcuno. O meglio, non so quanto sia rimasto di umano in lui; un tempo era uno di noi, prima di cedere alla follia. Era uno dei migliori. Non era di queste parti, veniva da lontano, da una terra perduta che ha già sperimentato l'apocalisse – e forse per questo è un uomo tanto inflessibile. Sempre che possa chiamarlo ancora così.”

È con le mani che stringono convulsamente il manico della mannaia, come ad aggrapparsi all'unica cosa in grado di darmi sicurezza, che ho il coraggio di chiederlo, “—Chi è?”

“Lo chiamano Padre Gascoigne. L'unico modo per entrare nella cattedrale è ucciderlo. Rinuncia, bocciolo, non sei all'altezza.”

“Ho capito,” deglutisco, voltandomi senza guardare indietro e sentendo le mani tremare “Grazie dell'aiuto.”

“Non vorrai mica andare da lui, bocciolo? Non sei al suo livello. Appassirai e ti strapperà senza alcuno sforzo ancor prima di sbocciare.”

“—Devo farlo. È mio dovere,” un dovere che non ho scelto io, vorrei aggiungere, ma posso solo mordermi il labbro ed allontanarmi, con lo scalpiccio dei miei stivali che ritmicamente percuotono il selciato, sempre più velocemente. Ancora prima di rendermene conto, sto correndo. Correndo nelle fauci del mio destino. Il cuore sembra voler esplodere, e il corpo non vuole smettere di tremare. Un cacciatore non deve temere nulla. Eppure, in questo momento, io… provo paura. Sto davvero andando a morire?

No, non è così. Prima di venire qui, ho promesso a me stessa che non sarei morta. Non ho potuto scegliere il mio cammino, il mio fato. Non ho scelto di essere una cacciatrice. Ma sono io padrona della mia vita, della mia umanità. Siamo così diversi dalle creature che cacciamo? Non so dirlo. Forse, non siamo mai stati davvero umani. Forse, siamo stati corrotti fin dall'inizio – solo una bestia può uccidere un'altra bestia. Ma se così non fosse, se potessi scegliere, allora rimarrei attaccata alla flebile umanità che mi resta. Rimarrei un essere umano, per un'altra battaglia. Ed è per questo che combatto. Per questo devo vivere. Conservare la mia umanità.

Con un grido, mi lancio sul ponte; con un suono secco, la mannaia si apre. La sicura della pistola scatta. In lontananza, la campana della cattedrale batte un colpo.

 

La mannaia fende l'aria senza posa, colpendo una, due, tre volte. Sguscia tra i loro utensili, oggetti raffazzonati, raccolti da case in rovina per combattere invasori mostruosi; un'accetta da taglialegna sibila, minacciando di abbattersi sul mio cranio, ma un semplice movimento della mia arma, ben più lunga e rapida, è sufficiente a tagliare via la mano dell'aggressore all'altezza del polso, e poi la testa dietro di essa. Una tempesta di acciaio che colpisce senza posa. Un colpo di pistola che esplode nel viso di un paesano, infrangendosi tra i suoi occhi, è l'ultimo rumore della battaglia che si spegne, lasciando alle mie spalle solo cadaveri. Con una torcia raccolta da uno dei corpi privi di vita e mutilati, fendo le tenebre con il riverbero aranciato delle fiamme, appena sufficiente a rischiarare la spessa oscurità notturna, così innaturale. I corpi alle mie spalle iniziano a decomporsi rapidamente, divorati dalla malattia che va spegnendosi, a ricordarmi che nessuno ne è immune, nemmeno noi cacciatori. Noi conviviamo con essa, e ne sfruttiamo il potere – ogni goccia di sangue infetto è, per noi, come un sussurro lontano che batte ritmicamente nei nostri polsi, nelle nostre vene, all'interno di un corpo che di umano sembra possedere solo l'aspetto. Per questo, li chiamano Echi del Sangue.

La campana rintocca ancora, forte, il suono che richiama i fedeli ad una messa inesistente, ad una adunata impossibile. La cattedrale, isolata dall'esterno, si è chiusa in se stessa ed appare come un torreggiante bastione, una fortezza che getta la sua ombra soffocante verso il basso. Un tempo, doveva essere stata simbolo di speranza, ma ora non ne resta niente, se non un vecchio luogo che incuba la decadenza. Possibile che al suo interno, vi sia qualcosa di ancora peggiore di quel che si aggira all'esterno?

Spengo la torcia, quando giungo davanti ad un cancello arrugginito che dà su una fitta massa di lapidi disposte disordinatamente attorno ad un grande monumento funebre, usurato dal tempo e dalla devastazione, dall'abbandono. Il silenzio che fino ad un attimo fa gravava su di me, rotto solo dal fioco rintocco che si spegneva della campana, vine interrotto da un ritmico rumore di qualcosa che si abbatte continuamente, senza pietà, su quelle che dal suono sembrano essere carni, poggiate su pietra – il rumore di un macellaio che fa a pezzi la sua preda. La lama che scava, lacera e strappa. Lo conosco bene. L'odore di morte è un miasma che riempe le narici in un miscuglio rivoltante del tanfo dolciastro di corpi putrescenti e di sangue pungente, di sudore e malattia, un morbo che non si cura e che ruba non solo il corpo, ma anche l'anima e la mente, corrompendole una ad una.

Chiunque sia parte del mondo dei cacciatori conosce Padre Gascoigne. La sua abilità è rinomata tra noi ed è considerato un elitista, seppur non abbia mai avuto contatti con Gehrman, limitandosi a lavorare per la Chiesa della Cura. E, nonostante la sua fama, la sua forza, la sua fermezza, è divenuto uno di loro. Per questo, non posso fare a meno di esitare quando la mia mano si poggia sul gelido ferro del cancello del cimitero, con il respiro pesante e un peso opprimente nel petto. La lama si abbatte sulla carne, mandandomi brividi gelidi lungo la schiena.

L'inferriata si apre con un lento cigolare di cardini arrugginiti, ma senza opporre alcuna resistenza, segno che qualcun altro prima di me è già passato da queste parti. I cacciatori che sono venuti qui per tentare di entrare nella cattedrale. Non posso fare a meno di chiedermi se quel che stia facendo non sia una follia totale. Sicuramente lo è, perché non ho alcuna speranza di vincere. Eppure devo farlo, non ho altra scelta. Non l'ho mai avuta. Non ho deciso io di essere una cacciatrice – ma posso decidere di sopravvivere. Sopravvivere anche a questo.

Padre Gascoigne è estremamente alto. Nonostante sia piegato in avanti, impegnato in quel ritmico, ripetitivo gesto di abbattere l'ascia che regge nella mano destra contro il corpo dalla forma vagamente umana, provocando alti spruzzi sanguinolenti che colano ai lati dell'altarino posticcio che funge da banco da macello, sembra comunque abbastanza grande da torreggiare su di me. Un'impressione che si realizza perfettamente quando, dopo che ho mosso i primi passi all'interno del cimitero, il suo braccio si ferma a metà dell'ennesimo colpo e il suo naso inizia a fiutare l'aria come fosse quello di un animale. Senza voltarsi, si alza da quella posizione ripiegata, rivelandosi abbastanza alto da sovrastarmi per ben più di qualche centimetro, e la sua voce rauca raggiunge le mie orecchie con un suono tetro e vuoto - “Bestie ovunque... Presto anche tu sarai uno di loro...”

Sono le uniche parole che pronuncia. Parole cariche di una funerea sentenza, seppure vaga, e non riesco a dire se stia parlando perché è qualcosa che ha provato sulla sua pelle, o perché forse, nella follia della piaga, non ricorda nemmeno di essere divenuto una creatura bestiale, come se avesse perso tutta la sua coscienza. In un attimo, ha attraversato il cimitero; è bastato un singolo scatto, un balzo su una lapide, ed è arrivato su di me calando dall'alto, l'ascia che ha compiuto un rapido quanto pesante arco verso il mio corpo. La velocità impressionante con la quale si è mosso è seconda solo alla forza impressa nel colpo: quando, istintivamente, muovendomi secondo i dettami della sopravvivenza e dell'addestramento, alzo la mannaia a bloccare il colpo, sento il braccio intorpidirsi per la potenza dell'attacco del mio nemico. Non ho tempo di riprendere fiato, perché un arco lucente nell'aria, poco più di un leggero scintillare sotto le tenui luce biancastre del cimitero, mi avverte del nuovo colpo. Di nuovo, lo intercetto, ma questa volta l'impatto è abbastanza forte da farmi barcollare all'indietro; un secondo, un grugnito di Gascoigne, sono il preludio di un nuovo affondo. Rotolo all'indietro, sentendo la lama dell'ascia che scivola ad un soffio dalla mia testa. Poi, il rumore secco di una sicura che scatta, e quello di una granula di proiettili. Mi tuffo dietro ad una lapide, e la sento tremare sotto l'impatto dei colpi sparati dal fucile che regge nella mano sinistra. La metà destra del mio corpo, quella che ho utilizzato per bloccare l'ascia, formicola, perdendo sensibilità, dolorante. In lui, c'è una forza mostruosa, qualcosa che non riuscirò mai ad eguagliare – la forza di un vero cacciatore.

Infrango una fiala di sangue tra le dita, lasciando che curi le ferite interne del mio corpo intorpidito. È questione di un secondo, nulla più di un attimo. Un attimo di troppo. Prima ancora di rendermene conto, l'ascia si abbatte sulla lapide alle mie spalle, spaccandola in una pioggia di frammenti marmorei; la lama rimane incastrata per qualche istante, e Gascoigne contorce il viso in un'espressione di furia, sussurrando qualcosa tra i denti che non riesco a discernere. Le sue palpebre cucite si contraggono. È la mia occasione, il momento di attaccare. Di farmi strada nella sua carne. Non esito, non ora; nonostante il mio intero corpo sia gridando di fuggire, nonostante senta le gambe molli e i palmi delle mani sudate, nonostante ogni singola fibra del mio essere sa che sto combattendo per la mia vita una battaglia disperata, non fuggo. Non esito. L'unica cosa che posso fare, non come cacciatore, ma come persona, come me stessa, è continuare a combattere, e vivere, vivere con tutte le mie forze. Ed è con questi pensieri che meno un grande fendente con entrambe le mani strette attorno al manico della mannaia, verso il collo di Gascoigne.

Per un istante, credo di potercela fare. Credo di poterlo uccidere. Dopotutto, in questo colpo, ho messo tutta me stessa; ho messo ogni singolo briciolo della mia volontà, ogni goccia della mia determinazione, ogni frammento della mia forza. Questo attacco è portato con tutto quel che ho, ed in esso è contenuta la mia speranza, la mia decisione, la promessa che ho stretto con me stessa prima di entrare a Yharnam.

Per un istante, credo di potercela fare. Ma è solo un momento. Gascoigne alza con una velocità disumana la mano destra e, davanti al mio sguardo terrorizzato, stringe la lama della mannaia, bloccando il mio attacco senza mostrare alcuno sforzo. È come se l'arma fosse conficcata in un muro, non riesco a strapparla dalla sua presa; una cascata di sangue cola tra le sue dita, gocciolando a terra. Le sue narici si dilatano, come annusando questo odore, proprio come farebbe una bestia, un animale che abbia sentito il tanfo di una preda.

“—Questo odore… è sufficiente a rendere un uomo folle...” le sue rauche parole grattano sinistramente contro le mie orecchie. Poi, prima che io possa reagire in alcun modo, prima che riesca a prendere coscienza di me stessa, strattona con prepotenza la mannaia verso di sé, facendomi perdere l'equilibrio; caracollo in avanti, trascinata da quell'impeto improvviso, impossibilitata a fare nulla se non tentare penosamente di rimanere in piedi.

E, davanti ai miei occhi, estrae l'ascia dalla pietra infranta della lapide. Non sono abbastanza veloce. Sono lenta, troppo lenta, infinitamente lenta. Sono stata…

L'ascia si abbatte sul mio avambraccio. È sufficiente un solo colpo. La lama mi trapassa come se fossi fatta di cartapesta. Un taglio netto, che sega le ossa e la carne, tranciando via di netto il mio arto. È come se il tempo fosse rallentato di colpo, mentre guardo il mio stesso braccio destro cadere a terra con la presa ancora stretta sul manico della mannaia, in una pozza di sangue.

Non sento niente.

...Sono stata un'illusa. Ho davvero pensato… di poter vincere?

Di poter vivere?

—Perché proprio IO?!

“UAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!”

L'urlo di dolore che esplode dalle mie labbra risuona tetramente per tutto il cimitero.

Stringo il moncherino, quel che resta del mio braccio, mentre il mio intero corpo crolla contro il muro alle mie spalle, contro le scale che danno verso la cattedrale, che sembra guardarmi con la stessa indifferenza della luna sopra di me.

Urlo, urlo con tutto il mio fiato; stringo l'arto mutilato, e sento il sangue che zampilla tra le mie dita, il dolore che esplode in ogni angolo del mio corpo, una fiammata che sembra dover divorare ogni parte di me. Un dolore che non ho mai provato prima. Non importa quanto urli, non importa quanto stringa, il flusso non si ferma, continua a fluire come una cascata cremisi che cola, cola, cola, imbratta i miei vestiti, aggredisce le mie narici. Sono riversa nel mio stesso sangue.

Attraverso il velo delle mie lacrime, attraverso il mondo offuscato, riesco a vedere l'ombra di Gascoigne che si avvicina, con l'ascia stretta in entrambe le mani ed un'espressione indecifrabile sul volto.

Non ho più la forza di urlare, solo di gemere a bassa voce. E piangere. Piangere senza poter fare nulla. Cos'è cambiato, allora? Sto davvero per morire? Morire così?

Dopo tutto questo?

Dopo tutte quelle promesse?

Esausta, guardo la luna cremisi sopra di me. La guardo che brilla beffarda, pulsante al centro del cielo scuro, nuvoloso.

“...Perché?...”

Le uniche parole che escono dalle mie labbra.

Perché devo morire?

Non ho potuto mai scegliere nulla. Sono stata raccolta da un orfanotrofio, abbandonata da tutto e da tutti, e sono stata addestrata a divenire una Cacciatrice. Non ho mai provato l'affetto di un genitore o di un amico, solo le atrocità di un addestramento per combattere mostri e impurità vomitate dagli incubi dell'uomo. Non ho mai avuto un'esistenza mia, solo subordinata al ruolo assegnatomi in tenera età – perfino il mio nome, perfino quello non è mio. Perfino quello mi è stato dato da Gehrman.

Tutti quelli che conoscevo se ne sono andati. Sono morti. Sono rimasta ancora più sola di prima.

Ma dentro di me, ero convinta che avrei potuto ricominciare.

Se solo avessi potuto iniziare tutto daccapo, lontano da qui, un milione di miglia lontano…

Chiudo gli occhi.

Avrei trovato un modo.

 

..Ma questa è una… musica? Un carillon?

Sbarro lo sguardo, puntandolo di colpo alle mie spalle, da dove sento arrivare una tenue musica che risuona flebile per tutto il cimitero. È una figura nera, con il volto coperto da un alto bavero ed un ampio cappello. Il mantello lungo scivola a terra, lambendo appena le cosce e gli stivali consunti che hanno conosciuto migliaia di scontri. Nella mano destra, ha una mannaia. Un'arma da cacciatore.

Nella sinistra, il carillon che emette questa malinconica melodia vibrante, come se riempisse l'aria con il suo suono palpitante, carezzevole, abbastanza da scaldare per un attimo il cuore. Una canzone che parla di affetti perduti. Una canzone… che un padre suonerebbe alla propria figlia.

Gascoigne crolla in ginocchio, stringendosi le orecchie. L'ascia cade a terra con un tonfo, mentre lui emette una serie di grugniti mostruosi pieni di sofferenza, come scosso nel profondo da quella musica.

La mia coscienza è vacillante, ed il dolore mi sta divorando. Ho perso troppo sangue e l'attacco precedente mi ha intorpidito. Sto morendo. Eppure, quella figura appena entrata nel cimitero, di cui riesco a vedere solo due occhi rossastri nel buio, mi riempie di speranza – una sensazione che credevo già perduta per sempre, introvabile in un luogo come Yharnam. Con sicurezza, ripone il carillon nella tasca della giacca… e balza, la mannaia che si apre a mezz'aria, atterrando sopra a Gascoigne, conficcando l'arma a fondo nel suo petto, facendo leva con lo stivale destro. Poi, con uno sforzo sovrumano, ruotando su se stesso, solleva il corpo trapassato del cacciatore folle e lo scaglia contro il monumento, producendo un sinistro rumore di ossa incrinate e pietra rotta. Respira a fondo, ma senza nervosismo o timore. Mi getta un rapido sguardo, nota il braccio mutilato e schiocca la lingua con disappunto.

“Tieni. Per ora, è tutto quello che posso fare,” mi lancia una fiaschetta colma di sangue brillante, “Fermerà l'emorragia.”

Senza un'altra parola, si volta ad affrontare nuovamente Gascogine. O meglio, quello che dovrebbe essere Gascoigne.

Mi sono chiesta più volte quale possa essere la differenza tra noi cacciatori e le bestie di Yharnam. Entrambi sfruttiamo il sangue per divenire più potenti, e noi addirittura ci abbeveriamo del loro per rimarginare le ferite del corpo – ma nonostante questo, conserviamo un sentore di razionalità. Di quella che è definita “umanità”.

Ma guardando Padre Gasocigne, quel che resta di lui, quel che è divenuto, non posso che giungere alla conclusione peggiore – non c'è niente di diverso tra noi e loro.

Deve essere alto circa tre metri, ma la sua posizione ingobbita potrebbe trarmi in inganno. Le sue braccia oblunghe conservano ancora una forma vagamente umana, ma le dita sono divenute veri e propri artigli animaleschi, oblunghi ed affilati, di un sinistro color pece. Il viso, al di sotto di una massa di pelo grigiastro ed ispido, tuttavia, mantiene fattezze che potrebbero essere ricollegate a quelle di un umano, se non fosse che la sua bocca, visibilmente più grande, assomiglia terribilmente al muso mostruoso e schiacciato di una bestia folle e corrotta. Con un ruggito mostruoso, la bestia che era Padre Gascoigne, balza contro il nuovo cacciatore; fino all'ultimo secondo, rimane immobile come una statua. Quando ormai è su di lui, ed io ho provato a gridare di fare attenzione, senza ottenere null'altro che un vuoto gemito di dolore, scatta in avanti, sgusciando tra le gambe animalesche della creatura, i cui artigli afferrano soltanto i resti di una lapide. La mannaia si conficca nella schiena della creatura, e la sua mano scivola ad afferrare un'urna di petrolio, che scaglia sui cenci e sul pelo che ricoprono la bestia.

Prima che possa allontanarsi, tuttavia, Gascoigne si volta di scatto, scrollandoselo di dosso e lanciandolo a terra. Il cacciatore si ritrova schiacciato a terra dalla presa poderosa del suo nemico. Tuttavia, nonostante abbia lasciato che tra le labbra gli sfuggisse un basso rantolo, non sembra intenzionato ad arrendersi. La sua mano affonda nella giacca… e la musica suona di nuovo.

Contro ogni previsione, nonostante sembri aver perso la sua umanità, qualcosa di Padre Gascoigne resta in quella creatura, perché lascia la sua preda per indietreggiare e iniziare a scuotere la testa, a sbattere le zampe a terra, tormentato ancora dalla melodia. Quell'istante, quella finestra è quanto basta al cacciatore per agire. La lama della sua mannaia si infiamma dopo che vi riversa sopra il liquido di una molotov. Lo ha già cosparso di liquido infiammabile, quindi… punta ad ucciderlo con il fuoco.

Epurare con le fiamme la piaga, ed il male. Così aveva detto Gehrman.

Davanti ai miei occhi, riesco a capire cosa intendesse. Il cacciatore arriva vicino alla bestia, ed evita il suo tormentato sbattere i pugni a terra; arrivato al petto, dal quale gocciola il liquido, affonda la sua arma e colpisce, senza fermarsi, innumerevoli volte, spostandosi ogni volta, facendosi sempre più vicino al viso della creatura, che nel giro di qualche istante è divenuta una grossa massa di fiamme agonizzante. Il cacciatore la guarda negli occhi ciechi, cuciti, come a cercare l'umanità che vi resta.

Schiocca la lingua. Non so se l'abbia trovata, o no. Tuttavia, non c'è esitazione nell'affondare l'arma nella bocca del mostro, lacerando la mandibola e facendo divampare le ultime fiamme arancioni e rossastre che lo trasformano in un un'unica, ululante massa di scintille infuocate.

Il cadavere della bestia che è stata Padre Gascoigne crolla a terra, senza vita, mentre il fuoco si dissipa, lasciando nulla più che una carcassa bruciata.

Il cacciatore mi lancia uno sguardo di sottecchi, “Il sangue si è fermato?”

“Ah… sì.” sussurro, stringendo il moncherino del mio braccio, ormai guarito grazie alla fiaschetta che mi ha dato, “Io… non so come ringraziarti. Pensavo di morire.”

“Ho solo fatto il mio lavoro.”

“Aspetta. Dimmi… dimmi almeno come ti chiami.”

“Ha importanza? Siamo solo cacciatori.”

“Voglio sapere chi sei. Il nome di chi mi ha salvata.”

Sembra esitare, per un istante, ma poi, chiudendo la falce con un rumore secco, “Garkrod.” risponde, muovendo i primi passi sulla scala che porta all'entrata della cattedrale.

“Io mi chiamo Nashetania.”

“—Faresti meglio ad andartene da Yharnam. Non puoi certo continuare a combattere così. Non avresti dovuto fin dall'inizio.”

“Non ho potuto sceglierlo. Sono… stata cresciuta per divenire una cacciatrice.”

È come se digrignasse i denti, “Capisco.”

“Continuerai la tua caccia?”

“Non ho altra scelta. Sono stato cresciuto per questo. Devo trovare...”

“...il sanguesmunto, vero?” abbasso lo sguardo, verso le mie gambe raccolte al petto, “Allora vai. Non perdere tempo con una come me. Ormai non servo comunque più a nulla. Però, prima…” metto la mano nella tasca, fino a trovare un piccolo oggetto che gli lancio debolmente, e che afferra al volo, “Un pettine. Me lo ha dato Gehrman, il primo cacciatore. Mi ha detto che mi avrebbe portato fortuna… da piccola, sembra che fosse lui a spazzolarmi i capelli con quello. Vorrei che lo avessi tu. È una sorta di portafortuna.”

“Portafortuna, eh?”

“Sì. Ti proteggerà mentre riporterai la speranza a Yharnam. Riporterai l'alba su questa città.”

“Non è presuntuoso affibbiarmi questo incarico? Sono solo uno tra i tanti.” sbuffa, stringendo l'oggetto prima di metterselo nella tasca, “Mh, va bene. Tuttavia, sarà meglio che tu sia ancora viva, quando sorgerà di nuovo il sole – non voglio sentirmi in colpa per averti tolto il tuo portafortuna.”

“Stai tranquillo. Ho promesso a me stessa che non sarei morta qui.”

“Meglio così...” mugugna, voltandosi ed arrivando al cancello. Però, non sembra voler procedere. Sembra esitare per un lungo istante, prima di parlare di nuovo, “Nashetania.”

“Mh?”

“Pensi ci sia differenza...” una pausa “...tra noi e le bestie?”

“Onestamente? Non lo so. Tuttavia, credo che se tu ti ferissi, e sentissi ancora dolore, e quella fosse l'unica cosa reale su cui concentrati; se l'ago aprisse un buco, e ricordassi quel dolore come familiare; e se, nonostante tentassi di non farlo, ricordassi ancora tutto...” il mio sguardo va al carillon che sporge dalla tasca del cacciatore, “...allora non importa che bestia tu sia diventato. Qualcosa di umano, in te, sarà rimasto.”

“—Capisco.”

Queste sono le sue ultime parole. Il cigolare del cancello mi dice che ormai è dentro la cattedrale.

Non ho ancora la forza di rialzarmi. Non ho più forza per fare nulla. Ma devo vivere, vedere ancora l'alba.

Con il braccio che penzola troncato ed inerme al fianco, mi avvicino alla mannaia abbandonata a terra, e la afferro con la mano sinistra. Il suo peso, così poco familiare da questo lato, mi dà comunque un senso di sicurezza.

Con un sospiro, ed un gemito di dolore, barcollo fino al cancello del cimitero.

La campana in lontananza riprende a suonare.

Non posso di certo smettere di combattere.

Non ho mai potuto scegliere nulla nella vita. Né il mio destino, né il mio nome. Ho scoperto di non essere padrona nemmeno della mia vita o della mia umanità.

Ho voluto tante volte poter iniziare d'accapo, lontano, per trovare una via. Per trovare un modo. Ma ci sono cose che non possiamo avere indietro.

Guardandomi ora, l'unica cosa che posso chiedermi è – cosa sono diventata?

Non importa quel che accadrà. Attenderò.

Ci sarà un'altra alba.

Ora ne sono sicura.

 

 

   
 
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